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Né giovane, né Holden: l’eredità di Salinger 67 anni dopo

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Alfonsa Laonigro

Il 16 luglio 1951 l’editore Little, Brown and Company di New York vince una scommessa sul futuro. Ha appena dato alle stampe The Catcher in the Rye (Il giovane Holden), il primo romanzo di un autore noto, fino allora, solo per un certo racconto – ne parleremo tra poco – e per qualche altro contributo pubblicato sul New Yorker. Quell’autore è Jerome David Salinger, un reduce di guerra. A ventisei anni era entrato coi suoi commilitoni nel lager di Dachau, per non uscirne, in un certo senso, mai più; l’odore dei corpi bruciati, per sua stessa ammissione, gli sarebbe rimasto addosso per sempre. Tornato in patria, tenta di sublimare il disturbo post-traumatico da stress nel racconto di cui sopra, una storia amara e pungente: Un giorno ideale per i pescibanana, che nel 1948 gli vale il plauso del grande pubblico (e che nel 1996 ispirerà l’omonimo cortometraggio di Francesco Merini, vincitore del premio Iceberg). È forse sulla scorta di tale fama che, tre anni dopo, Little, Brown and Company decide di accettare quella scommessa.

Jerome David Salinger (1919 – 2010).

Il primo romanzo di J. D. Salinger nasce dall’esplicita volontà dell’autore di consacrare un personaggio già apparso in uno dei suoi racconti, Slight Rebellion off Madison, pubblicato dal New Yorker nel 1942, ben prima del successo dei Pescibanana. È qui che fa la sua prima apparizione un Holden Caulfield ancora allo stadio embrionale, ben lontano dall’icona pop che sta per diventare. Salinger si fa Geppetto e lavora al suo Pinocchio, lo affina, lo caratterizza in modo unico. Ma, a differenza del falegname di Collodi, dà alla sua creatura il dono della parola. Elabora uno slang cucito addosso a Holden come un abito sartoriale, che diverrà un marchio di fabbrica, un meta-linguaggio che darà filo da torcere ai traduttori di tutto il mondo. Come Adriana Motti, che nel 1961, a distanza di un decennio dalla prima edizione americana, riesce nell’impresa di tradurre il romanzo quasi per gioco, mutuando le espressioni colloquiali dalla gioventù italiana contemporanea. E ci regala un Holden indimenticabile.

Prima edizione originale (Little, Brown and Company, 1951).

A prezzo di enormi sforzi, certo; perché non solo di slang si tratta. Il vero grattacapo è nel titolo: The Catcher in the Rye. Per il pubblico americano, che ha il baseball nel sangue, il riferimento è chiaro: il termine catcher indica il ricevitore. L’uomo che acchiappa la palla, insomma. Ma che stavolta non si trova in un campo di baseball, bensì in un campo di segale, e sogna di acchiappare al volo i ragazzini che, giocando, rischiano di cadere in un dirupo, complice l’errata interpretazione di alcuni versi di Robert Burns, poeta vernacolista scozzese: «Gin a body meet a body / Coming through the rye; / Gin a body kiss a body / Need a body cry?». Un catcher nella segale, dunque. Noi italiani, però, il catcher non ce l’abbiamo; al massimo un terzino o un difensore, come ricorda la Nota al titolo che compare nell’edizione Einaudi del 2004. E tuttavia, un terzino nella segale serve a poco, tanto più che non ha alcuna attinenza con l’ambiguità originale. Che fare? Il traduttore – la traduttrice, in questo caso – ricorre alla sua penultima spiaggia (l’ultima, insegna Umberto Eco in Dire quasi la stessa cosa, è non tradurre affatto e inserire una nota esplicativa): tradurre alla lettera. Ed ecco “L’acchiappatore nella segale”: un titolo strano, poco orecchiabile, che lascia perplesso il lettore italiano. Niente da fare: Einaudi sventola bandiera bianca. Si deve pensare ad un titolo alternativo. Dopo aver scartato una prima ipotesi – lo sterile Vita da uomo, che dice tutto e niente – lo sfuggente “acchiappatore” diventa infine Il giovane Holden. Il doppio senso del titolo originale è perduto, ma se ne guadagna un altro: il genio italiano accosta l’aggettivo giovane ad un nome, Holden, che nasconde un old non casuale.

Prima edizione italiana (Einaudi, 1961).

Cosa c’è, di vecchio, in un ragazzo di sedici anni? Poco, forse. Ma si esce facilmente dall’impasse se si considera che old può essere inteso nell’accezione di anziano. E Holden, di anziano, ha più di qualche capello bianco sulla tempia destra. Il suo disincanto, ad esempio, che esprime in una serie di massime non intenzionali, sparse tra i capitoli come amari promemoria sulla vita. O il suo sguardo sul mondo, asciutto e malinconico, pervaso di un’ironia che non ne dissipa del tutto l’amarezza e anzi la rende più incisiva. Ciò che rende questo romanzo un gioiello, infatti, è l’equilibrato alternarsi di aneddoti surreali e profonde riflessioni.

Insofferente al pensiero superficiale e stereotipato che ritiene tipico dell’età adulta, e che riscontra anche nella maggior parte dei suoi coetanei, Holden è espulso dall’esclusivo college in cui i genitori l’hanno iscritto. Manca poco a Natale, ed è meglio non tornare a casa in anticipo. Così, il nostro Pinocchio del dopoguerra salta sulla prima corriera per New York, come su di una carrozza per il paese dei balocchi. E New York, da bravo paese dei balocchi, rivela ben presto le sue illusioni. In un caleidoscopio di luci notturne, insegne al neon e night clubs, Holden cerca al tempo stesso di distrarsi e – meno coscientemente – di consolarsi. Ma nulla può salvarlo. Né le orchestre jazz, né il vagabondare senza meta per la città, né l’incontro maldestro con una prostituta, poco più che una ragazzina. Una serie di birbanterie, avrebbe detto Collodi, che non risolvono, e anzi acuiscono, il senso di spaesamento che Holden si porta dietro come un’ombra. Eppure lui, nel suo peregrinare, non perde mai l’acutezza che caratterizza il suo pensiero, e che non si trova facilmente in un ragazzo di sedici anni. Nemmeno se è degli anni Cinquanta.

Edizione Einaudi 2004 (trad. Adriana Motti).

Né giovane né vecchio, né solo né in compagnia: intorno a Holden gravitano come satelliti i personaggi più vari, quasi delle comparse. Molto più che comparse. La loro presenza è effimera, quasi fulminea, ma ciascuno esercita il proprio ascendente su Holden; una sorta di lascito spirituale, che lui raccoglie e conserva senza nemmeno accorgersene. In questo senso, è Phoebe a fare un ottimo lavoro. Ha poco più di dieci anni, un caratterino niente male ed è la sorella di Holden – ci sono anche due fratelli: D.B., che fa lo scrittore, e Allie, di cui nessuno parla volentieri. Nel susseguirsi di strane figure che compaiono di capitolo in capitolo, Phoebe è una delle più interessanti, ed è lei a influenzare maggiormente Holden. Il loro rapporto è una sorta di gioco delle parti, che reinterpreta radicalmente i concetti di dare e avere, insegnare e apprendere. Solo lei riesce a intuire, seppur vagamente, la profondità di pensiero di cui Holden è capace, nascosta tra le pieghe delle sue riflessioni. Riflessioni che, agli occhi degli altri, restano quasi sempre assurde e inutili (dove vanno le anatre di Central Park South quando d’inverno il lago è ghiacciato?). Non solo: Phoebe riesce ad agire di conseguenza, anche se spesso le sfugge il senso di ciò che Holden intende dire. Nonostante la giovane età presenta, insieme al candore di una bambina, la maturità di un’adulta. È anche lei, in un certo senso, old. Senza esserlo.

Firma autografa dell’autore.

Negli ultimi sessant’anni, Il giovane Holden si è trasformato in un oggetto di culto. Perché? Forse per il lessico spigliato e il ritmo scorrevole, che invoglia alla lettura e ha avvicinato intere generazioni di giovani all’oggetto-libro, spesso temuto o addirittura bistrattato. Forse per via del fattore empatico: siamo tutti un po’ Holden, in fondo, e guardare in un romanzo come in uno specchio è – ammettiamolo – una tentazione comune a molti lettori. Forse, banalmente, per moda: perché è bello poter dire “sì, l’ho letto anch’io” e non restare fuori dal coro. Tutti questi fattori hanno senz’altro inciso sull’ampia ricezione del romanzo, ma la sua ricchezza è altrove. È nella sua sferzante lucidità, che tuttavia lascia spazio ad una possibile redenzione, non tanto sociale quanto individuale. È nel suo carico di speranza, nella convinzione che sì, viviamo in un mondo schifo, ma c’è sempre la possibilità di trovare qualcuno che, come te, si chieda dove vadano le anatre.

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Alfonsa Laonigro

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