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Keith Haring: mille volti di un artista visionario

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Maria Letizia Camparsi

Una maglia bianca con un bambino a gattoni. Sotto, i jeans macchiati di vernice e le Nike Air Force. Sopra, il viso pallido con due macchie livide, i segni della malattia. Gli occhi piccoli, neri, dietro a spesse lenti rotonde. I capelli ricci e radi, lo sguardo fisso, quasi impaurito, e la bocca semiaperta. In onore del sessantesimo anniversario della nascita di Keith Haring, ecco un viaggio all’interno della sua mente poliedrica per scoprire qualcosa in più su di lui.

Keith Haring. Fonte: Wikipedia.

L’inizio

Nato in Pennsylvania nel 1958, Keith impara a disegnare dal padre, un ingegnere con la passione per i fumetti. Da bambino è affascinato dai personaggi dei cartoni animati, in particolare quelli di Walt Disney e del Dr. Seuss. Durante l’adolescenza diventa un Jesus freak, e dopo solo un semestre decide di abbandonare l’università. Poco dopo si accosta agli hippy, gira gli States in autostop per osservare dal vivo i lavori degli artisti americani e a soli diciannove anni tiene una mostra a Pittsburgh, la sua città natale. Da qui la svolta: capisce di essere omosessuale, abbandona la fidanzata e si trasferisce a New York, dove stringe amicizia con Andy Warhol e il suo lavoro comincia a essere conosciuto.

I disegni in metropolitana

Il suo campo di prova è la metropolitana: lì, su «perfette superfici nere e opache», libere per la mancanza di cartelloni pubblicitari, comincia a disegnare con dei gessetti. In breve i passanti cominciano a riconoscere le sue opere e a guardarlo mentre disegna, trasformando il suo gesto in una performance. Ne arriva a realizzare anche quaranta in un giorno solo, ma incorre in varie multe e arresti. «Era un confronto continuo con quelli che erano interessati a guardare, e anche uno scontro, con quelli che ti dicevano che era proibito disegnare lì. Ho discusso di sculture maya con un signore che sosteneva che i miei disegni ne avevano tratto ispirazione; ho parlato con barboni, ubriachi e bambini delle scuole elementari: facevano domande, commenti, e io rispondevo». Più di tremila foto immortalano i suoi lavori nella metro, molte delle quali scattate dal suo amico Kwong Chi. La cosa curiosa è che una volta raggiunta la fama, quando Keith ritorna sulle banchine sottoterra per riprovare l’ebbrezza dei disegni illegali, la gente si ferma a guardare e dice «sembra Keith Haring» o «chi credi di essere, Keith Haring?».

Il vocabolario delle immagini e l’arte primitiva

L’artista cerca di incarnare l’idea stessa di primitivismo, tanto nel suo modo di disegnare quanto nel suo rapporto con il mondo. Questo è anche il principio sulla base del quale costruisce il suo personale ominario-bestiario: figure elementari simili a pittogrammi, dal contorno nero e spesso, inconfondibili. «Si tratta di una sorta di lettura delle immagini del mondo, che poi io condenso e inserisco in una mia personale concezione. I miei disegni comunicano un’idea specifica o generale, ma spesso il contenuto dell’opera è ambiguo e può essere interpretato in diversi modi». Keith considera le sue figure come dei simboli in un vocabolario animato: sono ad esempio un bambino a carponi (una delle immagini più ricorrenti nei suoi lavori) o uno strano quadrupede che viene identificato come un cane. Principalmente esseri umani e animali, che si accostano esprimendo alle volte il potere dei primi e alle volte l’istinto dei secondi. Ma si creano anche personaggi meta-umani, che fondono gli uni agli altri, oppure abbinano i corpi a teste o arti costituite da oggetti inanimati, quali televisori o computer.

Untitled, acrylic on panel, 1982.

La spontaneità della pittura

«Lascio che le immagini si formino da sole, poi cerco di ordinarle. Divento come un tramite: è una specie di magia, uno spirito che mi possiede e dà loro forma». La spontaneità è l’essenza di tutta l’opera di Haring, il segreto che permette di trasformare un gesto in qualcosa di tangibile. «È quasi sempre una sorta di esplosione di energia. Penso che l’arte sia una registrazione di uno stato dell’essere, di un istante della vita: un punto in cui le tue energie e le tue forze e tutto l’ambiente circostante si fondono in quello che stai facendo». Gli sgocciolamenti presenti sulle sue opere, ad esempio, dimostrano che il suo lavoro si stava sviluppando da sé stesso, che non ha cercato di imporsi su di lui: «È importante lasciare alle circostanze una specie di potere. Se dipingendo su un muro il colore cola per la forza di gravità, non c’è ragione di fermarlo». Tornare indietro, correggere, sarebbe come manipolare quell’istante, cancellare la sua immediatezza e freschezza.

I temi ricorrenti

La violenza, il sesso, il denaro. L’adolescenza di Keith negli anni Settanta è profondamente segnata da ciò che egli vede in televisione: la guerra in Vietnam, le contestazioni giovanili, gli scontri razziali, l’omicidio di Kennedy, la morte di Jimi Hendrix. E così Keith rimane fortemente legato agli ideali politici per cui quella gente ha lottato ed è morta; infatti, nonostante abbia sempre voluto smarcare la sua arte da un vero e proprio impegno politico e sociale, si schiera a favore di cause come l’abolizione dell’apartheid e si impegna in numerosi progetti umanitari. L’atteggiamento di coloro che chiudono gli occhi di fronte ad argomenti come la sessualità e la violenza, poi, spinge Haring a disegnare in modo esplicito, trattando con naturalezza anche figure erotiche.

La droga

Nel cuore dell’artista c’è anche il tema della droga. Per lui c’è una grande differenza tra sostanze stimolanti, come la marijuana o l’LSD che «aprono la mente», e il crack. E allora ecco il celebre murale Crack is Wack (ossia “Il crack è una porcheria”), realizzato nel 1986 nel ghetto di Harlem a New York, per condannare una sostanza che rende dipendenti, aggressivi, ossessionati dall’idea di procurarsi la dose. Una sostanza che «è un business». Anche se, dall’altra parte, non nega di aver fatto uso di droghe nella giovinezza, come uno strumento di ribellione e un canale di fuga dai problemi dell’adolescenza.

Untitled.

L’AIDS

Haring è dichiaratamente gay. E nessuno gli ha mai impedito di seguire il suo orientamento sessuale, nemmeno i genitori. Tuttavia, la diffusione dell’AIDS negli anni Ottanta fa sì che l’omosessualità diventi per la massa un sinonimo di morte. Per questo lui ritiene importante far conoscere davvero la malattia, soprattutto ai ragazzi, e fare prevenzione, per scongiurare l’isteria generale. Il morbo che ha ucciso molti dei suoi amici finisce per ispirare il suo lavoro, e infatti molte delle sue opere ne contengono messaggi. Diventa un promotore del sesso sicuro e inventa persino un personaggio per la sua campagna, Debbie Dick, per trasmettere il messaggio con leggerezza e umorismo. A ventinove anni viene trovato positivo al test dell’HIV, e affetto da una forma di cancro che spesso lo accompagna: «La cosa più terribile è sapere che sarà un lungo, progressivo logoramento. Ma in un certo senso sapere è un privilegio. Aggiunge intensità a quello che faccio». È una carica per lui, che giunto alla fine del suo lavoro vuole coronarlo.

I bambini

L’infanzia per lui è l’unica età pura della vita, una fase aurea in cui i bambini devono ancora essere plagiati dalla società e macchiati di colpe. Lavora con le scuole dei quartieri poveri in tutto il paese, e per il centesimo anniversario della Statua della Libertà, nel 1986, ne dipinge una alta come un palazzo di dieci piani assieme a mille bambini. La loro sincerità è un sogno paragonato al cinismo che lo circonda, e nel suo diario Haring scrive: «Non ho mai realizzato disegni con temi erotici nella metropolitana, per via dei bambini: loro per me rappresentano il futuro, l’immagine della perfezione».

Graffitismo e street art

Nell’estate del 1980, il Colab di New York organizza l’esposizione di Street art Time Square Show, ed è in quell’occasione che il mondo dell’arte comincia a interessarsi al graffitismo e agli artisti outsider. Anche Keith segue con entusiasmo questo fenomeno, e allestisce una mostra dedicata a questa corrente artistica. Nel corso della sua vita lui realizza diverse opere di street art, con il preciso scopo di trasmettere un messaggio all’osservatore. Nel 1981 realizza il suo primo dipinto murale nel cortile di una scuola del Lower East Side, un quartiere di Manhattan. Poi i già citati Crack is Wack e la gigantesca Statua della Libertà, sempre a New York. Si ricordano anche il murale per l’ospedale dei bambini di Parigi del 1987 e quello sulla parte occidentale del muro di Berlino, dipinto tre anni prima che lo abbattessero e raffigurante bambini che si tengono per mano. Dipinge muri di grandi dimensioni anche a Barcellona, Chicago, Monaco e Pisa, dove realizza la sua ultima opera pubblica, Tuttomondo, un inno alla pace universale su un lato della chiesa di Sant’Antonio Abate.

Dettaglio del murale Tuttomondo, 1989, Pisa. Fonte: Pixabay.

L’amicizia con Andy Warhol

«Prima di conoscerlo per me era un simbolo, un mito. Totalmente inavvicinabile». È il fotografo Christopher Makos, infatti, a presentare Keith Haring a Andy Warhol. Questi poi va a una sua mostra, e i due finiscono per scambiarsi dei lavori. Tramite il re della pop art, l’artista entra quindi in contatto con personaggi del calibro di Michael Jackson, Yoko Ono e Madonna. E impara molto da lui, ascolta e osserva in silenzio come l’artista gestisce certe situazioni, come si comporta quando qualcuno gli si avvicina durante un evento artistico o come reagisce quando qualcuno scrive su di lui. Quello che accomuna maggiormente i due artisti, però, è l’obiettivo di ampliare la definizione di arte, di rompere gli schemi. All’inizio Warhol non è stato riconosciuto degnamente né dall’establishment artistico né dal mercato, e la stessa cosa era capitata a Haring. «Ora, con la sua scomparsa, le cose sono un po’ cambiate, ma per tanto tempo fu punito perché non seguiva le regole. Io ho un rapporto molto simile al suo con l’arte “ufficiale”».

L’arte fuori dalle regole

Mentre Keith Haring è in vita, i grandi critici non sminuiscono le sue opere, semplicemente le ignorano. Molti di loro, assieme a mercanti, direttori di gallerie e musei, si sentono sfidati. «Si offendono perché non ho avuto bisogno di loro, perché non ho fatto guadagnare loro dei soldi. Ho avuto successo rivolgendomi direttamente alle persone, a partire dai disegni della metropolitana». I capi dell’arte tradizionale, invece, vivono nella convinzione di essere gli unici a poter spiegare un pittore e lanciarlo nel mondo.  Sono in contrasto con la sua idea di artista che parla al popolo e appartiene alla sua cultura. Infatti le sue opere vengono esibite al di fuori del circuito delle gallerie e dei musei tradizionali, come nelle mostre improvvisate al Club 57 di New York e in altri locali underground. «Nel mondo borghese l’arte è diventata elitaria, appannaggio di chi può comprarla, così la gente comune non la capisce e dunque non la ama. L’arte è per tutti, e questo è il fine a cui voglio lavorare».

La fine e i sogni non realizzati

Nella sua ultima intervista, Keith svela ciò che avrebbe voluto fare e non ha fatto: dei disegni sulla sabbia e un parco giochi per bambini. Infine, vedendosi ormai vicino alla morte, dà vita alla Keith Haring Foundation, a cui affida la sua eredità artistica e lascia dei fondi in denaro prima di spegnersi a New York, il 16 febbraio 1990.

Keith Haring, insomma, ha lasciato la sua impronta nel mondo, ha influenzato l’arte contemporanea e il nostro modo di intenderla. È riuscito a comunicare con la gente comune in ogni dove, in particolare attraverso i suoi disegni sui muri. Le sue immagini, poi, si sono diffuse anche grazie al Pop Shop di New York, fondato da lui nel 1986 e rimasto aperto fino al 2005. Ora i suoi personaggi si possono trovare replicati su qualsiasi oggetto e in qualsiasi luogo, arrivando quindi a essere delle forme metabolizzate e conosciute da tutti.

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Maria Letizia Camparsi

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