«Le ricordo che all’origine il diritto è la forza».
«Tra gli uomini primitivi, forse. Non tra di noi».
Qual è il rapporto tra diritto e morale? I canoni della civile convivenza sono davvero stabili e sicuri, o c’è sempre un residuo di anomia ancestrale nella società attuale? Secondo Hobbes, l’uomo è per sua natura pre-sociale, se non anti-sociale; di conseguenza, il consorzio umano si forma per ragioni di convenienza reciproca e non per socialità spontanea, come afferma Aristotele nella sua Politica. In effetti la visione hobbesiana permea ogni battuta de Le dieu du carnage, pubblicato da Yasmina Reza nel 2007 – la versione italiana, nella traduzione di Laura Frausin Guarino ed Ena Marchi, vede la luce nel 2011 per i tipi di Adelphi. Ed è pure nel 2011 che nei cinema esordisce Carnage di Roman Polanski, la cui sceneggiatura, scritta a quattro mani da Yasmina Reza e dallo stesso Polanski, è valsa ai due autori il Premio César 2012 per il miglior adattamento cinematografico di un’opera preesistente.
La storia, in apparenza semplice, è una finestra aperta su cose che non vogliamo vedere, su aspetti della psicologia umana che preferiamo ignorare con ipocrisia squisitamente borghese. Non a caso, borghesi sono le due coppie di protagonisti della pièce teatrale: Véronique e Michel Houllié, Annette e Alain Reille. Persone normali, perbene. Civili, assolutamente civili. O almeno così sembra. I quattro si incontrano per risolvere una questione all’apparenza banale: il figlio dei Reille, Ferdinand, ha aggredito quello degli Houllié, Bruno, spezzandogli gli incisivi con una bastonata in pieno viso. In fin dei conti, si ripetono i quattro, son cose di ragazzi; come se la violenza fosse un residuo ancestrale confinato all’infanzia, una faccenda che non riguarda il progredito mondo degli adulti. Una bella e consolante illusione, questa, destinata a crollare ben presto sotto i colpi dell’insofferenza reciproca. Un’insofferenza che, in un climax ascendente di tensione, travolge i Reille e gli Houllié, trascinandoli in una spirale di violenza.
L’azione si svolge interamente nel salotto degli Houllié: l’autrice ricorre a un’ambientazione neutra, priva di fattori distraenti, come essa stessa avverte in apertura d’opera: «Un salotto. Nessun realismo. Nessun elemento inutile». Ciò le consente di concentrare il focus attentivo dello spettatore sulle interazioni tra i personaggi, come del resto accade nel claustrofobico film di Polanski, ambientato in un salotto di New York e non – come nell’opera originale – di Parigi. Il film presenta, in questo senso, tutte le modifiche stilistiche del caso: gli Houllié e i Reille diventano i Longstreet e i Cowan, il luogo dell’aggressione è il Brooklyn Bridge Park e non i giardini di Square de L’Aspirant Dunand, e così via. Tuttavia, il fatto che il contesto non sia più europeo ma statunitense è, ai fini dell’azione, irrilevante: le tensioni e le follie dei protagonisti sono trasposte tal quali sulla pellicola. Tutto accade seguendo un ritmo graduale, ma inesorabile: le prime battute, permeate di affettazione e cordialità, lasciano il posto alle frecciatine reciproche, che nel giro di due ore si trasformano in vere e proprie accuse e insulti a doppio binario. Nel corso di tutta l’interazione si assiste a un continuo alternarsi nel gioco delle alleanze tra i protagonisti: prima una coppia contro l’altra, poi donne contro uomini, infine tutti contro tutti. Nessuno si sottrae al giudizio reciproco, emesso e ricevuto, prima in forma tacita e poi esplicitamente: le piccole allusioni diventano osservazioni pungenti e poi offese salaci, prive di qualunque pudore.
Eppure le premesse, va detto, erano buone; Véronique/Penelope – interpretata da una Jodie Foster sublime nella sua isteria – aveva preparato un ottimo clafoutis di mele e pere, oltre a comprare un bel mazzo di tulipani olandesi per accogliere al meglio i suoi ospiti. In prima battuta, inoltre, aveva affermato con convinzione di credere nel «potere pacificante della cultura» (p. 28). Tuttavia, le basta veder rovinato il suo bel catalogo d’arte contemporanea – un Kokoschka del ‘53, per la precisione – per dimenticare ogni riferimento a pietà ed empatia e scagliarsi contro la “colpevole”, Annette/Nancy (una Kate Winslet in ottima forma, a giudicare dalla verve con cui rovina il catalogo).
Ogni protagonista si dimostra legato, infatti, a un oggetto specifico, una sorta di feticcio intorno a cui costruisce il suo attaccamento personale: il Kokoschka di Véronique, i sigari di Michel, la borsa di Annette e soprattutto il cellulare di Alain, che è praticamente il quinto attore in scena e intorno a cui si svilupperà il grottesco epilogo della vicenda. Il topos del feticismo oggettuale non è uno dei cardini della vicenda, e difatti passa sotto traccia, almeno in apparenza. Ma le reazioni dei protagonisti dinanzi alla perdita o alla rovina dei loro oggetti di riferimento, quasi delle àncore esistenziali che li tengono attaccati al mondo, la dice lunga sulla loro presunta assenza di insicurezze e sulla millantata capacità di vivere in modo maturo, civile. Basti pensare all’esaltazione con cui Véronique/Penelope asciuga, liscia e profuma le pagine del suo Kokoschka nel tentativo di salvarlo, ma soprattutto al totale crollo psicologico in cui incorre lo sventurato Alain/Alan dinanzi alla perdita (irreparabile?) del suo prezioso cellulare. Quasi a voler dimostrare la persistenza di una componente primitiva, viscerale, sconveniente ma ineliminabile, in ogni uomo che si pregi di appartenere alla cosiddetta “società civile”. E che prima o poi si ritrova, inaspettatamente, a fare i conti con la sua parte peggiore, col suo lato oscuro; una realtà amara che non è solo il frutto dell’immaturità dell’infanzia, ma che resiste pervicace in età adulta e fino alla morte, come dimostra il comportamento dei protagonisti.
L’escalation di tensione che li possiede totalmente produce effetti devastanti su tutti loro. E infatti, la sensibilità e la gentilezza dimostrate in principio lasciano lentamente il posto a un leggero senso di disagio, che evolve in vera e propria irritazione per poi esplodere in comportamenti nevrotici, aggressivi e incontrollati. Una sorta di incantesimo cui nessuno resta immune, nemmeno la stessa Véronique/Penelope, convinta paladina dei diritti umani, che pur mostrando un attaccamento quasi morboso al concetto di civile convivenza perverrà infine alla conclusione che «comportarsi in modo civile non serve a niente. La buona creanza è un’idiozia che ci rammollisce e ci rende deboli» (p. 53). E difatti, una volta provocata, si scaglierà contro il marito picchiandolo selvaggiamente.
Le due coppie, si è detto, avevano organizzato un incontro per discutere “tra adulti” della lite tra i loro figli; entrambe avevano cercato di mostrarsi nella loro versione migliore, in un’atmosfera inizialmente ovattata, e anzi «compunta, cordiale e tollerante» (p. 9). Ben presto, però, il terreno del confronto scivola dal tema principale a una affollata congerie di temi secondari: crisi matrimoniali, antipatie reciproche, persino temi bioetici – come nella discussione sull’Antril, un farmaco per l’ipertensione dai pericolosi effetti collaterali – e animalisti – si pensi alla sottotrama del criceto abbandonato in strada. Ma il vero perno dell’opera è l’esistenza, reale o presunta, di una morale universale che possa trionfare sulla forza bruta, sul «dio del massacro, il solo che governa in modo assoluto fin dalla notte dei tempi» (p. 72). L’arco narrativo trova conclusione nella morale della storia: l’inciviltà è un residuato animale presente in ogni uomo, e per questo talora avviene che gli adulti si rendano molto più infantili dei ragazzi che cercano, con scarso successo, di educare. Del resto Alain/Alan, cresciuto col mito di Ivanhoe e con un’idea di virilità alla John Wayne – condivisa, peraltro, dal suo antagonista Michel/Michael –, ci aveva avvertiti: «Signora, nostro figlio è un selvaggio» (p. 24). E forse, in fondo, lo siamo tutti.
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