Era l’ormai lontano 2002 quando Guillermo del Toro chiese all’Universal di poter fare un remake del celebre Il mostro della laguna nera (1954) di Jack Arnold, classico dei numerosi monster-movies della casa di produzione. Ne aveva assorbito le immagini iconiche nell’infanzia, sognando una storia d’amore alternativa tra Gill-man, la creatura anfibia, e la donna di cui si era infatuato, Kay (Julie Adams). Propose di poter fare il film dal punto di vista del mostro, ma gli fu negato. Allora propose perlomeno di poter re-immaginarne romanticamente la conclusione, ma l’Universal non era affatto persuasa e diede un doppio rifiuto. Il regista e scrittore messicano, mente di creatività fervida, non è estraneo a rinunce e rifiuti per appassionati progetti, oltre che realizzazioni non conclusesi come avrebbe voluto rispetto alle strette logiche hollywoodiane. Ne sono un esempio l’abbandono della regia dei primi due film di Lo hobbit che gli fu imposto nel 2010, pur rimanendone lo sceneggiatore, oltre che l’impossibilità fino ad oggi a girare un suo sogno cinematografico, cioè una trasposizione del romanzo Alle montagne della follia di H.P. Lovecraft. Quest’ultima è stata giudicata di costi eccessivi (stimati di centocinquanta milioni di dollari), rispetto al suo possibile successo commerciale. Così anche il risultato del suo secondo lungometraggio, l’horror Mimic (1997), prima esperienza (traumatica) con Hollywood dopo il buon esordio Cronos (1993), è stato molto al di sotto delle sue aspettative durante le riprese e fu pessima peraltro l’accoglienza critica. Non mancano però stelle fulgenti nella sua carriera che gli sono valse una vasta schiera di estimatori e affezionati: esemplarmente la duologia di genere fantastico composta da La spina del diavolo (2001) e Il labirinto del fauno (2006) ambientati durante la guerra civile spagnola, miglior espressione del suo talento, ma sono stati d’aiuto anche alcuni film popolari, per quanto meno applauditi, come Hellboy (2004) e Pacific Rim (2013). È stato di certo Il labirinto del fauno a consacrarlo nella stima di molti cinefili e critici, giudicato ancora oggi il suo capolavoro. Dopo il risultato incerto del suo penultimo Crimson Peak (2015), è proprio The Shape of Water (2017) a riportarlo nell’accoglienza generale tanto vicino alla sua punta di diamante del 2006. Finalmente il regista può rimettere le mani all’idea di dare la sua impronta artistica alla creatura di Arnold, realizzando con successo ed entusiasmo ciò che aveva in mente e rielaborando a un tale livello le sue fonti di partenza da poter definire il film originale, prodotto non più dalla Universal ma dalla Fox Searchlight Pictures (focalizzata su film indipendenti) insieme alla Bull Productions e con i fondi dello stesso del Toro. Il cineasta si riscatta allora, ottenendo numerosi riconoscimenti per sé e la sua troupe: impossibile enumerarli tutti, bastino le tredici candidature ai prossimi Oscar, il Leone d’oro alla Mostra internazionale cinematografica di Venezia e la conquista della miglior regia e miglior colonna sonora agli ormai conclusi Golden Globe e i British Academy Film Awards, in quest’ultimi anche la miglior scenografia.
Del Toro è fortemente riconoscibile di film in film per la sua cifra stilistica, il suo interesse costante per i suoi idoli cinematografici, da cinefilo devoto, per l’utilizzo metaforico della figura del mostro a suo dire spesso non compresa, per il passato storico, le leggende, i miti e le suggestioni fiabesche e fantastiche contaminate con l’horror. Tutti questi elementi non mancano in The Shape of Water. Gill-man, maltrattato nel film di origine, va sotto l’ala protettiva del regista e viene pregevolmente rielaborato nel corso di un’intensa progettazione di ben nove mesi, con un approccio empatico e valorizzante molto diverso, inserito in un contesto narrativo fondamentalmente nuovo. 1962, Baltimora: Elisa Esposito (Sally Hawkins), affetta da mutismo, lavora come addetta alle pulizie in un centro di ricerca aerospaziale dove si effettuano misteriosi esperimenti, nel contesto competitivo della Guerra Fredda. Presso questa sede arriva una strana creatura, strappata a forza dal suo luogo di origine in Sudamerica dal colonnello Strickland (Michael Shannon), per poter essere riutilizzata come risorsa statunitense per rincorrere i successi spaziali dei russi. Elisa, affascinata dalla creatura, instaura un rapporto intimo con essa, contrapponendosi al trattamento brutale e utilitaristico dei suoi capi. The Shape of Water fa germogliare una storia d’amore laddove sembra meno usuale. Raccontando la rivincita personale di un gruppo di emarginati, usa proprio l’elemento naturale dell’acqua, vitale, adattabile e permeabile senza resistenza, per raccontare le barriere valicate tra cosa è degno o non degno di essere considerato umano.
Del Toro allora riparte dall’avvio narrativo della fiaba. Com’è quasi immancabile nei suoi lavori, un prologo iniziale fissa un momento o un’atmosfera emblematici della storia che si sta per dipanare sotto gli occhi dello spettatore. Come ne Il labirinto del fauno, una voce narrante è incerta da dove cominciare, forse in un tempo imprecisato e remoto in cui vi era un principessa senza voce, forse nell’attualità di Baltimora, cittadina lontana da tutto, in cui ancora vi è la stessa donna, dimentica delle sue origini. Il tempo in del Toro sfida spesso le leggi biologiche e fisiche, il passato sfocia nel presente e la durata di una normale vita umana o le cesure tra vita e morte sono reversibili. Così anche convivono l’elemento fantastico e il realismo di un quadro storico riconoscibile da tutti, come la guerra civile spagnola o, qui, la Guerra Fredda. La regia e il montaggio sottolineano le deboli demarcazioni tra reale e irreale, passando fluidamente da questo tipo di introduzione alla concretezza della vita quotidiana nell’appartamento di Elisa che si risveglia, oltre che scendendo visibilmente da un piano all’altro del palazzo in cui vive, dove magari nel primo si consuma un evento strabiliante e nel secondo invece una scena ordinaria, di tutt’altro genere (anche cinematografico). Tuttavia la stessa vita quotidiana di Elisa presenta elementi incantevoli, che richiamano palesemente Il favoloso mondo di Amélie (2001) di Jean-Pierre Jeunet: dal modo di essere quieto, sognante e creativo dei dettagli della routine di Amélie alla colonna sonora di Alexandre Desplat, simile in alcuni punti significativi a quella di Yann Tiersen. Si riversa nei particolari della scenografia un’altra passione distintiva di del Toro: l’attenzione all’oggettistica rétro o quantomeno pittoresca, specialmente nell’estetica degli orologi e il loro ticchettio (vedasi Cronos, prima opera dal titolo già eloquente). Essa poi è sempre declinata secondo il tono fotografico e cromatico principale del film, il verde (indossato quasi sempre dalla stessa Elisa), da cui facilmente si può pensare che si tratti di un’allusione alla speranza. Si tratta del sentimento ancora possibile verso una vita migliore, verso una propria felicità personale dopo aver vissuto sentendosi continuamente in difetto rispetto a una maggioranza. The Shape of Water è l’avanzamento avventuroso del diritto di un’esistenza e riconoscimento pari da parte di una minoranza che negli anni Sessanta non era affatto tutelata o considerata degnamente. Elisa è emarginata rispetto a una società normodotata, la sua collega e vecchia amica Zelda (Octavia Spencer) è una donna afroamericana relegata ad uno stato inferiore da una società razzista, così anche il vicino di casa e amico Giles (Richard Jenkins) è un omosessuale ostacolato dall’omofobia di ogni giorno.
Non a caso la voce narrante, prima di eclissarsi, specifica che questa è «una storia di amore e di perdita e di un mostro che ha cercato di distruggerla». Significativamente, il mostro è posto fuori dall’amore, che ha come protagonisti l’anfibio ed Elisa, perché il vero mostro non è la creatura incarnata da Doug Jones. Il vero elemento orrorifico è altrove, è nell’oppressione e violenza esercitati dalle figure del potere che dettano le leggi del conforme, è in poche parole ancora nella società, incarnata dall’antagonista Strickland (Michael Shannon), modello di americano del tempo “vincente”. La concezione del mostro di del Toro è un perno di tutta la sua filmografia, come già accennato, e si propone spesso di rielaborare le categorie manicheiste del Bene e del Male, tipiche del pensiero occidentale, e che spesso servono a tale mentalità per avere una griglia di pensiero facilitata. Spesso si ribaltano gli schemi e i ruoli predefiniti, facendo sì che il deforme fantastico materializzi un’angoscia o un’allusione figurata a un male umano, il risultato di azioni compiute da altri personaggi di aspetto fisico normale. Accadeva ne La spina del diavolo, una ghost story dove l’elemento horror associato primariamente al fantasma di un bambino lentamente traslava la paura verso di lui nel vero oggetto da temere, cioè la violenza degli uomini nel periodo franchista, che ricade sulla gioventù innocente. I mostri del regista messicano non hanno un significato sempre uguale a sé stesso, così la creatura anfibia di The Shape of Water incarna allora nella forma più vistosa il diverso, a cui si sentono accomunati gli altri personaggi emarginati e su cui si scarica l’intolleranza dei potenti. Esso inoltre sarà il motore per farli agire e lottare contro la normale accettazione delle leggi scritte e non scritte della loro società.
A primo acchito in più si può pensare proprio alle fiabe de La sirenetta di Andersen – la cui protagonista è una principessa senza voce e una sirena, quindi vivente nell’acqua – ma soprattutto a La bella e la bestia. Con la tradizione fiabesca e questi due particolari esponenti del Toro condivide proprio lo sconfinamento nei rapporti amorosi tra creature di diversa entità, dato che molto spesso un protagonista del genere si trova ad avere un rapporto con un animale. Ne La bella e la bestia però la parte maschile, la bestia, spezzava l’incantesimo rivelandosi un principe umano, consegnato a un futuro felice con la sua bella, ma del Toro rielabora anche questa fonte d’ispirazione, oltre alla condivisione culturale operata da Elisa verso la creatura (noi ricordiamo dalla trasposizione popolare Disney, specialmente, che passasse attraverso i libri, qui invece attraverso la musica) sottraendo la necessità che il “mostro” si tramuti per re-integrarsi secondo il canone, perché il punto è proprio l’abbracciare letteralmente il diverso con profondo rispetto e amore, smettere sentimenti di paura che anche nel governo di Trump, a cui del Toro guarda consapevolmente, scatenano numerose discriminazioni e allontanamenti dal territorio nazionale.
In questo caso però l’amore romantico e l’amore per il cinema si fondono in un’operazione stilistica consapevole. Non è un caso che il colore rosso, quando indossato da Elisa, si succeda nel montaggio a scene di passione e condivisione amorosa, e che il personaggio inoltre abiti sopra un cinema, il cinema Orpheum (nome azzeccato), la cui insegna è rossa. Per Elisa il vasto repertorio della Hollywood classica, in particolare il musical – genere del sogno ad occhi aperti per eccellenza – diventa un piccolo mondo di serenità briosa e gioia colorata in cui ritirarsi e trovare un proprio linguaggio. Attraverso di lei e non solo il regista omaggia numerose pellicole, da Scarpette rosse (1948) di Michael Powel e Emeris Pressburger (in particolare negli interni) a Una notte a Rio (1941) di Irving Cummings o Hello, Frisco, Hello (1943) di Humberstone, da cui deriva poi una scena onirica a riferimenti incrociati dove Elisa si immagina ballare con il suo amato nel set e nel ballo di un film di Fred Astaire e Ginger Rogers, Follow the Fleet (1936), ma facendo sì che la cantante e attrice Alice Faye con il brano (vincitore anche di un Oscar per la Miglior canzone originale) You’ll Never Know dal film di Humberstone le presti anche la voce per esprimere nelle possibilità del sogno l’intensità del suo amore. E di forza espressiva l’attrice Sally Hawkins ne ha tanta, dando una performance ottima (candidatura agli Oscar anche per lei, assolutamente meritata), considerando di aver dovuto sfruttare soltanto le sue risorse mimiche e non la sua voce. La preparazione alla sua parte d’altronde prevedeva anche che riguardasse e attingesse dalla sapienza dei geni del cinema muto americano: Charlie Chaplin, Buster Keaton, Stanlio e Olio. Può dare chiarezza immediata vedere o rivedere le scene connesse a tutte le citazioni tramite il pregevole video fatto dal canale Youtube ScreenPrism su tutti i riferimenti del film. Ad affiancare la reverie del cinema c’è anche la nuova cultura televisiva, con i televisori che puntellano sempre di più gli interni, segnando l’inizio di una nuova era di preferenze d’intrattenimento. La televisione è usata dai personaggi perlopiù come evasione, infatti in una particolare scena Giles intravede alla tv un notiziario su uno scontro tra le forze dell’ordine e una manifestazione per i diritti dei neri e sceglie di non voler sottoporsi all’amarezza della realtà, che già vive appena fuori casa, e sceglie invece di guardare uno spettacolo di tip-tap. L’omaggio del film si inserisce in un filone citazionistico che piace molto in tempi recenti, non si può non pensare a La La Land (2016) ad esempio. È curioso infatti che in entrambi la scena di un incontro amoroso toccante avvenga davanti allo schermo in sala, giocando di conseguenza sulla sovrapposizione tra il mito proiettato e lo spettatore che vi assiste con la sua storia personale. È utile però pensare alla differenza tra i due film, poiché se quello di Chazelle faceva del divario tra l’attualità ostica – non degli anni Sessanta, però, ma la nostra – e la fuga nel mito del cinema classico il suo fulcro, e presentava certamente un’elaborazione critica di gran lunga maggiore e più articolata, oltre che più lucida, quella di del Toro è davvero una «lettera d’amore» che gode dei suoi miti d’infanzia in maniera molto affettiva, lasciando che i personaggi vivano una propria favola cinematografica (in verità è il film meno cinico di del Toro, non il contrario di certo), complice anche un quadro storico decisamente diverso e una situazione altrettanto diversa. Non manca tuttavia un sostanzioso ribaltamento della Hollywood degli anni Cinquanta e dei suoi paradigmi culturali. Si vede in particolare nelle dinamiche tra Strickland, esponente di essi, e gli altri.
Il personaggio di Shannon si colloca in un confine decisamente significativo tra due ere culturali, quella degli anni Cinquanta e i sensibili cambiamenti duranti gli anni Sessanta, a cui si sta affacciando il suo mondo. Anche lui non è esente dal desiderio di riconoscimento della sua identità, salvo vestire un ruolo appassionatamente aderente alle richieste poste dal potere, in un atteggiamento di obbedienza meccanica e acritica. Più di altri personaggi infatti il bisogno di essere visibile si traduce in un’esibizione di sé impositiva, recitante le formule inculcate dal modello dominante quasi per poter dare conferma a sé stesso di essere un uomo stimabile, di successo. L’americano medio di allora era naturalmente razzista, misogino e succube della cultura pubblicitaria, attraverso cui la società americana orientava i suoi desideri e le figure di riferimento da imitare, fondata su un forte individualismo competitivo e un’ottimismo di facciata. Strickland nel tempo libero legge infatti il saggio motivazionale The Power of Positive Thinking (1952) di Norman Vincent Peale e si fa convincere in pochi minuti a comprare una Cadillac (verde!) in una concessionaria, perché le viene proposta come l’auto guidata da quattro uomini su cinque di successo. La sua casa è la ricreazione patinata della famiglia perfetta, dove la moglie è l’angelo del focolare, ma si presta anche scattante come oggetto sessuale del marito e dove i figli, infatti, guardano sit-com incentrate sulle vicende di famiglie americane. C’è quindi la sicurezza dell’uomo integrato, con tutte le sue false convinzioni incanalate anche nella cultura biblica di cui si fa portatore il personaggio. L’elemento cristiano non manca mai nel cinema di del Toro, vista la sua educazione di provenienza, ma qui il repertorio culturale e religioso si spiega anche con quanto la stessa cultura americana abbia alle sue fondamenta la formazione protestante, che infatti permea gli inizi della letteratura anglo-americana. Strickland fa riferimento a Dio pensando che esso sia fatto a immagine dell’uomo, e che l’uomo di riferimento sia naturalmente di sesso maschile e bianco. Di nuovo poi commenta di aver trovato l’anfibio in Sudamerica, venerato dalle tribù locali come una divinità, spiegandosi ciò come una prova della loro mentalità ancora primitiva, pagana. Il riversamento di Dio nella propria immagine compie un percorso circolare, tornando poi in un finale dove le sue certezze sono assolutamente scombinate, come se crollasse un castello di carta. Così anche la sua cultura biblica di riferimento è utile per citare l’episodio di Sansone e Delila, lasciando a intendere di pensare le ambiguità della donna come un male ingannatore, diabolico.
Inoltre l’immagine offerta dai media del tempo prevedeva che una sessualità attiva e propositiva fosse nel partner maschile, complice il preconcetto popolare dell’inferiorità sostanziale della donna, ma in The Shape of Water il discorso assume un’eloquente stonatura. Oltre ad additare il mostruoso proprio nella brutalità di Strickland, che tortura l’uomo anfibio e cerca di prevaricare su tutti gli altri personaggi, Michael Shannon si mostra come insoddisfatto, sconnesso proprio nel cuore della sua dimora pur modellata secondo i suoi desideri, come se fosse invischiato in un moto di scarto continuo rispetto all’immagine che pure insegue, fino a un conflitto esplicito nella trama noir (anch’essa con dei costumi, delle dinamiche e delle luci richiamanti a questo genere altrettanto fortunato degli anni Cinquanta) che problematizza dunque la cultura di allora, oltre che porre come antagonista proprio il suo canone. Le scene di sesso all’interno della casa lo mostrano come esprimente una sessualità in verità rancorosa, cercando uno sfogo sessuale nella moglie e imponendole di non parlare, considerando la sua facoltà di parola come un’interferenza spiacevole, e così anche si trova attratto da Elisa per il suo mutismo, perché ai suoi occhi è un segno della donna perfetta. Tuttavia qui l’espressione di una sessualità propositiva e non passiva è anche nella donna, segnando la cesura di del Toro rispetto al suo mondo di citazioni, poiché Elisa si masturba regolarmente e a lei è associato nell’atto un timer – scandente a sua volta la routine – a forma di uovo, cibo che lei poi propone alla creatura per farla avvicinare a sé, in un sottotesto sessuale palese.
Di contro allora a Strickland, la creatura anfibia si mostra come un partner in grado di vedere la personalità della sua compagna, intendendo – come già accennato – l’amore non come un rapporto di prevaricazione, ma come una mutua e profonda comprensione, dove l’altro è un valore positivo da curare nella sua specificità intima e non da soggiogare per le proprie esigenze egoistiche. Il titolo The Shape of Water inoltre si carica di un nuovo significato, perché Elisa viene associata non solo visualmente all’acqua già dal prologo, in contemporanea con le sue origini principesche in un altro regno da cui sembra ora ingiustamente lontana, ma l’amica Zelda racconta che lei è un’orfana ritrovata presso un fiume. Nella sua quotidianità, proprio nel giorno del primo incontro con la creatura, strappa la pagina del suo calendario giornaliero, nel cui retro di ogni foglio c’è una massima. Quella di turno è che «Il tempo è un fiume che viene dal nostro passato» e non a caso la creatura è stata trovata presso un fiume, vive nell’acqua e rappresenta un collegamento con le sue origini. Torna allora, giusto dopo il recentissimo Chiamami col tuo nome, la proposizione dell’amore come co-appartenenza, non solo per l’esclusività del rapporto, ma per il ricollegamento ad un gruppo comune, un elemento primordiale in cui due individui, anche molto diversi fisicamente, trovano grande e intima familiarità. Ben poco però è confinato all’edulcorazione possibile della letteratura per l’infanzia, perché qui l’amore è sì un’affinità personale, ma è anche un legame carnale che s’annuncia sin dai primi sottotesti, per poi esplicitarsi coraggiosamente, confermando che quella sullo schermo è una sorta di fiaba per adulti, considerato il suo elemento violento inoltre (torna l’attrazione estetica di del Toro per il sangue). Della fiaba però sembra mantenere una spinta utopica, in un finale simile a quello de Il labirinto del fauno, dove ancora sono sconfitti i limiti realistici tra vita e morte e dove di fronte a un presente ostile e impossibile per i protagonisti, si cerca un’ascesi nell’altrove, in un regno appunto principesco e migliore dove sia dato un lieto fine a delle dinamiche che, nella realtà, forse avrebbero avuto invece un epilogo drammatico. È in questo punto forse che si può parlare di una sorta di disillusione e allo stesso tempo di dono dell’autore verso i suoi personaggi al contrario speranzoso, sfruttando i poteri della finzione per realizzare ciò che altrimenti sarebbe arduo nella realtà.
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