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Mutilazioni genitali femminili: cosa sappiamo

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Ilaria Bertocchini

Il passaggio dall’infanzia all’età adulta per oltre duecento milioni di donne è macchiato di sangue. Infatti, il fenomeno della mutilazione genitale femminile (MGF) è ancora molto diffuso e praticato, per lo più in trenta Paesi di cui ventisette sono in Africa. Le origini di questa pratica sono antiche e i motivi per i quali viene effettuata hanno a che fare soprattutto con la conservazione della purezza delle ragazze.

Qualche dato

Il fenomeno tocca bambine, ragazze e donne con rischi gravi e irreversibili per la loro salute, senza tralasciare le conseguenze a livello psicologico. Ogni anno, si stima che circa tre milioni di bambine sotto i quindici anni si aggiungano al numero di vittime già constatate. Gran parte di loro vive in ventinove Paesi africani, mentre una quota minore vive in Paesi asiatici. In ventisette Paesi africani la pratica è documentata e monitorata, così come nello Yemen. Altrove, come in India, Indonesia, Iraq, Malesia, Israele ed Emirati Arabi Uniti, si ha la certezza di questa pratica ma mancano indagini attendibili. In alcuni Stati del Corno d’Africa, quali Gibuti, Somalia ed Eritrea, ma anche in Egitto e in Guinea, la pratica del fenomeno tocca il 90% della popolazione femminile, mentre in altre zone, come in Niger e in Uganda, tocca fra l’1% e il 4% delle donne. Si registrano casi di mutilazioni anche in Europa, Australia, Canada e negli Stati Uniti, soprattutto fra gli immigrati provenienti dall’Africa e dall’Asia sud-occidentale: si tratta di episodi che avvengono nella più totale illegalità, e quindi difficili da censire statisticamente.

Come si pratica

La procedura prevede la rimozione parziale o totale dei genitali femminili. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) distingue quattro forme di mutilazione genitale femminile – come spiegato in questo video. Il primo tipo è la clitoridectomia, che consiste nell’asportazione totale o parziale della clitoride, diffusa in undici Stati africani, dall’Egitto all’Uganda. Il Tipo II, chiamato anche escissione, consiste nella parziale o totale rimozione della clitoride e delle piccole labbra, con o senza taglio delle grandi labbra, ed è praticato in tutta l’Africa con l’eccezione del Sudan. Il tipo III, noto anche con il nome di infibulazione, consiste nell’asportazione della clitoride e/o delle piccole labbra con cucitura di quest’ultime assieme, talvolta, alle grandi labbra, lasciando solamente un piccolo passaggio nell’estremità inferiore per l’emissione del flusso mestruale e dell’urina. È praticato soprattutto nel Corno d’Africa in Paesi quali Somalia, Somaliland, Eritrea, Etiopia e Gibuti, dove è conosciuto con il nome di “circoncisione faraonica”, in zone dell’Egitto, dove è chiamata “circoncisione sudanese”, in Sudan, nella Nigeria e nella Guinea. Infine, il tipo IV comprende la procedura più dannosa: punture, perforazioni e incisioni fino all’allungamento delle piccole e grandi labbra. La pratica viene fatta spesso da donne addette al mestiere, che usano strumenti quali rasoio o coltelli per effettuale le incisioni, e aghi di arbusti quali il qodax per fare le cuciture. Il tutto viene fatto senza anestesia, spesso trattenendo le ragazze con forza, affinché non si muovano troppo per il dolore.

Perché si pratica

Si pensa che le origini di questa pratica siano pre-islamiche: infatti, è possibile trovarla citata negli scritti di Erodoto, vissuto nel V secolo a.C, quindi circa mille anni prima del Profeta Maometto. Alcuni ritengono che fosse praticata già al tempo degli Egiziani. Nonostante sia praticata prevalentemente tra i musulmani (89%), è diffusa anche tra i cristiani: per esempio, in Etiopia, la diffusione tra i cattolici è del 77% e tra i cristiani copti del 69%. Le credenze associate a questa pratica sono numerose: l’idea principale è quella di preservare la purezza della donna, sia fisica che morale. Le mutilazioni genitali femminili sono viste come garanzia di verginità, volte a preservare la castità delle giovani fino al matrimonio. Per questo motivo, nelle società africane sono spesso i genitori stessi a chiedere che venga praticata alle loro figlie: questo aumenterà il loro valore e la dote che la famiglia riceverà al momento del matrimonio. Viene poi sostenuto che siano indice di buona salute: le donne circoncise saranno sempre sane e non lamenteranno mai problemi di salute. Talvolta, si crede che la circoncisione abbia poteri curativi per la depressione e la malinconia.

Lamette usate per la pratica. Foto di Emanuela Zuccalà.

L’idea, poi, che questa pratica sia collegata alla religione islamica è il luogo comune più duro a morire. Il Corano, infatti, prescrive la circoncisione maschile ma non quella femminile. Motivo per cui tanti Paesi a maggioranza islamica, come quelli del Magreb e l’Arabia Saudita, la ignorino del tutto. Diversi leader religiosi musulmani hanno condannato apertamente le mutilazioni genitali femminili: la fatwa più recente è dell’Imam del Centro Islamico d’Irlanda e quella più famosa fu pronunciata in Egitto nel 2006 dal Consiglio supremo di ricerca islamica dell’Università di Al-Azhar, prestigiosa istituzione culturale dell’Islam sunnita, che ha dichiarato le mutilazioni genitali estranee alla sharia. Nel 2010, in Mauritania, 34 studiosi islamici hanno fatto lo stesso, e così in Senegal, Costa d’Avorio e nella regione etiope di Afar. Invece in Somalia e in Somaliland, dove vi è una diversa scuola giuridica islamica, ancora si discute sull’opportunità di abolire questa pratica a favore di una forma lieve di clitoridectomia, detta sunnah. Questa credenza è basata su un hadith, secondo il quale il Profeta, vedendo una donna praticare un’escissione a una bimba, avrebbe detto di non esagerare col taglio, altrimenti il viso della ragazza sarebbe divenuto così splendente da estasiare il marito. Per questo motivo, l’imam del ministero degli Affari religiosi in Somaliland ha affermato che solo la mutilazione faraonica può essere abolita per legge ma non la sunnah, dal momento che è un precetto profetico associato all’idea di purezza.

Qual è la risposta dei governi africani

Formalmente condannata da tutti e ventisette gli Stati africani coinvolti, solo sei ancora non hanno una legge che punisca questa pratica come reato: Camerun, Gambia, Liberia, Mali, Sierra Leone e Somaliland e Somalia. In quest’ultimo paese, però, la Costituzione del 2012 la mette al bando. La prima nazione a legiferare contro le mutilazioni genitali femminili fu la Guinea, nel 1965, mentre l’ultima la Nigeria, nel maggio 2015.  Una spinta importante è arrivata dal Protocollo di Maputo, la carta fondamentale sui diritti delle donne in Africa, adottata dall’Unione Africana l’11 luglio del 2003, che all’articolo 5 condanna tutte le pratiche tradizionali lesive dell’integrità fisica e psichica delle donne, comprese le mutilazioni genitali.  Tuttavia, finora, le condanne penali sono state poche: solo il Burkina Faso vanta il maggior numero di sentenze, novantasette, tra il 1997 e il 2005. Il problema principale è la mancanza di un impegno capillare per rendere incisive le leggi. La popolazione sa che sono illegali ma pratica le mutilazioni genitali in segreto, dal momento che la tradizione continua ad avere la meglio sulla norma: nonne e madri eseguono questa pratica sulle bambine per preservare la loro purezza, soprattutto in zone rurali. La legge è necessaria, ma prima bisogna preparare le persone, partendo dalla scuola, e creare un consenso sociale attorno al tema, soprattutto attraverso l’istruzione.

Infatti, è stato dimostrato da Unicef un nesso tra l’istruzione delle donne e delle ragazze e le mutilazioni genitali femminili: le figlie di madri analfabete hanno più probabilità di essere tagliate rispetto a quelle di donne con un’educazione. L’unica eccezione è data dal Sudan e dalla Somalia, dove la pratica è diffusa anche negli strati più benestanti e istruiti della popolazione. Un altro aspetto è legato all’abbandono scolastico: una ragazza mutilata, in molte culture africane, è considerata donna e per questo motivo pronta al matrimonio, anche se ha un’età inferiore ai quindici anni. Uomini maturi sono disposti a sposare bambine e dare alle loro famiglie una dote molto ambita, a condizione che la sposa-bambina subisca il taglio.

Cosa si fa per combatterla

Le donne africane sono le prime a battersi per sradicare questa pratica dalle loro società. In particolar modo, dagli anni Settanta sono stati portati avanti programmi di sensibilizzazione e formazione: nel 1975, per esempio, in Burkina Faso ci fu la prima campagna radiofonica sugli effetti devastanti delle mutilazioni genitali e solamente nel 1996 fu adottata una legge per punire questa pratica. Una figura emblematica in questa lotta è Edna Adan Ismail, ex ministra in Somaliland e consulente dell’Onu, che tiene alta l’attenzione sulle conseguenze delle mutilazioni genitali femminili per le donne: nel 2002 ha fondato un ospedale specializzato nell’assistenza di donne e bambini. Vi è poi Stella Obasanjo, moglie dell’ex presidente della Nigeria Olusegun Obasanjo, che nel 2003 propose con successo all’Onu l’istituzione della giornata mondiale per la tolleranza zero contro le mutilazioni femminili, celebrata ogni 6 febbraio. In Camerun la ministra Marie Theres Abena Ondoua ha stanziato aiuti economici per le “tagliatrici”, in modo da incoraggiarle ad abbandonare questo lavoro. Vi sono poi molte ONG locali che lavorano alla sensibilizzazione contro le mutilazioni genitali nelle città africane e nei villaggi più remoti, includendo anche gli uomini nella denuncia di questo fenomeno.

A che punto siamo adesso?

La diffusione delle mutilazioni genitali ha subìto un calo del 5% fra il 2005 e il 2010: se questa tendenza continuerà, la speranza di dimezzare il fenomeno potrebbe avverarsi solo nel 2074. Se invece il tasso resterà invariato, nel 2030 saranno 20 milioni le ragazze dai quindici ai diciannove anni vittime di mutilazioni genitali femminili, contro i 13,7 milioni di fine 2010. In alcuni Stati sono stati fatti progressi notevoli: in Benin si è registrata la riduzione più alta, con un calo del 23% tra le ragazze di quindici-diciannove anni. Emblematica la decisione presa dal Ministero degli Affari religiosi della Somaliland, dove il 98% delle donne tra i 15 e 49 anni hanno subito la procedura: con una fatwa religiosa è stata vietata la pratica della mutilazione genitale femminile, promettendo punizioni per i trasgressori, e dando la possibilità alle vittime di ricevere un risarcimento. Ci sono Paesi però dove vi è un aumento: in Guinea Bissau, in Mali e in Guinea.

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