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Disparità sociale e disparità ecologica: la rivoluzione mancante è quella ambientale

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Pietro Lepidi

L’ecologia oggi può essere considerata un tema politico “da ricchi”, cioè proprio di chi può discuterne senza essere influenzato da promesse elettorali più materiali e tangibili, quali la riduzione delle tasse o il controllo della migrazione. In realtà l’ecologia è un tema drasticamente attuale e che riguarda proprio le fasce sociali più deboli, i cui effetti pratici possono favorire uguaglianza e giustizia sociale.

La vera esigenza di un movimento ecologista nasce a seguito del riscaldamento globale, fenomeno ormai dimostrato da dati scientifici inequivocabili. Per citare uno studio su molti, la NASA ha dimostrato che 16 dei 17 anni più caldi mai registrati si sono verificati dopo il 2001. L’anno più caldo mai registrato globalmente è il 2016. La causa dell’innalzamento delle temperature attuali è considerata dalla maggior parte degli scienziati essere antropogenica e legata all’innalzamento delle esalazioni di gas, che sono responsabili del cosiddetto “effetto serra”. La produzione industriale moderna è il principale responsabile dell’emissione dei gas inquinanti. Questo sistema ha causato oggi, oltre all’inquinamento atmosferico, parte dell’inquinamento degli oceani e del terreno, con effetti come desertificazione, deforestazione, acidificazione degli oceani e accumulo di una quantità di rifiuti tali da minacciare l’integrità del paesaggio. Tutte le informazioni specifiche  riguardo all’inquinamento dell’aria, del mare e del terreno sono registrate dall’Agenzia delle Nazioni Unite sul Clima, appositamente creata nel 1988.

La media della temperatura mondiale misurata dal NASA Earth Observatory.

È difficile trovare un fenomeno naturale tanto trasversale e ubiquo come l’inquinamento. Consideriamo l’aria: il suo inquinamento entra nei polmoni di qualsiasi individuo nel mondo, al di là di età, sesso, posizione geografica, classe sociale o professione. È evidente però che gli effetti di questo inquinamento, equamente sofferto, sono maggiormente devastanti su chi ha meno mezzi per difendersi da esso. Inoltre, la classe sociale che dispone dei mezzi economici per alleviare su di sé gli effetti dell’inquinamento, cioè la più ricca, è anche quella maggiormente responsabile dei sistemi di produzione inquinanti. Ne consegue che una libera e incontrollata economia di mercato, in cui la produzione industriale è indirizzata solo al massimo profitto, conduce dal punto di vista ecologico alla formazione di due classi. La prima è quella dei soggetti responsabili dell’inquinamento e che allo stesso tempo ne subiscono meno gli effetti: essi non hanno nessun interesse a diminuire l’impatto ambientale della loro produzione, in quanto i mezzi per fare ciò rappresentano per loro un costo aggiuntivo. La seconda è quella di coloro che hanno poche capacità di proteggersi dagli effetti ambientali, al di là della loro responsabilità nel processo produttivo: essi sono i miliardi di abitanti delle nazioni, soprattutto quelle in via di sviluppo, in cui peraltro la popolazione vive principalmente di agricoltura, settore molto sensibile ai fenomeni atmosferici inquinanti.

Un uomo della tribù Nyangatom protegge una fonte d’acqua nel confine tra Etiopia e Kenya.

Di fronte all’emergenza delle tematiche ambientali legate all’inquinamento, è incredibile vedere il numero di quanti oggi negano la necessità di prendere provvedimenti sul tema. L’esempio più evidente è quello dell’uscita degli Stati Uniti, decisa dal presidente Donald Trump, dagli Accordi di Parigi sul Clima del 2015, giustificata dal fatto di dover “difendere gli interessi dell’industria americana e dei suoi lavoratori”. È vero che molti colossi industriali americani (quali Google, Apple e Walmart e perfino industrie nel settore dei combustibili fossili come ExxonMobil, BP e Shell) si sono espressi contro l’uscita dagli Accordi di Parigi sul Clima, per favorire la crescita di un’economia meno dipendente dai combustibili fossili. È altrettanto vero però che il rispetto degli Accordi sul Clima ha dei costi di cui non tutti vogliono farsi carico. Le nazioni sviluppate, preso atto della loro responsabilità nella diffusione di agenti inquinanti, devono di conseguenza assumersi l’impegno a fare ingenti investimenti in tecnologie e impianti a bassa emissione. Di certo è economicamente conveniente per le piccole industrie e per i loro lavoratori (come anche per quelle che devono costruirsi un marchio nuovo) minimizzare il problema. Trump può dire di non capire cosa prevedano gli Accordi di Parigi, ma è stata una sua precisa promessa elettorale quella di difendere le industrie americane più in difficoltà, e specialmente quelle che si occupano di combustibili fossili. A suo dire il pericolo è che le industrie di altri paesi, quali India e Cina, possano sfruttare maggiormente l’estrazione di combustibili fossili poiché hanno inquinato meno in passato. La narrativa alternativa di Donald Trump sul cambiamento climatico ha sicuramente contribuito alla sua vittoria, anche se è solo uno dei molti fattori. Trump ha promesso al popolo degli Stati Uniti, che sono il secondo stato più inquinante del mondo, di non pensare al clima, e la maggioranza degli elettori ha scelto di seguirlo. Coloro che beneficiano e sono responsabili dalla disparità climatica difficilmente prenderanno seri provvedimenti a favore di coloro senza difese e risorse di fronte ai cambiamenti climatici. Esiste infatti uno stretto collegamento tra la disparità economica e quella ecologica.

Il presidente Trump annuncia l’uscita degli USA dagli accordi di Parigi.

È illuminante in tal senso l’enciclica di Papa Francesco Laudato si’, pubblicata nel 2015. In essa il pontefice si pone decisamente dalla parte dei più poveri e meno privilegiati. Nella prima parte dell’enciclica egli denuncia il fatto che il potere sia lontano dalle miriadi di persone che ne sono influenzate. Coloro che infatti sono più influenti al tavolo degli accordi sul clima provengono dai paesi più inquinanti o dalle classi dirigenti, insomma proprio da quanti meno sentono l’urgenza della necessità di provvedimenti drastici. Inoltre, complici di quanto poco è stato realizzato sul clima sono anche gli organi di comunicazione, che per ragioni di audience non favoriscono il contatto tra mondo industrializzato e quello in via di industrializzazione. Ma il pontefice amplia la visione, facendo notare la stretta connessione fra problema ecologico e disparità sociale. «Un vero approccio ecologico è sociale ed è dei poveri»: si introduce il concetto di disparità ecologica. In sostanza il degrado ambientale, sostenuto dall’attuale sistema di potere economico, è degrado antropologico ed etico, anche se gli uomini non ne sono consapevoli. Infatti, la qualità della vita dell’uomo è collegata alla qualità dell’habitat in cui vive.

Un istante dell’illuminazione «Fiat lux: illuminare la nostra casa comune» sulla facciata di San Pietro.

Le attuali minacce di disparità e povertà mondiali, essendo sociali, vanno combattute sul piano politico. Come in passato si è combattuto, e come si combatte ancora per avere uguali diritti politici e sociali, per il bene di una comunità regionale, nazionale o globale, che è dipendente dalle sue risorse materiali, occorre che coloro che soffrono maggiormente dalle disparità ecologiche abbiano una voce. Occorre lavorare su una nuova categoria di diritti, che tutelino l’ambiente in cui viviamo a favore anche delle classi più disagiate. Alcuni di questi diritti sono già riconosciuti dalle Nazioni Unite: per esempio il diritto all’acqua potabile viene riconosciuto per la prima volta nella storia dall’ONU come «un diritto umano universale e fondamentale», in una risoluzione del 28 luglio 2010. Altri diritti e doveri vanno garantiti. Da una parte il diritto all’aria pulita, il diritto a conoscere “l’impronta ecologica” di ogni prodotto o il diritto per ogni generazione a poter usufruire di risorse naturali pulite. Dall’altra il dovere di contare i debiti ecologici tra i debiti economici di uno stato, il dovere di pesare il proprio impatto ecologico e il dovere per le nazioni sviluppate di uscire dalla cultura dello scarto. «Lo spreco è rubare alla mensa dei poveri» commenta a tal proposito Papa Francesco.

Una “rivoluzione ecologica” nel senso sociale può avvenire. Essa si pone in equilibrio tra l’estrema fiducia che il progresso tecnologico troverà una soluzione al problema nelle future scoperte, e il disfattismo proprio di chi vede l’uomo come naturale distruttore della terra. Il precedente presidente americano Barack Obama a Parigi giustamente ha detto: «Siamo la prima generazione che deve affrontare gli effetti del cambiamento climatico e l’ultima che può fare qualcosa a riguardo».
In questa campagna elettorale italiana, che ormai volge al termine, benché tutti i partiti abbiano inserito nel loro programma una parte sulla tutela dell’ambiente non si può purtroppo affermare che l’ecologia sia stato un tema centrale della discussione politica. Di fronte all’urgenza di affrontare il tema ecologico è utopistico pensare che una rivoluzione ambientale possa partire “dal basso”, cioè da parte di coloro che soffrono maggiormente della disparità ecologica (che sono la maggioranza degli elettori). Bisogna riconoscere che ci sarà sempre più predisposizione a votare chi promette sussidi economici immediati, rispetto a chi propone prospettive ambientali a lungo termine e difficilmente percepibili come benefici tangibili. Quando gli effetti dell’inquinamento renderanno l’ambiente veramente invivibile e causeranno danni realmente visibili, allora ci sarà una rivolta sociale, ma a quel punto essa difficilmente riuscirà a salvare l’ambiente che è stato precedentemente devastato. È per questo che bisogna lavorare per contribuire a creare una classe politica formata che, cosciente della situazione ambientale globale, riesca a trovare il modo per fare dell’ecologia la sua battaglia principale.

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