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La crisi politica in Etiopia

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Carlo Paganessi

Alla metà di febbraio di quest’anno il premier dell’Etiopia Hailemariam Desalegn si è dimesso a fronte delle crescenti proteste, definendo le proprie dimissioni come parte delle riforme necessarie per portare il paese alla pace e alla democrazia sostenibile. Le proteste iniziarono oltre tre anni fa nell’Oromia, la regione centro meridionale abitata prevalentemente dall’etnia Oromo: nell’ultimo anno si è aggiunta ai disordini anche la regione degli Amhara, situata nel nord al confine con il Tigrè e con il Sudan. Le due regioni ospitano i due gruppi etnici più grandi in Etiopia, che insieme compongono quasi il 60% della popolazione.

Le proteste vennero ignorate da larga parte dei commentatori internazionali fino alle olimpiadi di Londra del 2016, quando il maratoneta etiope Feyisa Lilesa (piazzatosi al secondo posto) tagliò il traguardo con le braccia incrociate sopra la testa, mimando il gesto identificativo dei manifestanti. Nel corso degli ultimi tre anni gli scontri con le forze di polizia hanno provocato oltre un migliaio di morti secondo Human Rights Watch. Oltre alla corruzione e alla mancanza di trasparenza del governo, una delle maggiori cause delle proteste fu la marginalizzazione nella vita politica del paese delle etnie più numerose, come appunto gli Oromo.

La scintilla che diede inizio alle proteste, infatti, fu il progetto annunciato nel 2015 di voler espandere ulteriormente l’area di Addis Abeba verso sud nelle terre abitate dagli Oromo. Dopo le iniziali proteste, alcuni attori che supportavano tale iniziativa del governo (in primo luogo proprio il Fronte democratico degli Oromo, l’OPDO) si ritirarono facendo decadere il progetto di espansione. Gli abitanti dell’Oromia, tuttavia, continuarono a scendere in strada anche dopo l’accantonamento dei piani per l’ingrandimento della capitale, lamentando un’eccessiva concentrazione del potere politico ed economico nelle mani degli Amhara e dei tigrini.

Il Primo ministro dimissionario Hailemariam Desalegn. EPA/DAI KUROKAWA

Da quel momento tutto il paese è attraversato da tensioni e rivolte armate: se ne contano almeno dieci attive, ognuna con motivazioni diverse (anche se spesso legate alla distribuzione della terra, che in Etiopia appartiene allo stato ed è concessa alle varie etnie): scontri tra ribelli e forze armate governative si sono avuti anche nelle regioni degli Amhara e nel Tigrè, nonostante quest’ultima esprima la forza portante della coalizione di governo, eredità della lotta armata che condusse alla fine del regime di Menghistu Hailemariam. Da diversi decenni sono attive delle rivolte armate nella regione abitata dai Somali (l’Ogaden) e nel Gambella.

Il regime comunista di Menghistu Hailemariam cadde per conseguenza della fortissima carestia verificatasi in tutta l’Africa orientale alla metà degli anni ’80 che causò oltre un milione di morti e fortissime proteste in tutto il paese. Nel 1991, sotto crescenti pressioni, fuggì in Zimbabwe dove vive tutt’ora e ha occupato a lungo il ruolo di consigliere in materia di sicurezza nel governo di Robert Mugabe. In seguito, dopo l’interregno di Kidam, venne il turno di Zenawi che rimase in carica come presidente prima e come primo ministro (dopo la riforma) fino al 2012, anno della malattia e della morte. Il vuoto verrà riempito appunto da Desalegn, primo ministro sino a pochi giorni fa.

Dopo le dimissioni di Hailemariam Desalegn la palla è passata al parlamento che ha proclamato lo stato d’emergenza e trasmesso poteri speciali allo Stato Maggiore dell’Esercito per la durata continuativa di sei mesi, al fine di preservare la sicurezza nel paese mentre il seggio di primo ministro è ancora vacante. L’Etiopia si trova pertanto ad un bivio, la cui scelta verrà operata nei prossimi sei mesi: ritornare al periodo del terrore rosso di Menghistu o riavviare il sistema democratico e fornire una completa ed adeguata rappresentanza.

Da un lato, il Fronte democratico rivoluzionario del Popolo Etiope (EPRDF), di espressione tigrina, domina la politica etiope dall’inizio degli anni novanta raccogliendo i dividendi della lotta armata contro il regime di Menghistu, e detenendo la totalità dei seggi nel parlamento etiope. Dall’altro lato, invece, esiste tutta una serie di etnie che nel sistema politico etiope non trova rappresentanza, in primo luogo gli Oromo che sono l’etnia più numerosa, ma anche tutte le altre: gli Amhara, i Somali, I Gurage e i Konso. Tale stato delle cose ha trasformato l’Etiopia in una dittatura de facto, dove risulta impossibile alla maggior parte dei cittadini far valere la propria voce. Con lo stato d’emergenza, poi, vengono vietati i più basilari diritti d’espressione come il diritto di manifestazione e istituisce una censura per i mass media.

Abiy Ahmed Alì, che la maggior parte dei commentatori dà come papabile prossimo premier etiope. AP

Da quasi un mese, inoltre, il parlamento sta cercando di ovviare alla mancanza di un leader che assuma la guida del paese e che ricopra il ruolo di presidente. Il candidato con maggiori possibilità è il quarantunenne musulmano di etnia Oromo Abiy Ahmed Alì, noto per essere stato uno dei riformatori del servizio d’intelligence etiope, con un passato nell’esercito e una formazione da ingegnere informatico: da settembre è a capo dell’OPDO e ha ricoperto numerosi ruoli di responsabilità nelle istituzioni statali. I sondaggi lo indicano come una delle personalità politiche più benvolute dagli etiopi. La sua candidatura è cruciale al fine di impedire che l’esercito prolunghi oltre il termine dei sei mesi il suo ruolo di potere al fine di ristabilire l’ordine, circostanza che farebbe nuovamente sprofondare l’Etiopia in un periodo simile a quello del Derg, il regime di Menghistu.

Dall’estero, diversi spettatori interessati seguono la faccenda: durante la scorsa settimana sia il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov che il segretario di Stato statunitense Rex Tillerson sono andati a visitare il paese per assicurarsi dello stato delle cose. Terzo spettatore interessato è la Cina, primo partner commerciale dell’Etiopia: Pechino detiene molti interessi sia a livello infrastrutturale che nell’estrazione di materie prime nel Corno d’Africa e al momento l’Etiopia (nonostante l’instabilità) è il paese più stabile della regione, con la Somalia costantemente sotto pressione da parte di Al shabaab e con un problema di mantenimento della sovranità interna, e un’Eritrea limitata politicamente ed economicamente da una dittatura che la rende una versione africana della Corea del Nord.

Lavrov e Tillerson si stringono la mano: non sono riusciti ad incontrarsi mentre si trovavano entrambi in Etiopia. Reuters

Lavrov è giunto in Etiopia al termine di un lungo tour africano volto a ripristinare le relazioni con diversi paesi del continente attraverso il sostegno politico (da esercitarsi anche con un veto in Consiglio di Sicurezza dell’ONU) e militare (attraverso la cessione di armi), ma comunque non sembra in grado di penetrare a fondo né nei mercati (dove la presenza dei competitor cinesi rimane molto più forte) né nei cuori e nelle menti degli africani. Anche Tillerson, nello stesso periodo, ha intrapreso un tour dell’Africa, ma ha mancato il contatto con il collega russo. Al centro delle raccomandazioni americane per l’Etiopia c’è una maggior libertà degli individui, auspicando in tal senso un ritorno ad una democrazia maggiormente rappresentativa.

L’Etiopia è un ultimo baluardo di stabilità nella regione del Corno d’Africa, che al contrario sarebbe un’autentica polveriera: un’eventuale situazione di instabilità nel paese rischierebbe di far precipitare metà del continente nel caos più completo, con la compromissione delle economie della zona, senza contare la componente più prettamente geopolitica: negli immediati pressi dell’area vi è lo stretto di Bab al Mandab, diretto accesso al canale di Suez e al Mediterraneo. La situazione per i commerci transitanti in zona diventerebbe decisamente difficile da sostenere: per tale motivo diverse potenze si stanno interessando alla questione etiope nella speranza che questa ritrovi la perduta stabilità, sia per “mano militare” che attraverso la democrazia.

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Carlo Paganessi

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