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Economia

Siamo tutti Luigi Di Maio

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Francesco Stati

Un esito scritto (fino a un certo punto)

Il risultato di queste elezioni ha colto di sorpresa pochi addetti ai lavori: il centro destra ha “vinto”, il Movimento ha seguito a ruota e il Pd ne è uscito con le ossa rotte. A sorprendere, però, due elementi: il 17 per cento (in entrambe le Camere) di Matteo Salvini (che ha più che moltiplicato i consensi su scala nazionale rispetto al recente passato) e il “cappotto” nel Sud Italia dei pentastellati, che si sono aggiudicati la quasi totalità dei collegi meridionali. Ciò che a molti osservatori della politica nostrana è sfuggito sono le cause intrinseche di questo desolante risultato, che vede le formazioni “populiste” uscire dalle consultazioni con numeri da capogiro.

Manifesto della Lega – Salvini Premier.

I vincenti: non chiamateli populisti

A giudicare dal comportamento e dalle mutazioni interne che il primo partito di queste elezioni ha vissuto, è improprio definire il Movimento come formazione “populista”: tralasciandone i pattern comunicativi, rimasti pressoché similari al passato, dopo anni di esperienza in legislatura il partito di Grillo ha appreso come fare politica, ha smussato i suoi spigoli più acuminati ed è sceso a compromessi con il suo integralismo, diventando di fatto una forza politica tout court, checché ne dicano i suoi adepti. Ne sono dimostrazione le dichiarazioni di Alfonso Bonafede e di Luigi Di Maio: una volta appresa la “vittoria” elettorale, questi si sono affrettati a manifestare la loro disponibilità ad ascoltare tutte le proposte degli altri partiti per l’interesse del Paese, che in politichese è traducibile come «stiamo con chi ci fa comodo». Non è un caso inoltre, dal punto di vista del bacino elettorale, che il Movimento abbia trionfato in quasi tutti i seggi del Sud, dove – essendoci un forte senso di abbandono dei cittadini nei confronti dello Stato – i grillini hanno avuto gioco facile a pescare voti nel malcontento, con la promessa di un reddito di cittadinanza che fa assumere a questo risultato i contorni del voto di scambio.

Per ciò che concerne la Lega, terzo partito di questa contesa per numero di voti (dietro a M5s e Pd), il risultato è tanto sconvolgente quanto significativo: considerando i numeri risibili delle politiche 2013 (4,09 per cento!) l’aumento dei consensi è stato esponenziale, figlio di una strategia politico-comunicativa da dieci e lode di Matteo Salvini che, forte di questo risultato, si candida a essere leader del centrodestra. La mossa vincente è stata comprendere l’entità del malcontento che serpeggiava tra la popolazione e farsene alfiere non solo sul piano regionale, caratteristica intrinseca al suo partito, ma a livello nazionale: una novità per il Carroccio. Per capire quanto il cambiamento di tattica (e di nomenclatura) abbia inciso su questo risultato, basti pensare al risultato di Lecce: da 75 a 10.059 voti, il tutto nel giro di cinque anni.

La protesta di una Femen al seggio di Silvio Berlusconi. Foto: Reddit.com

I perdenti: il fallimento dello Stato

Differentemente da quanto si può pensare a una prima lettura dei dati, chi ha davvero perso le elezioni è Silvio Berlusconi: sarà l’età che avanza, sarà la lunga assenza dalla scena politica causata dalle conseguenze della condanna nel processo Mediaset (e della conseguente interdizione dai pubblici uffici) ma il Cavaliere ci aveva abituato a risultati di ben altro tenore. Il 14 per cento non è in realtà un pessimo score, beninteso, ma il dato assume contorni fatali se raffrontato al punteggio dell’altro “cavallo di razza” della coalizione: il derby interno è perso, le redini della destra sfuggono dalle mani dell’ex premier, disarcionato dalla sella forse a causa del suo essere, per molti elettori di centrodestra, troppo legato all’establishment, allo status quo, agli inciuci e alle larghe intese. Per una destra moderata ed europeista bisognerà dunque aspettare molto tempo: con questo scenario è quantomeno improbabile ipotizzare un impegno in prima persona di Antonio Tajani, già impegnato altrove e poco interessato a sbrogliare questa complessa matassa.

A proposito di larghe intese, a fare le spese dei troppi governi di coalizione è stato soprattutto il Pd. La sconfitta dei democratici è sì grave, ma si inserisce in un quadro più ampio dove la contingenza storico-politica vede le sinistre perdere consensi in tutte le competizioni elettorali di prima fascia, basti pensare ai risultati deludenti dell’Spd in Germania, al tonfo storico dei Socialisti francesi e all’avanzamento delle destre nazionaliste in tutto l’Est Europa. Il 19 per cento del partito di Renzi era tutto sommato prevedibile e nonostante le attenuanti sopra citate non può che considerarsi un fallimento politico: gli errori dei Dem sono evidenti, da un dibattito troppo personalizzato intorno alla figura di Renzi (che in queste ore ha ceduto il passo e convocato l’ennesimo congresso) a una comunicazione politica troppo poco attenta alle necessità primarie dell’elettore comune e alla scarsissima attenzione al territorio nella compilazione delle liste. Da questa debacle si potrà ripartire solo restando all’opposizione, ruolo storicamente fruttuoso per i partiti di sinistra: l’ormai ex capo del partito si è già espresso in questo senso.

Capitolo Liberi e Uguali (e Pochissimi): il manipolo di fuoriusciti Dem e personaggi sempre convinti di essere “più di sinistra” rispetto alla sinistra non è riuscito a presentare un programma politico credibile e coerente (basti pensare alla fragile proposta di rendere l’università gratis, quando chiunque abbia frequentato un ateneo pubblico sa che la tassazione è progressiva ed è una minima parte del totale delle spese di un universitario) e l’eterogenesi di cui era costituito ha portato a un risultato deludente e molto sotto le aspettative, con il “capo politico” Grasso costretto a ricorrere al listino proporzionale per trovare l’ennesima poltrona in Senato.

Una “nuova” frattura

Su cosa hanno costruito la non-vittoria Salvini e Di Maio? La chiave di lettura più adatta sembra essere rintracciabile in una nuova cleavage (frattura) politico-sociale: non tanto fra politica e antipolitica, quanto fra “sistema” e “antisistema”. Non è un caso che i partiti del Patto del Nazareno siano quelli usciti con le ossa rotte da queste elezioni: Lega e M5S sono stati abili intercettori delle necessità più urgenti dell’elettore medio italiano, attento più che mai a temi semplici e quotidiani come immigrazione, sicurezza e lavoro. La comunicazione politica dei grandi partiti, di contro, ha preferito privilegiare temi più marginali come ambiente e diritti civili, sì importanti ma meno attraenti per un cittadino che vive questo momento storico di crisi e recessione sulla sua pelle. Queste elezioni riflettono il fallimento non solo dello Stato nei confronti del singolo, ma anche della politica nei confronti del sociale.

Una proiezione molto vicina al dato reale

Chi dice che «chi vota Di Maio o Salvini è un ignorante» inquadra solo una frazione del problema: gli elettori di queste formazioni appartengono in parte a questa categoria (più sensibile ai temi primari sopra citati e poco abile nell’informarsi), molti altri sono i disoccupati, i delusi della politica, gli emarginati, tutti quelli che si sentono abbandonati dallo Stato e dunque scelgono l’antisistema, la frattura, la speranza di cambiamento. Le istanze portate avanti da queste due formazioni sono di immediata lettura e visibilità, due facce della stessa medaglia di esasperazione e paura: era compito dei politici e della Politica (con la P maiuscola) intercettare queste richieste e farvi fronte. La politica (minuscola) di ieri non ne è stata in grado. Dove lo Stato non c’è arriva la faccia pulita, ingenua e tranquilla di Luigi Di Maio, il ragazzotto della porta accanto che potrebbe essere tuo amico, tuo marito, tuo figlio: l’identificazione è immediata, la comunicazione semplice e diretta, l’idea che in cinque anni con 189 preferenze su un sito internet si possa passare da steward di uno stadio a presidente del Consiglio è il sogno che ogni italiano medio potrebbe avere nel cassetto. Di Maio rappresenta il fascino della vita cambiata in poco tempo, senza virtù o merito alcuno, in cui l’italico votante ha gioco facile a identificarsi e immedesimarsi.

Luigi Di Maio al 32 per cento, con tutto ciò che rappresenta, impartisce una grande lezione a chi si professa “intellettuale”: studiare non serve a niente.

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