I film trash rappresentano una continua fonte di risate ma anche di analisi: eccone cinque realizzati in Italia e assolutamente impossibili da non vedere
Parlare di cinema soltanto sotto un profilo di serietà alla lunga può stancare o apparire come un’eccessiva esercitazione tecnica. La verità – e alla fine lo sappiamo anche noi – è che analizzare un film o, più in generale, un prodotto che finisce nelle sale eleva a critico qualsiasi appassionato di questa meravigliosa arte. Molto spesso, però, bisogna tener conto che esiste un’altra tipologia di cinematografia che consente una riflessione, anche se di genere differente: quella dei cosiddetti film trash. Involontari o meno, programmati per fallire o speranzosi di un risultato positivo, esistono film che non sono diventati dei cult a causa della loro bellezza – inconscia, pretesa o voluta – ma per via della capacità di proporre contenuti tremendamente insufficienti, volontariamente o con l’ambizione di voler essere presi sul serio senza possedere le carte in regola per chiedere un tale trattamento.
In particolare, tra gli anni ’70 e ’90 il cinema italiano ha sfornato delle vere e proprie perle trash, film chiaramente non belli o lontanissimi da una concezione moderna di lavoro che però, con il passare del tempo, si sono ritagliati uno spazio nell’immortalità. Abbiamo dunque deciso di prendere in considerazione cinque pellicole (tutte, in verità, piuttosto note tra gli amanti del genere e gli utenti di internet) per proporre una mini classifica – senza “posizioni”, dunque senza competizione – di film trash italiani che ci hanno fatto sognare in questi anni. E non escludiamo, ovviamente, che questo esperimento possa non risultare l’ultimo di genere. Promettiamo, inoltre, di non fare troppi spoiler (o almeno ci proviamo).
Aria compressa – Soft Air
Iniziamo con questo film del 1998 di Claudio Masin, attore e regista argentino naturalizzato italiano, che peraltro in carriera ha lavorato con un altro grandissimo e riconosciutissimo professionista dei film presunti trash o di Serie B, come Claudio Fragasso. La trama in realtà non sarebbe nemmeno banale: un gruppo di amici toscani decide di andare a giocare una partita di softair contro un’altra squadra. Solo che gli avversari si rivelano essere veri assassini, i quali vanno – per qualche motivo sconosciuto – a esternare la loro sete di sangue e morte contro i poveri malcapitati.
Il film si distingue da molti altri perché, innanzitutto, rappresenta il tipico esempio di pellicola di serie minore che però cerca di prendersi troppo sul serio, fallendo miseramente. La recitazione degli attori (e il ridoppiaggio degli stessi) è incredibilmente scadente, così come alcune scelte di sceneggiatura davvero opinabili. Come se non bastasse, il ritmo del film è veramente basso e, soprattutto nella fase iniziale, ci sono veramente tante scene inutili e poco coerenti con il fulcro della pellicola. Non è un caso, quindi, che Aria compressa – Soft Air sia stato il primo e (fortunatamente?) unico esperimento alla regia di Masin. Almeno finora.
Grazie Padre Pio
Qui si entra in un terreno che sfiora quasi il misticismo e la leggenda. Tornato alla ribalta nazionale dopo anni sottotono, Gigione è diventato finalmente una figura mainstream: quasi tutti lo conoscono, gli è stato persino dedicato un docu-film uscito nelle sale recentemente, il quale ha avuto un più che discreto successo. Anni fa, durante il periodo di transizione successivo alla genesi delle sue più grandi canzoni, Gigione divenne l’attore protagonista – insieme a suo figlio Jo Donatello – di Grazie Padre Pio, mediometraggio che risulta essere più che altro un pretesto per far ascoltare qualche loro canzone.
La trama della pellicola vede Gigione, di ritorno da un concerto, “costretto” a dover salvare il figlio invischiato in brutti giri di criminalità e corse clandestine (fatte rigorosamente con utilitarie). Per farlo, si affida fondamentalmente a un pellegrinaggio verso Pietrelcina, al fine di chiedere aiuto e grazia nientepopodimeno che a Padre Pio in persona. Inutile dire che la bruttezza del film è impagabile, così come la qualità chiamata in causa per realizzarlo. Lo trovate comodamente su YouTube: il consiglio, ovviamente, è quello di vederlo.
L’Uomo puma
Si comincia a giocare sul serio con L’Uomo puma, lungometraggio del 1980 diretto da Alberto De Martino con un cast internazionale che vedeva spiccare soprattutto, nella parte del villain, il mitico Donald Pleasence, attore britannico riconoscibilissimo per aver partecipato (per altro con ruoli molto importanti) a saghe cinematografiche di un certo rilievo, come quelle di Halloween e di 007. In quel periodo il cinema italiano stava cercando, in ogni maniera, di avvicinare le produzioni americane cercando di proporre dei prodotti molto simili in termini di fantascienza e avventura ma, ovviamente, con mezzi tecnici infinitamente inferiori rispetto a quelli delle pellicole statunitensi. Basti pensare, per fare un esempio banalissimo, che due anni prima era uscito un film nettamente meglio costruito come Superman di Richard Donner. L’Uomo puma rappresentò uno di questi tentativi che, però, fu bocciato quasi all’unanimità dalla critica italiana e internazionale dell’epoca.
La storia vede il paleontologo Tony Farmes (interpretato da Walter George Alton) scoprire di essere il discendente diretto del Dio Bianco e, dunque, la persona investita a ricoprire il ruolo di Uomo puma, semi-divinità azteca che dovrebbe contrastare il male, impersonato in quel caso dal personaggio di Pleaseance, il perfido Kobras. Il film è un trionfo di scene brutte ed effetti speciali e visivi davvero scarsi, lo stesso protagonista è di un’inconsistenza incredibile, anche perché in effetti – come in molti hanno fatto notare durante gli anni – è in realtà l’aiutante Vadinho – una sorta di colosso che fa da spalla/mentore a Farmes – a sbrogliare le matasse principali del film. Straordinariamente divertente – seppur in maniera involontaria – è invece il main theme del “supereroe”, una musichetta dal tono infantile che stona magnificamente con il presunto taglio di serietà che il film vorrebbe costruirsi.
Ancora oggi questo film – dal quale in America sono state ricavate persino delle action figures – è ricordato come uno dei più brutti film di quegli anni, nonché un cattivissimo esperimento di eroe fumettoso portato al cinema e di produzione “all’americana” del Bel Paese.
Le notti del terrore
Come dicevamo prima, la tendenza degli anni ’80 in Italia a livello cinematografico è stata soprattutto quella di ricalcare (se non copiare spudoratamente) la bellezza e le idee di certe produzioni dallo stampo internazionale. Anche il film del 1981 Le notti del terrore (conosciuto pure con i titoli di Zombie Horror e Burial Ground) rientra palesemente in questo filotto e riguarda – come si può intuire dai titoli internazionali – la figura degli zombie.
Senza volerlo (perché queste cose accadono sempre un po’ per caso) un professore di archeologia risveglia una comunità di zombie etrusca, che poi decide univocamente di attaccare e uccidere gli ospiti della villa del professore stesso. Questo film è una perla trash inattaccabile, sia per la trama che per lo sviluppo della stessa. I personaggi sono tratteggiati come incredibilmente stupidi, casinisti, dediti quasi unicamente al sesso e addirittura inquietanti (il rapporto madre-figlio di due personaggi del film è praticamente al limite dell’incesto). Al netto di un paio di uccisioni carine e di un trucco tutto sommato realistico per i mezzi del tempo, La notte dei terrori è inquietante soprattutto nella performance degli attori e nella sceneggiatura, che regala frasi sconclusionate e azioni completamente casuali, nonché (ovviamente) buchi di trama enormi.
Una curiosità finale: all’epoca molti attori italiani utilizzavano degli pseudonimi anglofoni per rendere più vendibili loro stessi (e i prodotti a cui prendevano parte) al mercato estero. Nel film si possono leggere nomi di molti attori stranieri che in realtà sono italiani: Peter Bark, ad esempio, si chiama invero Pietro Barzocchini, mentre Karin Well altro non è che l’alias di Wilma Truccolo.
La croce dalle sette pietre
Quando parliamo di questo film siamo probabilmente di fronte al più grande prodotto trash mai plasmato da mente umana. Ancora oggi La croce dalle sette pietre è ricordato come un capolavoro assoluto del genere, che resterà immortale anche negli anni successivi, nonché un film di una bruttezza inaudita. Una pellicola che non solo si prende sul serio ma che cerca anche di comunicare, attraverso la sua storia, presunti messaggi riguardo corruzione, criminalità, complotti politici, religione e altre tematiche piuttosto importanti. Tutte trattate, ovviamente, con una superficialità disarmante e con una mancanza di qualità evidente.
La croce dalle sette pietre è uscito nel 1987 e porta la regia di Marco Antonio Andolfi. L’uomo, ormai divenuto una vera e propria leggenda vivente dopo questa scintillante performance, decise di risparmiare sul budget della pellicola non solo occupandosi lui stesso della sceneggiatura e del montaggio, ma interpretando anche il ruolo del protagonista, sotto lo pseudonimo di Eddy Endolf. Il film, a conti fatti, è stato un vero e proprio one man show di Andolfi, che voleva realizzare a tutti i costi una pellicola che – almeno secondo il suo punto di vista – denunciasse la criminalità e rimandasse alla lotta tra Dio e Satana. Andolfi stesso, oltre a fare quanto già citato in termini tecnici, doppiò sette personaggi e si prestò anche al ruolo di stuntman in alcune scene più “acrobatiche” e coreografate.
La trama è meravigliosamente di Serie Z: un uomo viene privato di una croce gemmata, rubatagli da due scippatori. Il problema è che questa stessa croce tiene a bada istinti animali nell’uomo, che senza di essa durante la notte si trasforma in un feroce licantropo (e non a caso il film è conosciuto anche con il titolo de L’uomo lupo contro la camorra). Marco – il nome del protagonista – decide dunque di sfidare la camorra stessa per riprendersi la preziosa croce e tornare a una parvenza di vita normale.
Se la trama del film è incredibilmente promettente, lo stesso vale per l’aspetto visivo: gli effetti speciali sono semplicemente agghiaccianti (e in particolare le scene di trasformazione dell’uomo in bestia o di uccisione da parte della stessa fanno ridere in maniera sguaiata), la performance degli attori è un qualcosa che avrebbe fatto perdere la pazienza anche a René Ferretti. Il montaggio poi è la vera punta di diamante della produzione, soprattutto in alcune scene decisive della pellicola. La verità, però, è che un film del genere non può essere descritto a parole: potete e dovete vederlo, ad ogni costo possibile. Questo film trash fu distrutto in patria, come prevedibile, ma ebbe inspiegabilmente (o forse no) grande successo in altri Paesi esteri, come ad esempio il Giappone o l’Argentina.
https://www.youtube.com/watch?v=B611ROsP7Vc
Per finire, una precisazione curiosa e forse incredibile al tempo stesso, sicuramente qualcosa che può far pensare: questo film, seppur portato al cinema solo nella bellezza di due sale e unicamente in Sicilia, è stato prodotto dal Ministero dei Beni Culturali. Ciò significa che Andolfi si è servito – in maniera indiretta – anche dei soldi dei contribuenti connazionali per realizzare questa pellicola. Che, come detto, entra di diritto nella leggenda dei film trash. Una leggenda destinata (speriamo) a non spegnersi.