Non esiste campagna elettorale che sia esente da colpi di scena, controversie ed esiti inaspettati. Eppure, se negli ultimi giorni la Lega è sulla bocca di tutti non è certo per il sorpasso all’interno della coalizione di centrodestra – o non più almeno –: ragione del rinnovato affanno, mediatico prima e social(e) poi, è Toni Iwobi, il primo senatore nero nella storia della Repubblica, salito al seggio proprio sotto l’improbabile egida del candidato premier Matteo Salvini. Ma chi è Toni Iwobi? È tutto fuorché la personificazione di un cortocircuito razziale come una certa politica vuol far credere.
Toni Chike Iwobi, ancor prima che un politico – naturalizzato – italiano, è un igbo (la principale etnia tribale della federazione nigeriana) nato a Gusau, una delle quattordici LGA (aree a governo locale) dello stato del Zamfara, nel nord-ovest della Nigeria. Figlio della diaspora del Biafra, Iwobi arriva in Italia nel ’76 da immigrato regolare (con un permesso di soggiorno per motivi di studio all’università di Perugia), già diplomato a Manchester in economia aziendale con specializzazione in marketing: non godendo di particolari sussidi e sovvenzioni, si paga da vivere lavorando come netturbino per l’AMSA di Milano (oltre che come stalliere, muratore e idraulico) per poi laurearsi in Scienze dell’Informazione, completando così gli studi in Computer Information Science iniziati anni prima all’Università dell’Arkansas. Stabilitosi poi a Spirano (dove è titolare di una piccola azienda informatica dal 2001), parafrasando le sue stesse dichiarazioni, incontra i due “grandi amori” della sua vita, la moglie Lucia e la Lega Nord di Bossi: ispirato dal federalismo nigeriano, si ritrova nelle proposte del partito e, in particolare, dell’ideologo del movimento Gianfranco Miglio.
La sua storia con la Lega nella Bassa bergamasca ha inizio nel ’93, anno che già lo vede ricoprire la prima funzione di consigliere comunale di Spirano, ruolo che mantiene di mandato in mandato fino al 2010, quando riceve l’investitura della carica di assessore della giunta. Quale fermo sostenitore della necessità di rivedere le politiche di accoglienza nazionali, sempre più schiave delle mentalità open-borders e refugees-welcome, nel 2014 diventa responsabile federale del Dipartimento Immigrazione e Sicurezza del partito sotto richiesta dello stesso segretario Matteo Salvini. Durante la scorsa legislatura, Iwobi ha contribuito alla lotta per la regolamentazione dell’immigrazione, conducendo in prima persona un’indagine sugli stranieri fruitori del sistema ricettivo italiano: ha così scoperto realtà assai scomode per il pensiero politicamente corretto, prima fra tutte la generale scontentezza dei rifugiati, contrariati dal fatto di essere arrivati non in una terra promessa, quanto piuttosto in un mondo ostile e in preda alla saturazione lavorativa – che al massimo può relegarli al ruolo di bassa manovalanza nella malavita organizzata.
Ma visto e considerato che un parlamentare di colore, nel Bel paese almeno, non è certo ordinaria amministrazione, non è difficile figurarsi le indignate reazioni popolari di ambo i lati della politica. Se già la fascia minoritaria xenofoba dell’elettorato destrorso aveva ridotto Iwobi, negli anni precedenti al suo exploit, ad uno sprovveduto “Zio Tom”, motivo peraltro di biasimo per la Lega che aveva così contaminato le sue “bianche” schiere di secessionisti, ora sono quelli del versante opposto a reclamare contro tutt’altro genere di controsenso. Man mano che il nigeriano stacanovista scalava la gerarchia infatti, i primi si ravvedevano della sua lealtà alle tradizioni, i secondi della minaccia che iniziava a rappresentare per la loro equazione di identità tra razzismo e Carroccio.
In un’ottica superficiale, Iwobi costituisce la riprova della natura multiculturale di questa nazione, ma a ben vedere egli non è che il manifesto di quell’efficiente – e possibile – integrazione postulata da Salvini, un inserimento nella società che sia funzionale alla crescita e alla coesistenza pacifica in virtù dell’adeguamento culturale. Ma dove crolla il pregiudizio, si ergono le accuse: il rinomato calciatore Mario Balotelli (anche lui vittima a suo tempo dei cori razzisti negli stadi italiani) ha rimarcato pubblicamente la suddetta antitesi esponendo, nell’invettiva di poche righe che ha rivolto al neosenatore sul suo profilo Instagram, l’incompatibilità del colore della pelle con l’indirizzo politico. Ma una volta messo da parte l’erroneo presupposto che la xenofobia sia connaturata alla nordica compagine di Iwobi, l’unico discrimine sul quale si basa l’accusa dell’atleta del Nizza è proprio quello dell’etnia, qui intesa come limite naturale all’adesione a determinati partiti… una forma di – ironia della sorte – razzismo.
E non tarda ad arrivare il sostegno morale di quell’1% dell’ “Italia migliore”: la portavoce di Potere al Popolo, Viola Carofalo, in un impeto di malriuscita ironia, ha appoggiato la tesi del calciatore-analista esternando anch’essa il suo dissenso e la sua vergogna. Ma è proprio in queste circostanze che si palesa l’unico cortocircuito della vicenda tutta: Toni Iwobi non rappresenta che un’eccezione reale a una regola fasulla. Il paradigma dello straniero emarginato e vessato dalla politica del tradizionalismo spinto non si applica alla personalità del neoeletto senatore, l’etichetta che si è soliti assegnare per ridurre l’immigrato a martire della società non trova riscontri. Improvvisamente, per evitare il collasso, risulta necessario ridefinire gli standard, delineare i limiti fra eticamente giusto e sbagliato, fra ciò che compete al pensiero di un uomo di colore e ciò che per nascita deve essergli estraneo. Ed ecco allora che i paladini del politicamente corretto vanno alla carica, col solo intento di sminuire il pericoloso avversario, una minacciosa anomalia di un ragionamento pretestuoso.
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