Nello sport ci vogliono bravura, talento ma soprattutto testa: Randy Turpin possedeva le prime due qualità, ma fu un pugile psicologicamente fragile, che andò incontro a una fine drammatica
Quando una tragedia umana prende spazio tra le pieghe di un macrocosmo come quello dello sport, viene inevitabilmente ad acuirsi la commozione e la tristezza generate da un evento drammatico. Una sensazione che in Italia abbiamo tristemente provato la scorsa settimana, dopo la scomparsa del calciatore della Fiorentina Davide Astori. Drammi come questi, quotidiani ma non per questo banali, si consumano sotto la luce dei riflettori anche all’estero. E la storia di Randy Turpin, pugile britannico vissuto tra gli anni ’30 e gli anni ’60, risulta essere l’ennesima dimostrazione di come lo sport possa dare tantissime gioie ma anche immensi dolori, specialmente nel caso in cui lo sportivo stesso divenga “vittima” della sua necessità di portare risultati e di una mancanza di mentalità che fa crollare l’autostima.
Nato a Leamington nel 1928, Randolph Adolphus Turpin era un ragazzo di origini caraibiche: il padre, nativo dell’isola, aveva sposato una donna bianca in Inghilterra. Anche per via del colore della sua pelle, Turpin in carriera fu sostenuto fino all’ultimo secondo della sua attività sportiva dalle minoranze etniche del Paese, che in lui vedevano una sorta di riscatto nei confronti della dominanza bianca. Rimasto completamente sordo a un orecchio durante l’adolescenza per via di un incidente in acqua che lo aveva quasi ucciso, Turpin non fu distolto dalla sua volontà di diventare un pugile. Il ragazzo, estremamente capace sia a livello di condizione fisica che di talento insito, doveva affidarsi al suo angolo per capire quando effettivamente fosse terminato o meno un round. A discapito di questa difficoltà uditiva, comunque, il pugile divenne ben presto credibile nel suo ambito di competenza a suon di pugni e vittorie. Turpin possedeva uno stile dinamico, unito a una potenza notevole oltre che impossibile da sottovalutare per i suoi avversari.
Il grande trionfo
Randy Turpin raggiunse l’apice della sua carriera intorno ai primi anni ’50, con più precisione nel 1951. Il pugile inglese ebbe infatti l’occasione della vita nel mese di luglio, potendo sfidare il campione del mondo dei pesi medi Sugar Ray Robinson, oggi considerato il più grande pugile del XX secolo nonché uno dei lottatori più forti mai esistiti nella disciplina. L’americano accettò l’incontro come ultima tappa del suo tour europeo, forse convinto di poter sbrigare la pratica in maniera piuttosto veloce e indolore per poi tornare negli Stati Uniti ancora in possesso del titolo. Robinson, infatti, aveva deciso di percorrere l’Europa con la sua Cadillac e un entourage di una dozzina di persone, facendosi notare soprattutto in Francia e in Germania. Arrivato a Londra, il campione del mondo dovette affrontare proprio Randy Turpin, il quale in quel momento era di gran lunga uno dei pugili britannici più forti, se non il migliore.
I due si sfidarono il 10 luglio 1951: i pronostici della vigilia erano quasi completamente dalla parte di Sugar Ray, che però durante l’incontro si rese subito conto della potenza dell’avversario. Al termine di ben 15 round e di un match memorabile, l’inglese firmò l’impresa ai punti, detronizzando lo statunitense: Randy Turpin divenne così campione del mondo dei pesi medi a 23 anni, con il pubblico britannico in visibilio per l’accaduto. Quella vittoria, sensazionale quanto incredibilmente sorprendente, fu il punto cardine raggiunto da Turpin nel corso della sua carriera nella boxe. Una carriera che, dopo appena due mesi, decise però di prendere una piega devastante nella vita dell’atleta.
Robinson, shockato dall’aver perso il titolo, chiese e ottenne subito una rivincita. A settembre, dunque, i due si sfidarono nuovamente per il titolo dei pesi medi, il quale però stavolta era intorno alla vita di Turpin. L’inglese aveva ricevuto notorietà e popolarità immense a seguito della vittoria e si presento in terra americana con l’intento di alimentare questo successo. L’incontro fu un vero e proprio massacro: al Polo Grounds di New York Robinson, dopo averlo dominato per gran parte dell’incontro, stese Turpin con un pugno e vinse il match per KO alla decima ripresa, riconquistando dunque il titolo che gli era stato tolto qualche settimana prima. La sconfitta contro Sugar Ray Robinson – sicuramente non il primo arrivato, anzi – lasciò un senso di profondo fallimento nella mente di Turpin, che pensava di non essere riuscito a dimostrare di poter rappresentare la boxe come campione. The Leamington Licker (il picchiatore di Leamington, ndr) – così lo avevano soprannominato i giornali britannici – non riuscì mai più a riconquistare il titolo di campione, né in quella categoria né in altre. In molti, peraltro, sostengono che proprio la sconfitta contro il campione americano avesse dato principio ai problemi psicologici che lo stesso Turpin iniziò a manifestare negli anni successivi.
La tragica fine
Pur non toccando mai le vette raggiunte in quel mese di luglio, la carriera di Turpin prese comunque una piega soddisfacente: l’inglese divenne ricco, si costruì una famiglia e continuò a vincere svariati incontri anche contro altri pugili molto forti. Subì però altre due sconfitte molto pesanti contro Bobo Olson e l’italiano Tiberio Mitri, il quale fu capace di batterlo dopo meno di un minuto dall’inizio del loro incontro a Roma, valevole per il titolo europeo dei pesi medi, tramite l’ausilio del suo gancio sinistro. La stessa tenuta mentale di Turpin aveva preso una piega molto delicata: l’inglese si rivelò essere molto fragile a livello psicologico e portò la sua vita a prendere una strada tormentata e problematica. Turpin iniziò a sperperare soldi, accumulare debiti e mettere in difficoltà la sua famiglia anche nelle piccole cose quotidiane.
Il dramma vero andò in scena nel pomeriggio del 17 maggio 1966: ormai pressato dai debiti e dalla bancarotta e in preda a una depressione mai sconfitta, dopo un violento litigio casalingo Turpin estrasse la sua pistola e sparò alla secondogenita Carmen, colpendola per due volte. Dopodiché si puntò la pistola contro e sparò, uccidendosi. La figlia, dopo un periodo in ospedale, si salvò miracolosamente e addirittura oggi gestisce il museo instaurato nella sua vecchia casa per ricordarne le gesta. Una manifestazione coerente di come l’amore prevalga sempre su tutto il resto, nonostante tutto.
La vita di Randy Turpin è l’esempio perfetto di come nello sport – e non solo – sia necessario soprattutto avere una grande forza mentale per poter arrivare a reggere certe pressioni. Nel suo percorso dalle stelle alle stalle l’atleta ha incontrato gloria, delusioni, paura e senso di impotenza, tutte emozioni troppo forti e importanti da poter gestire senza ripercussioni. Nonostante questo, da molti Randy Turpin verrà ricordato come un campione vero, che a dispetto di una caduta veloce ha saputo comunque ritagliarsi il suo spazio nell’Olimpo del pugilato.