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Nel 1873 venne pubblicato per la prima volta Il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne. Il romanzo rappresenta le conquiste della rivoluzione liberale in senso politico ed economico, che scaturiscono nella possibilità di raggiungere luoghi molto distanti in tempi mai visti. La pubblicazione del romanzo coincide per ironia della sorte con il crollo della borsa di Vienna, ritenuto da alcuni storici l’inizio di un forte periodo di crisi, da altri di recessione o rallentamento della crescita. Iniziarono a emergere gli effetti di tale rivoluzione. La situazione agraria che si apprestava a verificarsi tuttavia non lascia spazio a dibattiti sulla presenza di una crisi. Le conseguenze dell’avvicinamento di aree geografiche separate da chilometri di oceano, distinte da una storia, coscienza collettiva, leggi e tecniche di produzione molto diverse tra loro, diventarono sempre più evidenti.
Crisi significa in parole povere una situazione di disequilibrio molto forte relativamente al prezzo dei beni, che può crollare drasticamente o schizzare alle stelle. Agli agricoltori italiani non era data pace: dopo aver vissuto un decennio e mezzo sotto il giogo delle tasse – si ricorda la tassa sul macinato, imposta per citare un esempio a Bologna nel 1864 – per far raggiungere al Regno il pareggio di bilancio tanto desiderato (1876), si apprestavano a vivere tempi molto difficili.
Per la prima volta nella storia si può parlare di crisi senza fare riferimento alla scarsità di beni. Le dottrine del libero commercio, unite alla rivoluzione dei trasporti, del credito e delle scoperte scientifiche, fecero in modo che la produzione in ogni campo toccasse livelli mai visti, forse troppo alti. La crisi agraria che ha iniziato a prendere piede dal 1873 fa riferimento infatti alle conseguenze economiche delle eccedenze produttive.
Da un lato le grandi distese nord e sud americane e l’enorme quantità di prodotto rispetto a quello europeo furono in grado di schiacciare la concorrenza sul mercato, invadendo i mercati del vecchio continente a prezzo di gran lunga inferiore. La causa di ciò è riconducibile non solo alle nuove scoperte nel campo della chimica e della meccanica agraria, ma anche nella diminuzione negli anni dei noli, le tariffe sul trasporto marittimo delle merci (in cinquant’anni il costo di trasporto di uno staio di grano scese a un quarto del suo valore iniziale), e dall’introduzione nei mercati del prezzo fisso non contrattabile.
L’aumento del commercio, ad esempio del grano, tra nuovo e vecchio mondo rese sempre più dipendente quest’ultimo dalle politiche nazionali del primo. In controtendenza rispetto alla diminuzione generale dei prezzi dei beni alimentari, si ricordano i disastrosi effetti che la guerra ispano-americana del 1898 ebbe sulla nostra penisola: il prezzo dei cereali, e dunque del pane, aumentò in maniera tale da creare disordini e proteste nelle principali città italiane che sfociarono nella famosa “protesta dello stomaco” a Milano, sedata a colpi d’artiglieria su ordine del generale Fiorenzo Bava Beccaris. L’esagerata reazione da parte delle istituzioni italiane nei confronti della popolazione fu il motivo che spinse l’anarchico Gaetano Bresci ad assassinare il Re d’Italia Umberto I due anni dopo i disordini milanesi.
Così come il commercio di zucchero tra le Americhe e l’Inghilterra quintuplicò nel corso dell’Ottocento, il suo prezzo crollò, aprendo la strada a un problema che da ora in poi sarà costante: un prezzo basso dei beni alimentare è una grossa conquista per il mondo industrializzato, consentendone un accesso sistematico per i ceti meno redditizi. D’altra parte, un basso prezzo dei beni alimentari rappresenta una perdita significativa per l’agricoltore, se non la strada per il fallimento.
Non è corretto tuttavia evincere da questo fatto che mentre le classi agricole faticavano a sopravvivere la piccola borghesia e il ceto operaio se la passavano tanto meglio. Verso la fine del secolo il periodo di crisi – o recessione – vide insieme al crollo dei prezzi alimentari un fenomeno deflattivo (perdita di potere d’acquisto della moneta) che causò una diminuzione generale degli stipendi. Lo spopolamento delle campagne indotte prima dall’industrializzazione (verso le città) e dopo dalla crisi agraria (verso le Americhe) determinò inoltre una costante diminuzione in numero degli agricoltori. Non è un caso se proprio in questi decenni le teorie marxiste iniziano a conquistare il crescente ceto operaio, prevedendo la totale scomparsa della classe agricola.
Senza protezione da parte dell’élite liberale che guidava il paese e poco considerati dalle teorie marxiste che in quegli anni sembravano l’unica alternativa al liberismo economico, gli agricoltori italiani riuscirono a trovare rappresentanza in emeriti e, ci teniamo a rammentarlo, nobili dottori agronomi, impegnati come senatori o deputati presso il Regno d’Italia.
Ha inizio infatti nel 1876-77 un importantissimo lavoro d’inchiesta agraria mirato allo studio delle condizioni dell’agricoltura nel suo senso più ampio. La relazione finale dell’inchiesta, redatta e pubblicata un decennio dopo dal senatore Stefano Jacini, rappresentò un punto di svolta determinante per l’agricoltura del paese. L’Inchiesta è suddivisa in tanti atti quante le circoscrizioni del Regno, ognuno commissionato a diversi soggetti (raggruppamenti di provincie, ad esempio Bologna, Modena, Reggio-Emilia, Parma, Forlì, Ferrara e Ravenna appartenevano alla VI circoscrizione, ad opera del marchese Luigi Tanari).
In ognuno di questi atti è contenuta un’approfondita relazione circa clima, geografia e topografia, agricoltura (comprensiva di censimenti sulle produzioni vegetali, animali, delle patologie della zona e delle tecniche di coltivazione utilizzate), industria agraria e fattori di produzione, proprietà fondiaria, contratti agrari e classe agricola. Fu inoltre dedicata una parte dell’inchiesta alle condizioni di vita degli agricoltori, ponendo attenzione alle condizioni igienico-sanitarie. Questa parte fu curata da un altro promotore dell’Inchiesta agraria, il medico-deputato Agostino Bertani, proveniente da ambienti di sinistra. L’eredità più grande di quella che passò alla storia come l’Inchiesta Jacini fu probabilmente la crescente consapevolezza, portata all’attenzione in prima istanza dal conte di Cavour, che lo sviluppo del paese sarebbe stato inscindibile dallo sviluppo agricolo, nonché le conseguenze sul dibattito politico in merito.
Considerando le quantità crescenti di grano americano che si riversarono grazie agli accordi commerciali sui mercati italiani, il dibattito si polarizzò facilmente con aspetti non dissimili dalla realtà dei nostri giorni. La diatriba verté essenzialmente sulla possibilità di introdurre dazi sull’importazione del frumento americano. Va innanzitutto ricordato che il frumento era il cereale maggiormente coltivato sulla penisola; pertanto, un crollo in quel settore sarebbe stato rovinoso per il paese. Da una parte ci furono personalità come Stefano Jacini, le quali ritenevano che per far fronte alla crisi si sarebbe dovuta porre attenzione alla trasformazione delle colture e delle loro tecniche produttive, accrescendo l’integrazione del settore agricolo in quello industriale per trovarvi un appoggio costruttivo, se non assistenziale. A favore invece dell’introduzione di dazi ci fu la neonata Lega di Difesa Agraria (Torino, 1885), con lo scopo di «promuovere con tutti i mezzi legali l’adozione di provvedimenti a favore dell’agricoltura».
Come sostenuto da uno dei principali sostenitori dei dazi, l’imprenditore laniero e deputato Alessandro Rossi, tale misura andava vista come provvedimento compensatorio, nel senso che sarebbe servito – oltre a compensare i sussidi sull’esportazione – come ulteriore canale di gettito fiscale per lo stato, incentivando così la diminuzione delle tasse in agricoltura (nonostante il governo Depretis già nel 1884 provvide all’abolizione della tassa sul macinato imposta vent’anni prima), e temporaneo, in modo da fornire agli agricoltori durante quel periodo di tempo condizioni più favorevoli per la trasformazione e modernizzazione delle tecniche produttive, che avrebbero consentito un inserimento più positivo nelle dinamiche del libero mercato.
Le prospettive protezionistiche promosse dalla Lega di Difesa Agraria poggiarono le basi per la costituzione di un Partito Agrario, che alle politiche del 1886 vide eletti 90 dei suoi membri. L’incarico di presiedere il consiglio dei ministri venne affidato al già noto Agostino De Pretis, che due anni dopo riformò la politica tariffaria nazionale, alzando le tasse sull’importazione di beni come grano e zucchero.
Tuttavia, se da un lato con l’aumento dei dazi sull’import si riuscì ad allentare la morsa tassativa sui produttori di grano, dall’altro tale politica tariffaria innescò una guerra commerciale con la vicina Francia, la quale si rifiutò di importare prodotti agroalimentari italiani risultanti dalle coltivazioni del sud, che vennero progressivamente abbandonate. Di fatto, i dazi in entrata indirizzarono la specializzazione produttiva agraria italiana verso la coltivazione di frumento, diventata più conveniente. La superficie ad esso dedicata crebbe e la ricerca nel settore per trovare cultivar più produttive si intensificò.
L’incremento produttivo del tardo Ottocento è dovuto alla nascita di due nuovi settori industriali: la chimica e la meccanica. Il primo trattore italiano a vapore fu realizzato da Pietro Ceresa Costa e impiegato a Piacenza. Questo risultò tuttavia difficile da utilizzare per il suo peso e dimensioni. La soluzione fu il motore a scoppio, presentato nel 1853 presso l’Accademia dei Georgofili di Firenze da Eugenio Nicolò Barsanti e Felice Matteucci. Il progetto tuttavia non decollò a livello industriale per la morte prematura di Barsanti.
Successivamente, nel 1876 l’ingegnere tedesco Nikolaus August Otto perfezionò il motore a scoppio ottenendo il primo motore a combustione interna a quattro tempi (aspirazione, compressione, scoppio e scarico). Dal punto di vista agricolo tuttavia, questo motore dava risultati scarsi per potenza insufficiente per il traino, soprattutto in terreni agricoli irregolari. Sopraggiunse pertanto il motore diesel, che in questo senso dava risultati migliori. Nel primo decennio del Novecento entrò in commercio invece il primo trattore a due tempi, mentre per la produzione in serie bisognerà aspettare il 1915.
L’importanza di elementi chimici come l’azoto, potassio e fosforo per la fisiologia delle piante invece è una scoperta dovuta agli studi di Jusus Liebig, destinata a rivoluzionare i metodi di concimazione dei terreni. In seguito a tale scoperta, i fertilizzanti artificiali come perfosfati minerali o sali potassici iniziarono a sostituire i comuni concimi naturali (letame, guano, stallatico) e le pratiche agronomiche di arricchimento del terreno (maggese). Nel 1886 nacque la Magni & C., la prima società italiana specializzata nella produzione di concimi artificiali, che formerà nel 1908 l’Unione Italiana fra consumatori e fabbricanti di concimi e prodotti chimici.
Ma le fonti dalle quali trarre gli elementi chimici essenziali per l’agricoltura non erano sufficienti a soddisfare una domanda di tali prodotti in continua crescita. Fu così che nel 1898 al chimico inglese William Crookes venne in mente di sfruttare una fonte teoricamente inesauribile per estrarre l’azoto: l’aria. I risultati degli esperimenti di Crookes rivoluzionarono la chimica industriale aprendo le porte per la sintesi artificiale dell’ammoniaca. La sintesi artificiale di materiale chimico impiegabile nei più disparati settori industriali ridusse drasticamente le importazioni dei materiali da cui precedentemente a tali scoperte si estraevano gli elementi, soprattutto dal Cile.
Il numero in crescita dei brevetti sulle invenzioni denotano soprattutto un aspetto di interesse strategico crescente nei confronti della ricerca. Caratteristica preponderante di quei decenni fu la tendenza nel mondo agroalimentare indotta dalla rivoluzione meccanica e chimica di rendere più produttive le ampie estensioni. Per essere redditizi in un mondo globalizzato, un prerequisito essenziale divenne l’ampia disponibilità di capitali da poter investire nell’acquisto dei nuovi fattori di produzione.
Le ricchezze investite quasi sempre provenivano dalle ricchezze accumulate in precedenza, soprattutto dagli investimenti sulle linee ferroviarie. Pertanto è semplice capire come le potenze coloniali e i paesi molto grandi e sviluppati come gli Stati Uniti fossero sempre un passo avanti rispetto al Regno d’Italia, impegnate entrambe nel costruire ferrovie in ogni angolo dei loro vasti possedimenti, ottenendo come risultato i rendimenti degli investimenti finanziari.
Ottenere i fattori di produzione più all’avanguardia divenne dunque essenziale. E aumentare i dazi sui prodotti di importazione non bastò, sebbene fu d’aiuto. In risposta alle pressioni di un mondo sempre più interconnesso, si sentì il bisogno di una nuova ondata di spirito associazionistico. Di uno spirito d’associazione tuttavia che non fosse mirato alla semplice consulenza e istruzione agraria, ma anche all’acquisto di tali fattori di produzione e alla tutela dei produttori all’atto della vendita.
Nasce infatti nel 1892 a Piacenza la prima cooperativa agricola, Federconsorzi (Federazione Italiana dei Consorzi Agrari). Le cooperative differivano dalle precedenti forme associative in quanto non avevano ruolo di consulenti del Ministero. Le esigenze comuni a molti produttori di resistenza alle pressioni del mercato portarono a mettere insieme i capitali necessari per formare gruppi più grandi. Come già stato accennato infatti col tempo aumentarono le dimensioni minime aziendali necessarie per far sì che l’attività fosse redditizia.
Inoltre, la nuova forma associativa di cooperativa rappresentò uno dei primi esempi di organizzazione associata della filiera agricola. Federconsorzi nello specifico nacque con l’intenzione di fornire agli agricoltori i mezzi necessari per produrre di più, garantendo un canale di vendita dei loro prodotti sicuro. Nel 1895 nacque la Società degli Agricoltori Italiani, la cui presidenza venne affidata al senatore Giuseppe Devincenzi e che differì negli scopi e nei modi d’azione per la maggiore importanza data all’istruzione agraria.
L’esigenza d’associazione in forma cooperativa non venne colta solo dagli apparati istituzionali, ma anche da privati cittadini, i quali compresero che in Italia non vi erano condizioni tali da indurre una rivoluzione industriale di stampo inglese, molto più incentrata sull’abilità imprenditoriale del singolo individuo, piuttosto che sull’associazione volontaria. Anzi, fu proprio l’associazione volontaria con fini mutualistici (definizione formale di cooperativa) a riempire il vuoto lasciato dalla mancata rivoluzione liberale in Italia.
Il fenomeno cooperativo, nello specifico quello agrario, fu la risposta giusta al momento giusto, messa in pratica da uomini che compresero il valore sociale dell’associazionismo. D’altro canto anche il direttore generale del Ministero di Agricoltura Industria e Commercio (1894) Nicola Miraglia era convinto che «la questione sociale in Italia era una questione di economia e tecnica agraria».
Il miglioramento dell’economia e della tecnica agraria in Italia fu possibile in prima istanza grazie alla libera circolazione delle idee, nonché a tutti gli uomini che parteciparono all’Inchiesta del 1876-1886, i novanta rappresentanti alla Camera del Partito Agrario, gli scienziati e ingegneri italiani che contribuirono alla messa in pratica di invenzioni rivoluzionarie, le illustri personalità borghesi che fondarono imprese determinanti per lo sviluppo economico del tempo e che parteciparono alla fondazione di Federconsorzi, i 1184 iscritti alla Società degli Agricoltori italiani; e ovviamente i milioni di agricoltori e braccianti che più di tutti subirono i colpi della crisi, e che dovettero conciliare il quieto vivere della campagna con la frenesia di un mondo all’apice della sua globalizzazione, interrotta con lo sparo che spense non solo la vita dell’Imperatore austro-ungarico, ma anche il XIX secolo.
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