A vederla, seduta tra la gente, è una ragazza assolutamente normale. Minuta, capelli biondi, poco trucco e minigonna jeans. Siamo a Firenze, alla sessione di laurea della LABA (Libera Accademia delle Belle Arti). La protagonista del theWise incontra di oggi non è lì semplicemente per assistere alla discussione di un’amica: è l’ospite d’onore, perché la protagonista della prima tesi della giornata è proprio lei. Martina Caironi, classe 1989, la donna d’oro dello sport paralimpico italiano. Il palmarès di Martina è impressionante: affacciatasi allo sport professionistico, come spesso accade in questi casi, dopo l’incidente che l’ha portata all’amputazione della gamba, in pochi anni ha macinato record e ha vinto praticamente ogni competizione possibile fino ad arrivare alla vetta più alta che un atleta possa sognare: l’oro a cinque cerchi sui 100 metri piani, conquistato a Rio nel 2016 dopo essere stata la portabandiera azzurra nella cerimonia d’apertura.
Dopo Rio, dove ha vinto anche l’argento nel salto in lungo, esce dai mondiali di Londra nel 2017 con altri due ori in entrambe le specialità ed è proprio intorno all’impresa oltremanica che ruota la tesi di laurea che l’ha vista protagonista. La giovane fotografa Giada Chetta l’ha seguita in pista e fuori per documentare la straordinaria vita di questa figlia del vento e il risultato è un libro-reportage le cui foto illustrano questo articolo, dal titolo Martina Caironi: la donna più veloce della terra, un racconto in immagini di come si possa meravigliare il mondo in pista e superare le difficoltà che ogni giorno un disabile deve affrontare. Lo spunto per il lavoro è un episodio di vita vissuta: a 18 anni, Giada rischia di perdere la gamba sinistra a causa di un’improvvisa e grave patologia. Deve abbandonare qualsiasi attività anche sportiva (pallavolo, nel suo caso) per ben due anni. Durante tutto questo tempo, in attesa di tornare abile a calcare il taraflex, riflette sul ruolo dello sport nelle persone con problemi di salute e in particolare sui disabili. L’ovvia conclusione è che lo sport abbia ruolo determinante nella guarigione o almeno nel miglioramento dello stile di vita, ma ha bisogno di approfondire cercando qualcuno che possa testimoniarlo in prima persona. Ed ecco l’incontro con Martina e con la sua straordinaria storia.
Martina Caironi è una normalissima ragazza di Alzano Lombardo (Bergamo) che nel 2007, appena maggiorenne, ha un brutto incidente in moto insieme al fratello. Sopravvivono, ma lei perde la gamba sinistra, amputata all’altezza del ginocchio. Superato l’iniziale momento di sconforto inizia un lungo percorso di auto accettazione e di consapevolezza della nuova sé: in questo momento di delicatissimi cambiamenti si inserisce lo sport, che irrompe nella vita della giovane Martina in maniera quasi fortuita. Dopo aver re-imparato a camminare con una protesi e aver riacquistato l’autonomia, la ragazza si accorge che è necessario iniziare a correre per non perdere l’autobus sempre per cinque minuti. Un po’ per necessità quindi, un po’ per sfida, Martina si approccia allo sport agonistico con risultati sempre migliori: il suo debutto sulle piste che contano è nel 2011 a Sharjah (Emirati Arabi), quando vince la prima medaglia, un bronzo, nel salto in lungo agli IWAS World Games. Dopo appena un anno, è oro ai Giochi Paralimpici di Londra sui 100 metri piani con il tempo record di 15″87.
Da lì in poi è tutta discesa: grazie alla collaborazione con la Ottobock, azienda costruttrice di protesi per camminare e per correre di cui diventa testimonial, Martina inizia a volare in pista e parallelamente inizia un percorso di divulgazione, incontrando in tutta Italia atleti e anche semplici persone disabili e normodotate per portare la sua preziosa esperienza e trasmettere un po’ della sua forza. Fino a tornare a Londra, a luglio 2017, ai Mondiali Paralimpici, quando Martina si riconferma medaglia d’oro con un incredibile 14″65.
La incontriamo al termine della discussione della tesi.
Martina, innanzitutto complimenti. Sei diventata in breve tempo un simbolo dell’Italia nel mondo. Come si arriva a diventare una campionessa olimpica?
Allenandosi, innanzitutto. Ma è necessaria anche una grossa componente di passione, che ti spinga ad andare ad allenarti anche quando non vuoi e forse anche qualcosa di innato, una capacità che ti consenta di spiccare sugli altri e che non sai nemmeno di avere, fino a quando non è il momento di scendere in pista.
Quando hai capito che ce l’avevi fatta?
Beh quando ho iniziato a vedere che negli allenamenti andava tutto bene già iniziavo ad avere più o meno un’idea di quello che sarebbe potuto succedere. È solo in gara, però, che ti rendi conto che quando sei a un metro dal traguardo allora sì, ce l’hai fatta.
Perché secondo te si parla ancora così poco dello sport paralimpico in Italia?
Lo sport paralimpico si sta affermando molto. Sicuramente da quando i due comitati – quello olimpico e quello paralimpico – si sono separati, c’è molta più autonomia e questo ci permette di crescere in misura molto maggiore rispetto a prima. Sarebbe necessario, però, un maggiore aiuto da parte dello Stato nel fornire agli atleti le tecnologie necessarie per accedere alle attività e alle strutture, nel mio caso le protesi ma anche ad esempio le carrozzine speciali. Questo permetterebbe anche ai normodotati di percepire i disabili come persone e non di guardarli solo attraverso la loro disabilità, perché se tutte le strutture fossero adeguate in qualsiasi momento un disabile potrebbe andare a usufruirne senza aver bisogno di cinque o sei persone che lo aiutino. Questo è quello che spesso fa sentire inadeguati e in difetto. Poi c’è un’attenzione sempre crescente in termini di media e in termini di iniziative che ci coinvolgono, ma posso dire – essendo coinvolta in prima persona – che non sono cose che si fanno da un giorno all’altro. Certo, la mia notorietà è cresciuta, ma vedo che mentre a Bergamo che è la mia città spesso mi fermano e mi riconoscono, altrove no. Probabilmente se fossi un calciatore non potrei mai camminare per strada.
Molto spesso, a una aumentata esposizione mediatica dei para atleti corrisponde anche un fiorire degli haters, specie sui social, che li accusano quasi di avere una vita più facile degli altri in virtù della loro disponibilità economica che permetterebbe loro un miglior accesso a cure e tecnologie. È veramente una cosa da ricchi?
In realtà per determinate cose si. Servono i soldi, o le conoscenze giuste o gli sponsor. Nel mio caso io sono testimonial della ditta che produce le mie protesi e quindi me le fornisce, altrimenti solo quella per camminare costerebbe sui 100mila euro. Quella per correre costa molto meno e anche in questo la Federazione si sta impegnando per cercare di fornire questi ausili gratuitamente a chi vuole iniziare l’attività agonistica. Qualcosa si è già mosso in questo senso anche se non siamo ancora a livelli di una copertura totale. La questione non è puntare il dito contro chi se lo può permettere, piuttosto contro un sistema che non permette a tutti un pari accesso alle possibilità esistenti.
Oppure dimostrare più sensibilità verso la ricerca e il suo sostegno, magari incrementando le donazioni.
Si, perché la ricerca va avanti. Esistono tantissime nuove tecnologie che non possono ancora essere date a chi ne necessita. Poi dall’altra parte abbiamo persone come Alex Zanardi che al di là delle loro disponibilità – che ovviamente ci sono – si “fanno il mazzo”. Lui si dedica tanto alla comunicazione e alla divulgazione, quando parla ti incanta. Quello è tutto tempo ed energia che una persona investe e quindi piuttosto che criticare bisognerebbe considerare quello che uno realmente fa.
Un po’ di tempo fa Oscar Pistorius intraprese un’intensa battaglia per equiparare i para atleti ai normodotati. Cosa ne pensi?
Quello che lui ha fatto è stato rendere il mondo consapevole dell’esistenza dell’universo paralimpico e questo, al di là delle sue vicende personali, è insindacabile. Poi si è battuto per gareggiare insieme ai normodotati, riuscendoci. Secondo me, invece, sarebbe meglio far crescere il movimento paralimpico tenendolo separato perché si tratta di due cose che, per quanto simili, non dovrebbero mischiarsi tra loro dal punto di vista agonistico. Per altre cose si, come condivisione di strutture, ideali, importanza data agli atleti provenienti dai due mondi, questo può e deve coesistere. Tecnicamente però è molto difficile stimare quanto una protesi può incidere sulla prestazione sportiva, dando qualcosa in più o in meno, o magari possa costituire un rischio perché ad esempio si potrebbe far male o intralciare chi ti gareggia accanto. Dipende poi anche dal tipo di disabilità, mi viene in mente il caso di Assunta Legnante che era una campionessa europea di getto del peso. Quando è diventata cieca è passata nell’ambito della para atletica, ma a quanto pare la Federazione le consentirà di tornare a gareggiare con i normodotati in quanto lei ha ben presente le “misure” e le “distanze” per svolgere tutto in sicurezza. Si tratta però di eccezioni e di sicuro sappiamo che nel caso di Assunta è presente uno svantaggio, che è il fatto di non vedere. Nel caso delle protesi non è possibile valutare il fattore vantaggio/svantaggio.
Si tratta senza dubbio di un momento magico per la giovane bergamasca. Oltre all’esperienza di essere protagonista di una tesi di laurea, è appena uscito al cinema il docu-film di Simone Saponieri L’Aria sul viso, che racconta Martina Caironi come donna e come atleta, in tutto il suo percorso di vita e sportivo. Martina sarà presente all’ultima proiezione a Roma il prossimo 8 marzo, per le altre date e per i biglietti tutte le info sono a questo link.
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