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Il filo nascosto: «Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi»

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Anastasia Piperno

Quando esce un nuovo film di Paul Thomas Anderson non può che esserci grande aspettativa nel mondo del cinema. Dall’esordio Hard Eight (1996), passando per i suoi più acclamati e noti film come Boogie Nights (1997), Magnolia (1999), Il petroliere (2007) e The Master (2012), si è confermato come uno dei registi più importanti degli Stati Uniti contemporanei, con un senso di controllo e di devozione stacanovista che ricorda proprio i suoi personaggi. La sua ultima fatica, Il filo nascosto, è ora nelle sale italiane e sta raccogliendo già molti estimatori. È stato anche sul podio delle uscite dello scorso anno cinematografico statunitense, annoverato tra i preferiti di molte testate e arrivato fino agli Oscar con sei candidature: miglior film, miglior regista, miglior attore protagonista per Daniel Day-Lewis, miglior attrice non protagonista per Lesley Manville, migliore colonna sonora, migliori costumi. Ha vinto solo l’Oscar per i costumi, ma questo non significa affatto che non meritasse le altre statuette, pur tenendo presente una concorrenza altrettanto forte e notevole. Questa è anche la seconda collaborazione con Daniel Day-Lewis dopo Il petroliere ed è anche l’ultima interpretazione dell’attore, che ha annunciato il suo ritiro definitivo dalla recitazione.
Anderson si è ispirato alle figure degli stilisti Cristòbal Balenciaga e Charles James per raccontare la storia di Reynolds Woodcock, stilista di grande successo che veste l’alta società nella Londra degli anni Cinquanta. Gestendo il suo atelier insieme alla sorella Cyril (Lesley Manville), Reynolds intreccia all’eccezionalità del proprio talento una personalità molto problematica. Saldamente attaccato a una vita e una routine rigide e ossessive, è poco permeabile al cambiamento e a qualsiasi incursione dall’esterno. Il suo atelier gravita attorno alle sue esigenze maniacali per favorire la sua creatività artistica, come un monolito di tanti piccoli ingranaggi. Tuttavia è anche una dimora di «morte quieta», dove l’ombra della madre defunta plasma la personalità dello stilista, che sente profondamente la sua assenza e dialoga con lei di vestito in vestito, cucendo al loro interno dei messaggi e delle dediche. Devoto al proprio lavoro e ai propri fantasmi, Reynolds ha una vita sentimentale molto instabile, ma a rivoltare la sua esistenza arriva la giovane Alma (Vicky Krieps, una rivelazione), che da apparente fiamma passeggera, musa “usa e getta” come tante altre, si imporrà nella vita di Reynolds in modo imprevedibile e controverso. Il filo nascosto quindi è una storia d’amore, ma non si appiattisce su uno sviluppo lineare. Dirotta le aspettative dello spettatore portandolo in strade lastricate e conturbanti, si arricchisce e si stratifica in un complesso psicologico e sentimentale animato da pulsanti contraddizioni.

Gli spazi chiusi dei Woodcock

Foto: it.wikipedia.org

Anderson ha sempre dato prova di coraggio e versatilità nella sua carriera, nonostante una regia molto riconoscibile e dei temi ricorrenti. Impossibile infatti immaginare ogni tassello successivo nella costruzione della sua filmografia, tanto che l’annuncio del suo prossimo progetto, un film per le famiglie scritto insieme alla figlia di otto anni, è di nuovo sorprendente. Il contesto dell’alta moda è inedito per Anderson, ma le dinamiche tra i personaggi si inseriscono in una visione solida dei rapporti umani. La pornostar Dirk Digglers in Boogie Nights, i padri e i figli di Magnolia, il petroliere del film omonimo e il leader religioso-intellettuale di The Master condividono con Reynolds Woodcock il bisogno di affermare il proprio ego di contro a un mondo esterno ostile, di superficie scivolosa perché costitutivamente mutevole. La costruzione di una propria identità è un tema caro e mai superato nella storia della cultura, e Anderson si inserisce agevolmente negli sviluppi del Novecento e ancora contemporanei, con l’influenza decisiva del postmodernismo. Non è di certo casuale che abbia frequentato in gioventù un corso di scrittura creativa al college con David Foster Wallace alla cattedra. Dirk Digglers, Frank Mackey di Magnolia sono nomi falsi per identità fittizie e su cui si basa un’attività di successo commerciale. Sono Io costruiti dai personaggi per esibire sul palco una versione di sé sicura, dominante e piacente, ammassando in un angolo la polvere vergognosa della biografia reale, delle proprie insicurezze o di una nudità fragile e nervosa. Si aggiunge per Frank un privato denso di rancori familiari, dolore e ricordi indelebili, arrivando a ribaltare l’uomo alfa recitato pubblicamente. Il bisogno di controllo del caos del mondo, del dominio addirittura tirannico, tornano anche nell’altro volto prestato da Day-Lewis, Daniel Plainview di Il petroliere, e così anche in Reynolds Woodcock. L’ambientazione di Anderson ne Il filo nascosto si ricollega alle origini teatrali del melodramma, dove a una staticità spaziale si contrappongono moti d’animo crescentemente tesi e multiformi. La colonna sonora di Jonny Greenwood, chitarrista storico dei Radiohead, alla quarta collaborazione con Anderson dopo Il petroliere, The Master e Vizio di forma, amplifica i sentimenti silenziosamente palpabili tra i personaggi, l’atmosfera compassata e studiatamente lenta, e lancia una premonizione perturbante già dai titoli di testa.
All’interno delle sue mura, Reynolds riduce il mondo esterno a una fortezza inoppugnabile e ordinata. Non può che essere un regno di gusto estetico raffinato, dove il costumista Mark Bridges opera con talento: oltre a stendere una palette di colori sempre in armonia con il tono fotografico del film e le sue atmosfere, rende quanto ogni singolo abito sia disegnato e realizzato con metodica passione. Eppure perché queste belle creazioni sorgano è necessaria una serie di riti tanto inviolabili da suggerire forti nevrosi. Basti pensare che il famoso detto per cui la colazione è il pasto più importante del giorno qui è esasperato, è reso un momento di concentrazione e silenzio sacro, dove un rumore di forchetta acuto può disturbare e lasciare segni duraturi sull’umore. Così anche la sua arte è una proiezione sul corpo di altre donne della propria personalità, dove le forme del cliente sono il perno attorno a cui modellare le proprie opere nel modo più consono alle sue caratteristiche fisiche. Lo stesso abito, una volta realizzato, è molto più importante di chi lo indossa e va saputo onorare. Infatti gli occhi dello stilista non sono mai sulla donna in sé stessa, ma sul proprio vestito indossato da lei, scrutando qualcosa oltre l’involucro, un proprio disegno mentale, un fantasma di nuovo. Se si fosse tradotto letteralmente Phantom Thread il titolo italiano sarebbe stato Il filo fantasma, decisamente più calzante l’essenza del film. È significativo infatti che una delle ammiratrici di Woodcock gli dica che le piacerebbe poter essere sepolta in un suo abito. La creazione artistica qui fronteggia l’ombra materna, la quale è causa di un atteggiamento conservatore e autoreferenziale. Qualsiasi persona che abbia la capacità di invadere gli spazi della nostra mente a lungo termine, di essere il motore invisibile di molte nostre azioni, non può che allargare la propria influenza su come si percepiscono gli altri, confrontati con essa. Ripensando proprio al vincitore del Miglior film agli ultimi Oscar, La forma dell’acqua di Del Toro, anche lì si dice che la presenza della persona amata si ritrova ovunque nel mondo, riempie gli occhi. In altre parole, l’esperienza quotidiana diventa un dialogo sotterraneo e ininterrotto con chi si ama. Allora Reynolds guarda con gli occhi del desiderio infestato, avvinto dal passato e dai ricordi (come altri personaggi di Anderson). Rintracciare le orme della madre nel mondo è una ricerca inquieta, dove Alma arriva come un’intuizione misteriosa.

«Lascia che guidi io»

Foto: mubi.com

Perché Alma si rivelerà qualcosa di più di un abbaglio a breve scadenza? Dalla breve comparsa della fiamma precedente di Renyolds, una tale Johanna (Camilla Rutherford), si intuisce che Renyolds non è soltanto uno scapolo, ma un amatore seriale sempre incline ad abbandonare dopo un innamoramento passeggero l’amante di turno, la quale manifesta i propri desideri e le proprie esigenze nel corso della vita in comune. La donna è attirata nel covo di Renyolds perché possiede qualcosa che stuzzica la sua sensibilità artistica e personale; e che da lei si sente vezzeggiata, lusingata. Così accade anche per Alma. Il rapporto tra i due, sin dal primo incontro nell’osteria in cui lei lavora come cameriera, è annunciato da un aggancio di sguardi e un senso di sfida comune. Infatti questa volta i predatori sono ben due, poiché Alma si prospetta diversa dalle altre proprio per il suo bisogno di dominio, il quale confligge con l’ego e la corazza autarchica di Reynolds. Alma riscopre la propria femminilità imperfetta attraverso l’occhio ammirato di Renyolds, che la vede al contrario come una musa ideale. Il piacere acuto dell’essere scelti dalla persona di cui si è innamorati qui trova un risvolto in un senso di elezione (in riferimento al posare per lui: «Io posso resistere all’infinito, nessuno resiste quanto me») all’interno di un contesto ritenuto eccezionale. Inoltre questo nuovo ambiente diventa una famiglia acquisita che assume una vitale importanza, come accade continuamente nel cinema di Anderson. Si passa spesso dalle proprie origini biologiche, culturali o più semplicemente personali a un nuovo microcosmo familiare che rappresenta una seconda opportunità per il personaggio di definire sé stesso e lo scopo della propria vita. Alma così partecipa con solerzia, presta sé stessa e le proprie energie per contribuire al lavoro dei Woodcock, fino a creare abiti da sé. Come in The Master, il carisma di un maestro spinge sempre più la giovane a credere nel carattere sublime dell’arte di lui, fino a difenderla da chi non la comprende o maltratta, come se fosse divenuto un proprio credo. D’altronde questa protezione di Alma dell’operato del suo compagno non si limita di certo all’ambito professionale, ma riflette invece un più generale bisogno di possesso della sua persona. Lancaster (Philip Seymour Hoffmann) sempre in The Master augurava al protagonista Freddie di poter trovare un modo per vivere senza servire un padrone, di qualsiasi sorta, lasciando sospesa la possibilità di un’indipendenza e libertà raggiungibili. L’amore per Anderson allora è un’altra forma di dinamiche di potere, dove però i poli di dominante e dominato si devono alternare continuamente perché il sentimento sia vivo e acceso da parte di entrambi i partner. Alma a sua volta vede una bellezza e fascino interni preziosi nello stilista londinese, e il suo crescente attaccamento si traduce nel tentativo di entrare nella sua intimità più scoperta e indifesa, conquistarla e poter esserne una custode esclusiva. Reynolds si crede forte, ma la sua nuova favorita vuole penetrare oltre le sue convinzioni (torna il senso di identità pronto a essere frantumato). Ella però non accetta di svanire completamente dietro alla personalità di lui, ma aspira a poter dimostrare il suo amore con a sua volta un’identità ferma, a modo suo. Le specificità irriducibili dei personaggi sono evidenziate dalla regia, che ricorre di frequente a primi piani isolanti.
L’amore femminile qui è una fiera dedizione, una volontà di provvedere alle cure dell’altro, di servirlo, ma per affermarsi ha bisogno di un abbandono e di una sottomissione momentanea, di una fiducia completa. In tale rapporto il padrone e il servo sono ricoperti da entrambi i partner in uno stesso momento, visto che il dominio di Alma è paradossalmente un servire sovrano. Non a torto la storia d’amore qui presente può essere contestata, addirittura non ritenuta tale perché impositiva e aggressiva, ma allo stesso tempo è impossibile negarla senza lasciarsi dietro molti punti complessi, come lo sono la varietà dei sentimenti umani. Se poi le necessità all’interno della coppia dipendono spesso dalle personalità interagenti, allora va considerata la psicologia individuale di Reynolds, che sembra destinato a farsi avvincere proprio da una figura spiccatamente materna e forte. È una tendenza intima che Alma intuisce bene e che a sua volta è volenterosa di soddisfare. Anderson sceglie di mostrare questa progressiva sovrapposizione delle due donna in una scena onirica efficace: in un momento di totale fragilità e malattia, il protagonista ha una visione allucinata di sua madre, verso cui anela, ma si rende conto che non riesce più a sentirla. Nello stesso momento Alma arriva al suo letto-capezzale, viva, percorrente gli spazi della sua stanza al contrario della madre immobile e muta. È un momento spartiacque e rivelatore per il sentimento di Renyolds, che comprende di amare davvero la compagna, operando una sostituzione psicologica.

Anderson guarda a Hitchcock

Foto: The New Yorker

Il melodramma si accende per le mutue resistenze, fino ad assumere tinte fosche. La conflittualità che rischia di minare il rapporto cerca dei superamenti nient’affatto ortodossi e che suscitano sconcerto, ma essi, sin dalla prima scena, sono narrati da Alma con un sorriso pacificante, lo stesso che animerà Renyolds in una scena decisiva del film. Le contraddizioni brucianti del rapporto sono superate con gesti estremi che spiazzano lo spettatore, e pure nella loro etica problematica sono la risoluzione del caos all’interno della coppia, un perverso equilibrio raggiunto.
È importante quanto Anderson rielabori Hitchcock, di cui ha ripassato alcuni film amati durante la fase germinale dell’opera. Uno di essi è Rebecca la prima moglie (1940), dove ritorna l’idea di un triangolo amoroso in cui la terza componente, pur essendo defunta, grava sulle dinamiche di coppia. La madre di Renyolds ha un ruolo analogo a quello dell’ex-moglie Rebecca, personalità spettrali e aleggianti per tutta la casa, incombenti sulle nuove arrivate. Così anche la scena in cui Reynolds fa posare per la prima volta Alma ricorda La donna che visse due volte (1958), in cui in una scena della parte finale James Stewart vestiva del proprio desiderio Kim Novak. La bellezza inseguita dagli uomini del cineasta britannico presenta continue analogie fisiche (è noto il suo debole per le bionde) riconducibili a un prototipo ideale, come in Woodcock. Più generalmente, sia ne Il filo nascosto che nella filmografia hitchcockiana paura e desiderio sono sempre in relazione, e così anche eros e morte. Quest’ultima può essere sia un afflato funereo che un gesto di effettiva violenza e pericolo fatale, gettando suggestioni perturbanti. Ancora più in superficie, i nomi dei personaggi in Anderson sono sempre significativi, così Woodcock ricorda Hitchcock, e Alma era il nome di sua moglie. Una moglie, per giunta, che ha sempre dovuto assistere ad una sfilata di attrici sul set, di nuovo di musa in musa, come l’Alma di Anderson guarda la serie di clienti facoltose ed eleganti che si succedono in casa. Come accade d’altronde a molte compagne di artisti, un altro elemento con cui scendere a patti nel rapporto esclusivo è l’attività creativa del marito, un suo regno di immaginazione, che in un momento attinge avidamente all’amata, mentre in un altro la distanzia. Qui l’arte include la figura ispiratrice e la estromette allo stesso tempo. Si può ripensare a Madre! di Aronofsky: era considerata una musa eppure si sentiva un’intrusa. Non a caso anche lì si aveva a che fare con una personalità con un forte ego. Curiosamente inoltre anche la Madre interpretata da Jennifer Lawrence (nome emblematico nel paragone) cercava di diventare custode attenta di una casa acquisita, anch’essa infestata a suo modo e respingente.

Altrove in Anderson, come in Boogie Nights o Il petroliere, il periodo storico in cui erano immersi i protagonisti aveva un ruolo di primo piano, influenzando un generale arco narrativo di ascesa, successo e discesa sociale. La Storia invece ne Il filo nascosto è filtrata opaca attraverso le finestre, coglie di sprovvista lo stilista, che si ritrova improvvisamente a perdere di attrattiva di fronte ai nuovi gusti che si impongono nella moda del tempo. Nel suo essere focalizzato su un dramma tutto interno ai personaggi, però, è proprio l’amore a proporsi come forza permanente – una speranza della narratrice Alma più che un fatto certo – e incorruttibile di contro ai saliscendi dei favori sociali, proiettato al di là del tempo contingente per un’eternità dal sigillo ambiguo.

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