Un paio di settimane dopo le elezioni italiane, a prescindere dalle possibili coalizioni che potrebbero formarsi per dare vita a un governo, dalla consultazione elettorale sono emersi dei dati chiari: il centrosinistra ha perso. È passato dal 25% nelle politiche del 2013 all’appena 18,7% di quest’anno: il Partito Democratico non aveva mai raggiunto un risultato così basso nella sua storia. L’Italia si aggiunge al resto dei paesi europei in cui il socialismo è in piena crisi. Dalla Gran Bretagna alla Francia, dalla Germania alla Spagna: l’elettorato non si riconosce più in questi partiti e continua a preferire altre opzioni politiche.
La mappa dell’Europa
Secondo l’Economist, la sinistra ha perso nell’ultimo decennio circa un terzo dei suoi elettori. I partiti socialisti sono crollati in quasi tutti i paesi del nostro continente. In Olanda si è passati dal 28,4% del 2012 al 5,7%, in Austria i socialdemocratici sono dovuti arretrare davanti all’ascesa del giovane Sebastian Kurz, ora al governo con l’estrema destra del Partito della Libertà.
La sconfitta più pesante è sicuramente avvenuta in Francia, paese che poteva vantare nel 2012 uno dei partiti socialisti più forti del continente con il 51,4% dei voti. Nelle elezioni della scorsa primavera il partito degli uscenti Hollande e Valls, guidato da Benoît Hamon, è sceso a un disastroso 6,3%, travolto dall’ondata di En Marche! di Emmanuel Macron. Stesso destino, anche se più ridimensionato, complice anche l’instabilità della situazione politica spagnola, per il PSOE di Pedro Sanchez. Passato dal 28,7% del 2010 al 22,6% del 2017, con la crisi catalana ancora non ben chiarita e un paese che tenta la ripresa economica. Sul fronte tedesco, l’SPD di Martin Shultz non se la passa molto meglio, nonostante il suo attuale appoggio al governo sia fondamentale per la tenuta della legislatura tedesca. Nel 2013 il partito aveva ottenuto il 25,7%, passando poi al 20,08% alle ultime elezioni: il risultato peggiore nella storia della socialdemocrazia tedesca.
Poche e molto deboli sono le speranze che arrivano dagli ultimi baluardi socialisti rimasti al governo: Alexis Tsipras in Grecia, che di socialdemocratico ha poco, e Antonio Costa in Portogallo, che guida il paese verso la ripresa economica affiancato dai Verdi. I laburisti inglesi, dopo la tragica sconfitta nel referendum per la Brexit, stanno cercando di restringere le fila intorno a Jeremy Corbyn. Il leader sta spostando la linea del partito su posizioni molto più radicali e sembra riacquistare consenso, complice anche il caos in cui versa il Partito Conservatore nella conduzione dei negoziati per l’uscita dall’Unione.
I riformisti sono dunque in affanno in tutto il vecchio continente e anche guardando oltreoceano, il Partito Democratico statunitense, forse per altre circostanze, ha pagato il pegno del tempo passato al governo, dando la poltrona della Casa Bianca all’ultra-conservatore Donald Trump. Perché i socialisti e i socialdemocratici continuano a perdere consensi? Naturalmente, ogni paese ha le sue caratteristiche peculiari e un diverso sistema politico, per cui anche l’evoluzione dei partiti non è uguale, ma ci sono sicuramente dei fattori comuni.
La socialdemocrazia paga, innanzitutto, gli anni di governo in uno dei periodi più difficili della storia del dopoguerra. Con una crisi economica terribile iniziata nel 2008 e l’enorme afflusso di migranti dovuto prima alle Primavere arabe e poi alla guerra in Siria, gli ultimi quindici anni non sono stati facili per il vecchio continente. Sono entrati in gioco nuovi sentimenti, mentre vecchie ideologie sono tornate a galla. La paura, il nazionalismo, la xenofobia, sono elementi che sicuramente non hanno aiutato i partiti socialisti ad accrescere i loro consensi. A beneficiarne sono invece stati l’estrema destra e i populisti che, cogliendo il sentire popolare, hanno tentato di mirare alla pancia delle persone e hanno avuto il loro tornaconto elettorale. I socialdemocratici, nell’immaginario popolare, rappresentano “la casta”, politici ancorati alle poltrone che fanno di tutto per non staccarsene. Se poi le poltrone sono anche quelle di un palazzo a Bruxelles, tornano in campo il sovranismo e il nazionalismo tanto in voga negli ultimi anni.
Inoltre, di fronte ai nuovi scenari macroeconomici e alle nuove sfide, i partiti tradizionali hanno perso parte del loro elettorato storico: la socialdemocrazia europea ha sempre potuto contare nel famoso “zoccolo duro” degli operai delle fabbriche. Attualmente il mercato del lavoro è cambiato notevolmente, la precarietà e l’uso di apparecchi tecnologici ha reso il lavoro manuale meno necessario, mentre l’austerity bruxelliana tende a penalizzare i settori meno dinamici dell’economia europea. I socialdemocratici hanno cercato di cavalcare l’onda della modernità a tutti i costi, rinunciando troppo spesso alle loro idee identitarie. Ed è forse proprio di un ritrovamento e di un rinnovamento identitario che hanno bisogno.
Dopo gli anni Ottanta, la famosa “terza via” inaugurata dal premier britannico Tony Blair aveva fatto presa in quasi tutti i paesi europei grazie ai risultati raggiunti. Il tentativo di porsi al centro tra liberalismo di destra e sinistra più radicale, anche a rischio di perdere una parte dell’elettorato storico, alla lunga però non ha ripagato i socialisti. Si è cercato di rispondere alla globalizzazione andando verso l’area moderata, invece che radicalizzandosi: meno tutele sul lavoro, tagli al welfare e agli investimenti pubblici. Scegliendo di smantellare parte del loro storico programma, i socialisti si sono ostacolati da soli facendo scappare una parte importante di elettori. Voti che sono poi finiti nelle fila dei partiti della destra radicale e populisti che stanno, dal canto loro, raccogliendo i temi da sempre cari al socialismo: accanto all’amore per la patria, al nazionalismo e alla chiusura delle frontiere, propongono più tutele per i lavoratori, la lotta alla liberalizzazione eccessiva del mercato e alla corsa al ribasso salariale, provocata dall’afflusso di nuova manodopera a basso costo.
La formula del partito di sinistra che guarda verso il centro non attira più l’elettorato, anzi ne esclude una larga parte. A funzionare sembra la formula opposta: risulta chiaro guardando la CDU di Angela Merkel, un grande partito di centro che, su alcuni temi, può essere facilmente accostato alla sinistra ma che comunque non perde la sua identità centrista. Se i partiti socialisti vogliono continuare a sopravvivere devono dunque trasformarsi, innovandosi da un lato e recuperando alcune loro caratteristiche storiche dall’altro. Trovarsi una nuova identità nel rinnovato contesto sociale è indispensabile per restaurare il dialogo con la società democratica. Provvedimenti volti a creare consensi nell’area centrista finiscono inevitabilmente per tradire una fetta di elettorato storico. Le battaglie sulla democrazia sociale sono indispensabili per la vita dei partiti socialisti come li abbiamo conosciuti fino ad ora: devono essere portate avanti, anche se avranno natura diversa da quelle nelle fabbriche negli anni Sessanta.
La scelta radicale potrebbe portare i partiti socialdemocratici a svolgere il ruolo di opposizione, ma scegliere sempre la responsabilità di governo non sembra aver pagato fino ad adesso. Il PD negli ultimi anni in Italia ha guidato una coalizione estesa e si ritrova ora con il consenso ridotto ai minimi storici. Il Nazareno, uscito con le ossa rotte dalle elezioni, dovrà scegliere come comportarsi per la formazione del nuovo esecutivo: restarsene a ruolo di opposizione come hanno annunciato alcuni suoi esponenti o prendere parte a un governo di coalizione come i socialdemocratici tedeschi? La SPD ha definitivamente deciso infatti di appoggiare l’esecutivo della CDU di Angela Merkel, nonostante sia uscito perdente dalle elezioni. Lo ha fatto però consultando i suoi elettori: grande prova di democrazia e consapevolezza che sembra essere stata apprezzata dall’elettorato riformista, coinvolto in un dialogo aperto con i vertici del partito.
Il PD è il partito che alle elezioni europee del 2014 aveva trainato il gruppo socialdemocratico europeo prendendo il 40% e ben trentun deputati tra cui il capogruppo di S&D Gianni Pittella. Se si torna alle immagini di settembre 2014, alla festa dell’Unità di Bologna, sembra quasi impossibile credere che in meno di quattro anni si sia arrivati alla situazione attuale. Allora, Matteo Renzi, uscito forte dalle europee, invitò i giovani leader socialisti del continente nel capoluogo emiliano. Nelle foto sono presenti l’ex primo ministro francese Manuel Valls, il segretario del Psoe Pedro Sanchez, l’allora segretario del Pse, il tedesco Achim Post e il capo dei laburisti olandesi Siederik Samson. Tutti in camicia bianca e maniche tirate su per lanciare un messaggio di unità e di rinnovamento generazionale, una sfida agli avversari in tutto il continente. A quanto pare, il messaggio non è arrivato molto chiaro agli elettori, i quali da lì in poi hanno sempre dato sfiducia ai riformisti.
La crisi rispecchia in buona parte la crisi che sta attraversando l’Unione Europea come istituzione. Vacillando i partiti europeisti, rischia di crollare inesorabilmente anche l’Europa intera. Si è innescato un circolo vizioso in cui non si sa bene quale sia la causa e quale la conseguenza. I partiti socialdemocratici speravano, sbagliando, che una volta costruita l’Unione Europea si sarebbe tenuta su da sola e che addirittura avrebbe continuato ad alimentare i loro consensi. In realtà, l’UE ha bisogno di essere rafforzata continuamente per tenere a bada le divisioni che inevitabilmente sono presenti in un’organizzazione di questa portata. Per arginare l’ondata dei populismi e tornare a parlare di integrazione europea, la sinistra ha bisogno di riappropriarsi dei suoi temi storici e ridefinire il suo volto socialdemocratico, riacquistando energia e valori.