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Big data: attacco al libero arbitrio?

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Pietro Lepidi

Una delle ambizioni dell’uomo è di avere il potere di controllare altri essere umani, di riuscire a capire cosa pensano, cosa li interessa, cosa preferiscono e in base a cosa fanno determinate scelte. Perché più si conosce di un individuo, più è possibile influenzarne il comportamento; ciò è vero a livello del singolo, ma anche a livello delle masse. Questo fenomeno è più che mai attuale oggi, visto l’incredibile numero di dati in possesso delle compagnie informatiche, in inglese definito come big data. Quale pericolo si annida nell’acquisizione e nella vendita di dati personali di milioni di individui?

Prima di parlare di quali usi si possono fare delle nostre “impronte digitali”, ormai disponibili in rete, occorre ricordare quanto queste impronte siano profonde e ricche. Nella società digitale in cui viviamo, ricorriamo sempre più spesso a internet nella ricerca delle cose o di eventi di nostro interesse. È difficile attualmente immaginare molta parte della nostra vita quotidiana senza la connessione istantanea con le informazioni digitali. Con tutti questi dati in libera circolazione, è evidente che esistano database di compagnie informatiche dove vengono registrati i dati di ogni individuo, per poi poter essere venduti. Infatti, oggi è potenzialmente attuabile il comprare informazioni su una persona, che riguardino pressoché qualsiasi cosa di lei, per esempio: quale tipo di prodotti preferisce, quali battute suscitano in lei più simpatia, quali idee politiche abbia, in quale luogo del mondo si è spostata e si sposta quotidianamente e perfino quale preferenza sessuale possa avere.

Il mondo del marketing, della pubblicità e anche quindi della politica è stato rivoluzionato dalla possibilità di accedere alle informazioni sulle preferenze di milioni di persone. Infatti, compagnie come Facebook vendono dati da quasi un decennio, e mantengono questo traffico quale loro principale fonte di guadagno. La potenza dei dati personali venduti dai social network consiste nella possibilità di mirare e restringere il target dei possibili acquirenti di un certo prodotto. Nella precedente storia dell’uomo, non era stato mai così possibile accedere a una tale qualità e quantità di informazioni sulle preferenze personali degli individui. Il problema non è preoccupante fino a quando i dati sono usati per influenzare scelte tra diversi prodotti più o meno simili, in quanto ciò riguarda il libero mercato, ma diventa un fatto squisitamente etico quando l’utilizzo dei dati è usato in maniera non trasparente per influenzare i risultati delle consultazioni politiche.

Il caso di maggiore e scottante attualità è quello della compagnia inglese Cambridge Analytica sospettata, durante le elezioni politiche di molti paesi, non tanto di aver influenzato l’elettorato con tecniche psicologiche, quali lo psycographics (di loro invenzione), ma soprattutto di aver creato un algoritmo per accedere segretamente e abusivamente a molti dati personali senza chiedere l’autorizzazione agli utenti, e soprattutto senza aver pagato Facebook per essi. La violazione dei termini e delle condizioni di Facebook è l’unico motivo legale per cui si può incriminare Cambridge Analytica nella sua attività in rete (tralasciamo qui le accuse per reati più tradizionali nel metodo, quali corruzione e l’uso di minacce verbali). Il punto è che la legge non protegge in nessun modo i cittadini da questa enorme catalogazione e fuga di informazioni che rende essi stessi e il loro stato più vulnerabili e manipolabili.

Alexander James Ashburner Nix è stato il CEO di Cambridge Analytica fino al 20 marzo.

Ma perché Cambridge Analytica non deve usare i nostri dati personali per propaganda politica?

Il problema è l’impatto sulla struttura democratica stesso di uno stato. La propaganda politica, nella sua lunga storia, ha sempre dato priorità al risultato, rispetto al metodo con cui vengono influenzate le persone. Ma ci sono due principali differenze tra la propaganda tradizionale “su carta”, e quella virtuale “in rete” della rivoluzione digitale. La prima è che con la compravendita di dati personali è possibile sapere il target esatto a cui indirizzare messaggi, che si prevede abbiamo un alto gradimento. La seconda è il luogo dove l’individuo analizza le proposte politiche che gli vengono presentate: mentre il tradizionale volantinaggio o i comizi avvenivano in uno spazio pubblico, in cui l’azione era regolata dal controllo e dal giudizio degli altri membri dello spazio comune, la diffusione invece di notizie in rete entra in contatto con l’individuo nella solitudine del suo schermo personale. L’individuo così si pone verso la comunità digitale in modo incontrollato e anonimo. Consideriamo un blog online: spesso l’unica cosa di cui la comunità è a conoscenza, riguardo a un frequentatore di un blog, è un casuale soprannome, e se anche si conoscesse un nome e un cognome non si avrebbe la certezza che si tratti di un’identità reale.

A queste caratteristiche si aggiunge la difficoltà degli utenti nel verificare la qualità delle informazioni messe in rete: questo è il conosciuto fenomeno delle fake news. Non si può pensare di avere una discussione costruttiva e democratica all’interno di una comunità di soggetti virtuali e anonimi, di cui si conoscono abbastanza preferenze da sapere esattamente quale selezione di notizie fornirgli, e quindi quale verità costruire per lui, che lui andrà poi a selezionare. Per riuscire a farsi un’opinione personale costruttiva in questa realtà occorrerebbe avere una efficace coscienza critica, capace di discernere e di mantenere una visione del mondo indipendente dall’immensità delle possibilità della rete. Tuttavia, con una scuola e una società non ancora attrezzate per formare cittadini in grado di saper vivere liberi e indipendenti su Internet, il futuro della nostra abilità a interpretare la realtà così come ci viene presentata si fa sempre più oscuro.

Che cosa possiamo aspettarci? I partiti con ambizione e possibilità di andare al governo di un paese devono molto alla rete e non disdegnano, anzi finora hanno in alcuni casi incoraggiato, l’uso di fake news e big data a fini di propaganda politica. È un vero e proprio conflitto di interessi tra cittadini e politici, che rende difficile che questi stessi politici possano essere promotori di una seria legge sulla regolamentazione delle notizie e dei dati in rete. Per quanto riguarda la Scuola, non è semplice pensare a un rapido sviluppo di programmi scolastici mirati su larga scala, che veramente favoriscano lo sviluppo del pensiero critico per i giovani su Internet. Dunque, la politica potrebbe essere dominata da un sistema digitale senza regole e garanzie, e soprattutto per le fasce più deboli con una strutturazione di tipo feudale. In questa ottica infatti nuovi Signori Digitali, sfruttando la disparità tra il loro e il sapere delle masse nell’utilizzo e il funzionamento dei nuovi media, ambiranno sempre di più a decidere quali notizie far passare come vere alla popolazione, sulla base delle loro conoscenze dei dati personali dei soggetti “target”. Ovviamente queste operazioni di utilizzo di dati hanno costi molto alti e un ristretto numero di possibili finanziatori. Eppure, questo fenomeno potrebbe costituire un ottimo strumento attraverso cui imporre una determinata visione politica, avendo le opportune possibilità finanziarie.

Questa visione non è fantascienza. Consideriamo il caso di Cambridge Analytica e l’elezione di Donald Trump. Il finanziatore di tutta la raccolta dati della compagnia è Robert Mercer, miliardario americano esperto di informatica, con idee di estrema destra. La mente invece che ha portato alla nascita della compagnia è Steve Bannon, direttore esecutivo di Breitbart News, piattaforma internet del movimento alt-right. La strategia di Cambridge Analytica è fondata sulla conoscenza di tutte le nostre preferenze in ogni campo, anche psicologico. Quanto questo possa in futuro essere efficace è difficile dirlo con certezza, sicuramente non si hanno le prove per dire che l’uso di dati sia la principale causa della vittoria di Donald Trump, così come di altre elezioni.

Un sintesi grafica del problema.

I risultati delle elezioni sono infatti dovuti a un convergere di molti fattori. Tuttavia, è lecito chiedersi: quanto è vulnerabile il nostro giudizio e quanto conta la nostra opinione di fronte a chi è così informato su ciò che scegliamo e su ciò che siamo?

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Pietro Lepidi

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