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Cos’è una malattia? Dialogo tra scienza e filosofia su un dilemma senza tempo

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Domenico Beccia

La scienza, nella sua insistente e molto spesso pretenziosa ricerca di definizioni oggettive, ha modificato varie volte il suo approccio al concetto di malattia. La questione si rende spinosa e urgente soprattutto per tutti quegli ambiti in cui il confine tra fisiologico e patologico appare sfumato e per i quali la malattia di oggi può diventare una variante della normalità di domani. Il pensiero va soprattutto alla psichiatria, contesto nel quale il DSM (manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali) e i suoi costanti rimaneggiamenti rappresentano l’essenza della fallace ricerca epistemologica. E proprio laddove il metodo scientifico non può dare risposte assolute la filosofia gli si affianca per tentare un approccio a monte così da definire punti fermi che non rischino di diventare, col tempo, anacronistici. Aspetto paradossale, in un certo senso, dal momento che le correnti filosofiche si susseguono costantemente come le più banali delle mode.

Luke Fildes – The doctor (1887).

Per fare un esempio delle differenze storiche nel modo di vedere e, di conseguenza, di interfacciarsi alla malattia, si pensi a due orientamenti quasi complementari. Da un lato abbiamo la visione prettamente ontologica per la quale la malattia si identifica con la sede della lesione. Essa quindi è identificabile e localizzabile con precisione. È il metodo utilizzato da Paracelso in pieno Rinascimento fino alla nascita della microbiologia. Sulla scia di questo pensiero si sviluppano gli studi sulla fisiologia, fra cui ricordiamo l’inglese Harvey e la scuola francese con Bichat, e sull’anatomia patologica di Giovan Battista Morgagni. Dall’altro lato abbiamo l’approccio della medicina greca e della scuola galenica, per il quale la malattia non è un evento localizzato ma generalizzato, una perdita di funzionalità dell’organismo nel suo senso più olistico. Erano tempi in cui la farmacologia era ben lungi dal riuscire a dare risposte concrete e il rimedio era da ricercare nella natura, la sola vis sanatrix in grado di estirpare un male umorale.

Una sintesi in queste visioni antitetiche la ritroviamo nella medicina moderna, la cui nascita è ormai convenzionalmente fatta coincidere con i lavori di Claude Bernard. A onor del vero, infatti, entrambi gli approcci ritrovano riscontri nelle patologie più comuni. Un tumore, ad esempio, rappresenta in maniera elementare una patologia ben localizzata, mentre il diabete è ben ascrivibile alle patologie generalizzate.

Claude Bernard, padre della medicina moderna.

In questo nuovo modo di guardare alla malattia sorge un maggiore ottimismo nelle possibilità terapeutiche. Per quel che riguarda l’aspetto ontologico-locazionista le nuove soluzioni, soprattutto chirurgiche, promettono di poter controllare la natura, pur obbedendo alle sue leggi. Per la concezione sistemica si guarda alla malattia come a un continuo che in dissolvenza passa dal fisiologico al patologico, ponendo limiti arbitrari entro cui quantitativamente si può definire la malattia. È un atteggiamento prettamente positivista, ripreso dallo stesso August Comte, padre del Positivismo, che riportava lo stesso concetto in ambito sociologico.

La visione positivistica e deterministica della realtà ha conosciuto il suo momento di declino sul nascere del Novecento. Ironia della sorte, una corrente filosofica così imperniata intorno alla solidità della scienza e all’allora infallibile principio causa-effetto riceve lo schiaffo decisivo proprio dall’ambito scientifico nella figura di Werner Karl Heisenberg e del suo principio, detto appunto “di indeterminazione”. Il crollo del Positivismo universale si ripercuote in ambito sociale e sulla medicina stessa. Appare anacronistico, dunque, come ai giorni nostri possiamo sentenziare una malattia sulla base di un dato di laboratorio che supera quantitativamente un limite arbitrariamente stabilito.

È evidente come l’impostazione esclusivamente scientifica della medicina mostri una fallacia di fondo che accomuna tutte le epoche. Canguilhem, uno dei maggiori pensatori contemporanei in questo campo così controverso, scrive: «Ridotta a semplice scienza naturale, la medicina rivela il suo limite: a essa sfugge proprio il significato dei concetti di normalità e patologia, di salute e malattia». Questa affermazione poggia sul suo pensiero di una medicina diversa. La medicina prospettata da Canguilhem è, a suo modo, più tradizionale e meno votata al calcolo. Essa guarda al paziente non come una serie di numeri standardizzabili, ma come un essere unico e irripetibile. Egli afferma: «È dunque innanzitutto perché gli uomini si sentono malati che vi è una medicina. È solo secondariamente – per il fatto che vi è una medicina – che gli uomini sanno in che cosa essi sono malati. […] La medicina è in primo luogo tecnica tesa a ristabilire la condizione di salute, e la sua origine è nelle sofferenze dell’individuo, nello scacco che la vita incontra».

Georges Canguilhem.

La concezione di Canguilhem ha del rivoluzionario, benché possa apparire come un passo indietro. Malattia non è più solo ciò che è misurabile, ma anche ciò che è raccontato. In questo modo la medicina deve smettere di avere la pretesa di rientrare nelle scienze biologiche e deve assumere un carattere di studio storico. Il medico smette di essere un funzionario di processi diagnostici e terapeutici prestabiliti e torna a esercitare l’ars medica per poter valutare i casi come singoli. Nella realtà dei fatti è una concezione già implicitamente riconosciuta nei metodi comunemente applicati in medicina, dall’uso delle linee guida come studio storico di linee di tendenza che riguardano determinate patologie, fino alla massima «l’anamnesi è mezza diagnosi» che esprime l’importanza del racconto nella pratica medica. È importante, tuttavia, sottolineare che questa visione “narrativa” della medicina non può e non deve essere diventare un mantra assoluto, ma dovrebbe andare a completare l’approccio calcolatore e quantitativo. Il racconto del paziente, infatti, se da un lato può esprimere particolarismi nel vissuto della malattia che nessuna macchina può rilevare, dall’altro esclude dal novero delle malattie tutte quelle che si trovano in stato asintomatico e che tentiamo di riconoscere con prontezza con i metodi di screening che tanto hanno giovato in termini di sopravvivenza.

Questa visione globalistica e, per certi versi, soggettiva comporta l’estensione del concetto di malattia ben oltre l’organismo, ma porta ad abbracciare anche la sfera culturale dell’individuo, nonché l’ambiente che lo circonda. Canguilhem scrive ancora: «La malattia non si misura come scarto rispetto a norme prefissate, è un mutamento della qualità di vivere. Essa provoca un restringimento delle modalità di esistenza, impone vincoli che riducono i margini di libertà dell’organismo rispetto all’ambiente». Entro certi limiti è possibile dire che ci sia stato un capovolgimento. Non è più la scienza che detta le norme alla vita, ma è l’esatto opposto. La vita, intesa come stile di vita, abitudini e possibilità, delimita i confini oltre i quali si può parlare di malattia.

Le evoluzioni nel pensiero filosofico acquisiscono un valore ancora più importante se pensiamo a quanto stia cambiando l’aderenza delle masse alla medicina. È probabile che il dilagare delle medicine cosiddette “alternative” sia dovuto, almeno in parte, al fatto che queste sembrano abbracciare lo stato psico-fisico della persona nella sua interezza, rivolgendosi all’uomo e non all’organismo. Allo stesso modo appare evidente come la medicina occidentale non riesca a stare al passo di una società sempre più multiculturale nella quale i concetti di benessere e di impatto della malattia differiscono enormemente da soggetto a soggetto. In questo senso, con la sconfessione sia nell’ambito filosofico che nel pratico di tutti i giorni, la medicina ha perso la sfida di rappresentare la scienza oggettiva nell’ambito della salute.

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Domenico Beccia

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