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L’accademico precario

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Paolo Simonetti

Gli articoli precedenti:

  1. Siamo persone, prima che accademici

Cosa sta vivendo oggi una persona che ha intrapreso una carriera universitaria

Ad oggi il sistema universitario italiano vive un momento particolarmente critico. Tralasciamo gli studenti e i dottorandi, che richiederebbero una trattazione a sé stante, portata avanti in modo più che approfondito da anni di associazionismo studentesco. Concentriamo la nostra attenzione sulla fase successiva: abbiamo una laurea, forse due, un’idea più o meno ferma di proseguire con il dottorato, con l’obiettivo poi di intraprendere una carriera accademica. Nel seguito, viene delineato il quadro normativo attualmente alla base del sistema di assunzioni all’Università. Si conclude poi con un estratto della mostra Women of Mathematics throughout Europe: a gallery of portraits: nella sua ordinarietà e umanità, la storia riportata è un esempio comune di quanto sia incerto il mondo in cui vive chi fa ricerca al giorno d’oggi.

Personale precario e di ruolo nell’Università

Il sistema universitario è stato totalmente ristrutturato con la legge 240/10, nota come Riforma Gelmini. Allo stato attuale, dopo il dottorato, esistono le seguenti figure all’interno del mondo della ricerca e della docenza universitaria.

  • Assegnista di ricerca, ruolo che può essere svolto per un massimo di sei anni. Il loro contratto viene in genere rinnovato di anno in anno e le tutele sociali garantite sono pressoché assenti.
  • Ricercatore a tempo determinato di tipo a (RTDa) (contratto dalla durata di tre anni,
    rinnovabile per altri due). A prescindere dal suo valore sul piano scientifico – pubblicazioni, possesso di Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN), capacità di attrarre fondi – ha tempo fino alla scadenza del contratto per ottenere un altro ruolo di questo elenco, altrimenti “va a casa”.
  • Ricercatore a tempo determinato di tipo b (RTDb) (tre anni, non rinnovabile). Se, durante il triennio di servizio, ottiene l’ASN, alla scadenza entra in ruolo come professore associato (previa valutazione positiva dal Dipartimento di afferenza). Il contratto da RTDb è quindi un tenure track verso un posto di ruolo. Possono diventare RTDb gli assegnisti di ricerca e gli RTDa, entrambi dopo tre anni di contratto, e – grazie alla Legge di Bilancio del 2017 – chi ha un diploma di specializzazione medica o l’ASN.
  • Ricercatore a tempo indeterminato (RTI). Categoria pre-esistente alla riforma Gelmini e a esaurimento, in quanto non prevista dalla riforma stessa. Insieme a questi, un’altra categoria che sta progressivamente diminuendo in numero è costituita dai ricercatori a tempo determinato “della riforma Moratti” (RTDm).
  • Docente di seconda fascia, anche detto professore associato.
  • Docente di prima fascia, anche detto professore ordinario.

La Riforma Gelmini prevede infine che un singolo ricercatore non possa accumulare più di dodici anni tra contratti da assegnista, RTDa, RTDb. Superata questa soglia senza riuscire a ottenere un ingresso in ruolo, si è letteralmente “sbattuti fuori” dal sistema. Essendo stata introdotta solo otto anni fa, ovviamente ancora non si possono misurare gli effetti di questa misura.

Nei paragrafi successivi saranno riportati alcuni dati sul numero di ricercatori e docenti, dopo che si sarà introdotto il meccanismo fondamentale dietro l’assunzione degli stessi: il sistema dei punti organico.

Punti organico

Il “punto organico” è l’unità di misura utilizzata dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) per definire la dimensione annuale delle assunzioni effettuabili da parte delle Università. Ogni dipendente, sulla base della tipologia (personale docente e personale tecnico – amministrativo) e del livello di inquadramento corrisponde a un equivalente in punti organico.

  • Un Professore Ordinario corrisponde a 1 punto organico.
  • Un Professore Associato corrisponde a 0,70 punti organico.
  • Un RTDb corrisponde a 0,50 punti organico.
  • Un RTDa corrisponde a 0,40 punti organico.
  • Un assegnista corrisponde a 0 punti organico.

I punti organico possono essere a loro volta di varie provenienze.

  • Punti organico da cessazioni: sono il numero che si determina combinando le cessazioni (pensionamenti, trasferimenti, dimissioni o decessi) con le pesature sopra indicate. Per esempio, un docente ordinario che va in pensione “libera” un punto organico. Analogamente, il passaggio per un ricercatore da RTDa a RTDb “costa” al Dipartimento di afferenza 0.5-0.4=0.1 punti organico.
  • Punti organico base: quota base certa per ogni Ateneo, assegnata dal MIUR, indipendentemente dalle performance dello stesso. Si determina come una certa percentuale dei punti organico derivanti dalle cessazioni dell’anno precedente.
  • Punti organico premiali: sono il risultato di un calcolo che “misura” la virtuosità di un Ateneo, così come prevede la legge, e sono assegnati annualmente dal MIUR. Tengono conto, ad esempio, dei fondi arrivati dal Ministero, della contribuzione studentesca, delle spese dell’Ateneo.

Per dare un’idea delle cifre in gioco, l’Università degli Studi di Padova nel 2016 ha ricevuto 53.27 punti organico, la Sapienza 83.51, Pisa 36.49.

Ogni Ateneo ha un suo regolamento, approvato dal proprio Senato Accademico, per la distribuzione dei punti organico fra i dipartimenti, che scelgono in sostanziale autonomia come spenderli. Questo introduce la tematica del clientelismo all’interno dell’Università, che non è oggetto di questo articolo: un’analisi molto dettagliata del fenomeno, insieme a quella dell’immobilità inter-Ateneo che il sistema dei punti organico introduce, è stata condotta da Filippomaria Pontani, professore associato dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.

La precarizzazione del personale accademico

L’evoluzione del personale universitario dal 2008 al 2016 è ricavabile dai dati disponibili sul sito del Consorzio Interuniversitario per il Calcolo dell’Italia Nord-Orientale (CINECA).

Evoluzione del personale universitario negli ultimi anni. I dati sono relativi al 31 dicembre di ogni anno.
Evoluzione del personale “precario” e di quello “di ruolo” negli anni.

Dalle figure qui sopra, si vede che negli ultimi anni c’è stata una regolare diminuzione del personale “di ruolo” (cioè RTI e docenti di prima e seconda fascia), a fronte di un aumento di quello “precario” (RTDa, RTDb, RTDm). Anche gli RTDb – quelli che, come visto prima, godono di un tenure track che tende a regolarizzarli – non sono tanti; si è registrato un loro netto aumento solo nel 2016, per via del piano di assunzione straordinaria di RTDb promosso con il D.M. 78/2016, anch’esso oggetto di documentate critiche per la sua insufficienza.

Inoltre, nei dati sopra riportati è evidente l’assenza di una categoria: quella degli assegnisti di ricerca. Il loro numero è molto più difficile da quantificare, sia per l’assenza di una funzione di ricerca storica di tali figure nel database del CINECA accessibile via web, sia per
una maggiore volatilità di tali figure. Tra un assegno e un altro, i periodi “scoperti” possono durare anche alcuni mesi, nei quali spesso si continua a lavorare, ma per il sistema tali persone “non esistono”. Agli assegnisti si aggiungono poi i cosiddetti “invisibili della ricerca” (titolari di soli contratti di docenza, collaboratori a progetto…). Se consideriamo anche questi ultimi, il numero dei ricercatori precari nelle università italiane arriva a ben 40000 unità (fonte: ARTeD), un numero agghiacciante, se si considera che il personale docente di ruolo ammonta attualmente a poco più di 50000 unità.

Di fatti, gli Atenei non hanno un particolare vantaggio nell’assumere RTDa – né tantomeno RTDb – rispetto agli assegnisti:

  • L’attivazione di un assegno di ricerca non richiede all’ateneo di “spendere” punti organico.
  • Un assegno di ricerca costa economicamente, per un anno, circa la metà di quanto costa un RTDa – e, come visto prima, un RTDa è una “spesa sicura” per più anni consecutivi.
  • Il contratto come assegnista di ricerca non prevede alcun obbligo di didattica. Tuttavia un insegnamento dato in supplenza tramite contratto (spesso ad un assegnista) costa talmente poco da renderlo un’alternativa economica per mandare avanti un corso di laurea.

Tutto ciò, unito a un contesto di generale definanziamento da parte dello Stato nell’Università rispetto alla media degli altri Paesi Europei, definisce un ambiente in cui è difficile muoversi – sia per gli uomini che per le donne, per tornare alla questione di genere introdotta nello scorso articolo. Nel prossimo paragrafo si racconterà allora la storia di una ricercatrice italiana, una delle protagoniste della mostra “Donne e Matematica”: la vicenda in sé non è straordinaria, anzi è stata scelta nel presente articolo proprio perché è comune a tante oggi.

Mostra “Donne e Matematica” – Introduzione

Il 20 luglio 2016 presso la Technische Universität di Berlino si è tenuta la mostra Women of Mathematics throughout Europe. A gallery of portraits, in occasione del settimo European Congress of Mathematics. La curatrice è Sylvie Paycha, docente francese di matematica all’Università di Potsdam, che ha portato avanti questo progetto con lo scopo di dare un lato umano al mondo dei matematici, contro l’astrazione e l’aridità attraverso cui questo è spesso descritto.

Sylvie Paycha.

Paycha ha allora contattato la fotografa Noel Matoff e insieme hanno strutturato tredici interviste ad altrettante matematiche che conoscevano, provenienti da diversi Paesi. L’intervistata iniziava col dare una presentazione improvvisata del proprio ambito di ricerca alla lavagna; durante questa conversazione, Matoff scattava una prima serie di foto. Paycha poi poneva un elenco di domande più o meno uguale per tutte le intervistate. Si va da chi, secondo loro, le ha supportate nel loro percorso, alle difficoltà incontrate, fino alle loro maggiori soddisfazioni in matematica. Infine, a ognuna delle matematiche è stato poi chiesto di scrivere su un foglio di carta la loro formula preferita (sì, i matematici hanno spesso dei personalissimi canoni estetici per questo). Quest’ultima viene poi posta come introduzione al capitolo dedicato all’intervistata.

La varietà nella provenienza sociale, economica e geografica delle matematiche si riflette in un enorme numero di spunti di riflessione e di approfondimento. Per la precarietà del sistema universitario italiano, nel presente articolo si è scelto di riportare la storia di Barbara Nelli. Ci sono altre vite che meritano di essere raccontate, come quella di Stefka Bouyuklieva e di Irina Kmit: se ne parlerà nel prossimo articolo, dedicato alla vita accademica nei regimi totalitari.

Barbara Nelli

Barbara Nelli ha conseguito il PhD in Matematica presso l’Università di Pisa e all’Université Paris VII. Ha svolto il post-doc a Parigi ed è stata Humboldt fellow alla Technische Universität di Berlino. Nel 1997 è diventata ricercatrice presso l’Università di L’Aquila e nel 2005 ha ottenuto il posto di docente associato presso il Dipartimento di Ingegneria e Scienze dell’Informazione e Matematica dello stesso Ateneo. All’epoca dell’intervista, ricopriva ancora tale ruolo; a ottobre 2017 è divenuta docente ordinario presso lo stesso Dipartimento.

Barbara Nelli spiega a Sylvie Paycha il suo argomento di ricerca: superfici minime, principio geometrico del massimo, calcolo delle Variazioni.

Ci sono voluti dunque vent’anni affinché Barbara vedesse regolarizzata la propria posizione, un terzo dei quali post-riforma Gelmini. In particolare, nonostante abbia ottenuto l’ASN al ruolo di docente di prima fascia nel 2013, sono stati necessari altri quattro anni prima della “promozione”. In effetti, lei stessa racconta che ad aver ottenuto l’Abilitazione nel 2013 insieme a lei erano state circa cinquanta persone. Di queste, solo cinque alla data dell’intervista erano state poi effettivamente promosse; delle cinque, due erano donne.

Vent’anni non sono pochi: non lo sono per nessuno, non lo sono stati per lei, che ha incontrato una serie di difficoltà non infrequenti per una donna nel mondo accademico. Ha svolto il PhD in Francia, come si è detto, scrivendo la tesi in francese. Eppure, almeno a suo dire, la sua origine italiana, così come quella americana del suo supervisor, le stavano rendendo molto difficile trovare lavoro all’epoca. Così, è dovuta tornare in Italia, a L’Aquila; la tesi di dottorato, tuttavia, era in francese e su un argomento molto particolare, il che ritiene che sia stato un fattore di rallentamento nella sua carriera. Scoraggiata da queste difficoltà e ritenendo di essere giunta a un punto morto con la sua attività di ricerca, ha pensato allora di abbandonare tutto e andare a lavorare nel settore privato. Ha lavorato dunque per un periodo in una compagnia di assicurazioni, fino poi a ritrovare la spinta a fare ricerca.

In conclusione, chi vive nel mondo accademico abita in un ambiente precario, in cui lo Stato e le realtà locali come gli Atenei hanno entrambi un’enorme potere sulla vita delle persone. Ci sono intere categorie non sindacalizzate, di cui poco o niente si sa a livello numerico e statistico: categorie i cui componenti non hanno consapevolezza di classe, responsabilità personale, amministrativa e politica.

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