Torna a far parlare di sé Ahed Tamimi, la ragazza palestinese arrestata lo scorso dicembre dopo aver schiaffeggiato due soldati israeliani e diventata per questo simbolo della resistenza palestinese in tutto il mondo. Giovedì 22 marzo ha infatti patteggiato una pena di otto mesi nel tribunale militare israeliano d’Ofer, in Cisgiordania. La ragazza ha ammesso la sua colpevolezza riguardo quattro capi di accusa per aggressione e istigazione alla violenza, riguardanti anche episodi precedenti all’ultimo, mentre in cambio l’accusa gliene ha stralciati otto. Il suo avvocato Gaby Lasky ha annunciato che la ragazza uscirà di prigione in estate, dal momento che ha scontato già gran parte della pena in attesa della sentenza definitiva. Sembra però un capitolo difficile da chiudere, soprattutto se si pensa che la ragazza era nota alle autorità israeliano già prima del suo arresto.
Non un’eroina per caso
Divenuta simbolo della Nuova Intifada, Ahed Tamimi non è una resistente improvvisata e la sua stessa famiglia non è nuova alle proteste. Fanno parte di un sistema più ampio e collaudato, visto da alcuni come un efficace strumento di protesta contro i soprusi delle autorità israeliane, per altri solamente un ulteriore strumento di propaganda propalestinese. Non è neppure la prima volta che i Tamini hanno problemi con la giustizia israeliana. La madre di Ahed Tamimi, Nariman, è stata arrestata cinque volte, fra le quali una lo scorso dicembre con la figlia, e cammina con un bastone da quando l’esercito israeliano le ha sparato a una coscia, nel 2014. Suo padre Bessem è un noto membro del partito al-Fatah, quello del presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mezen, e gioca un ruolo importante nelle proteste a Nabi Silah, villaggio a 20 km a nord-ovest di Rammallah, in Cisgiordania, dove tutta la famiglia vive. Questo piccolo paese palestinese, di cinquecento abitanti, è situato nella cosiddetta zona C, ovvero una zona dove le autorità israeliane esercitano maggiore controllo. I problemi in particolare sono iniziati nel 1977, quando un gruppo di fondamentalisti israeliani fondò la colonia di Halamish, sul lato opposto della valle. Anche se insediamenti di questo tipo sono considerati illegittimi dalla comunità internazionale, sono da sempre sostenuti e supportati dal governo israeliano. Nel 2008, per esempio, i coloni israeliani costruirono alcune vasche d’acqua vicino a una sorgente usata storicamente dagli abitanti palestinesi per le loro terre circostanti. Dal 2009 gli abitanti di Nabi Saleh ogni venerdì, dopo la preghiera dei musulmani, protestano contro l’occupazione della fonte e, in generale, contro il sistema di controllo a cui sono sottoposti quotidianamente gli abitanti della zona. Di conseguenza, il governo israeliano sorveglia la zona impedendo ai manifestanti di avvicinarsi ad Halamish, anche con l’uso di armi con proiettili di gomma, gas lacrimogeni e cannoni ad acqua.
Il ruolo dell’era digitale
Le tensioni si sono inasprite quando, poco dopo l’inizio delle manifestazioni, l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha deciso di donare alcune videocamere agli abitanti di Nabi Saleh per filmare i maltrattamenti subiti dai soldati israeliani. Video e immagini girate dai palestinesi per cercare di riprendere gli avvenimenti dello scontro quotidiano con gli israeliani hanno iniziato a diffondersi su pagine Facebook e canali Youtube. Tra quest’ultimi vi è anche quello gestito da Bilal Tamimi, membro della famiglia della ragazza, dove il video di benvenuto che presenta il villaggio Nabi Saleh è interamente interpretato da bambine che spiegano la storia del loro piccolo paese e l’importanza di manifestare. È in questo contesto che si è diffuso anche il primo video di Ahed Tamimi, girato nel 2012, divenuto popolare in tutto il mondo, che mostra la ragazza, di appena undici anni, agitare i pugni contro i soldati israeliani. Grazie a questo video Ahed ha ottenuto anche il supporto del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, considerato una sorta di patrono dei palestinesi. Poi, nel 2015, è stata fotografata mentre mordeva la mano di un militare per impedire l’arresto del fratello. Adesso, all’età di sedici anni, è stata arrestata per aver schiaffeggiato, spintonato e preso a calci due soldati israeliani, vicino alla sua abitazione, durante una protesta organizzata a metà dicembre a Nabi Saleh. La ragazza aveva intimato ai due militari di andarsene ma quest’ultimi non hanno reagito alle parole, che sembravano più una provocazione che un tentativo effettivo di fare del male. L’incidente, ripreso però col telefonino e diffuso sulla rete, ha riscosso popolarità e portato all’arresto il 19 dicembre scorso non solo della ragazza, ma anche della madre e della cugina Nour, presenti anche loro nel video. Tutte e tre sono state imprigionate e, oltre alla sopracitata condanna di Ahed, alla madre spetta una condanna di otto mesi di carcere e 6000 shekel da pagare (circa 1400€) mentre la cugina è stata condannata a sedici giorni di detenzione, già scontati con il carcere preventivo, e a 2000 shekel di multa (circa 470€).
Cosa c’entrano i bambini
Video e foto di bambini che si ribellano alle autorità israeliane hanno iniziato a circolare sempre di più. Secondo i critici di questo sistema, i bambini sarebbero costretti dagli adulti di Nabi Saleh a partecipare alle manifestazioni per impressionare maggiormente e incrementare il sostegno alla loro causa, nonostante il pericolo, anche di un eventuale arresto. A sostegno di questa teoria ci sono infatti video di bambini, tra cui uno della stessa Ahed, che aspettano l’arrivo della telecamera prima di iniziare ad agire contro il soldato. Dall’altro lato, gli abitanti di Nabi Saleh, giustificano la presenza dei bambini affermando che sia troppo pericoloso lasciarli da soli durante le proteste. Una volta, durante le proteste, i bambini furono radunati tutti in un’unica casa e proprio l’esercito decise di attaccare l’abitazione.
Al di là del tentativo di delineare un nemico e una vittima, è indubbio che i rapporti tra l’esercito israeliano e gli abitanti della zona C siano caratterizzati dalla violenza, divenuta normalità. Molti palestinesi decidono, una volta arrestati, di accettare il patteggiamento perché il sistema legale israeliano, come ha sottolineato in un tweet Gaby Lasky, l’avvocato di Ahed, non assicura molte volte una giustizia equa. Infatti, secondo un report di una ONG israeliana che si occupa di difendere i diritti dei palestinesi, i tribunali militari come quello incaricato di giudicare Tamimi hanno un tasso di condanna del 95%.