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theWise racconta: Quello che non ho

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Nicolas Foresti

Atto Primo – Tango d’Inchiostro

Scena I

Le candele erano perfettamente posizionate, le linee bianche di gesso paranoicamente diritte e senza sbavature. Era quasi un peccato, a questo punto, dover continuare. La gialla luce dei lumini accesi tremava, come se avesse avuto timore di quello che stava per andare a svolgersi su quel tristo palcoscenico. Il luogo scelto per l’occasione non era per nulla casuale: un vecchio teatro, abbandonato da molto tempo ormai, pieno di ragnatele, assi ricurve per l’umidità, muffa e grossi fori nei muri.

Ero fermo all’entrata. Osservavo, da dietro il fumo della mia sigaretta, il cortile desolato di fronte al teatro. Un vecchio parcheggio dissestato, con qualche pianta che spuntava dal cemento e, come il monumento in rovina di un’antica vittoria, campeggiava ritta ma secca, ancora conficcata nella ferita aperta del pavimento. Avevo lo sguardo fisso nel vuoto, scacciavo paure, fumavo, tremavo come le candele che mi aspettavano sul palcoscenico. Le scuse finirono quando sentii il saporaccio del filtro, ma mi concessi ancora due amare boccate e un minuto con la mia anima.

Buttai a terra la sigaretta. Esitai ancora, osservando il fumo che si attenuava e la brace che soffocava lentamente. Gli girai le spalle ed entrai. Nella grande sala all’entrata una nube di polvere volteggiava, forse mossa dal vento che scivolava dentro attraverso la porta semi aperta, ma il suo permanere nell’aria era innaturale, meravigliosamente innaturale. Mi dissi che era solo l’ennesima scusa di uno stupido vigliacco e mi obbligai a continuare, procedendo verso la sala del palcoscenico, subito dietro a una tenda rossa, sbiadita, pesante e umida, tra le cui pieghe notai uno strappo che ricordava vagamente una croce.

Davanti a me scendeva la scalinata centrale, che divideva i posti a sedere di fronte al palco; in quel momento della notte, la luce della luna, che penetrava dai fori nel muro, sembrava formare delle sbarre argentate, che trafiggevano il teatro in ogni direzione, formando una gabbia; una gabbia che mi teneva lontano da quel che c’era sul palco: un bagliore di sei candele, poste ai vertici e al centro di un pentacolo. Camminai senza paura in mezzo a quelle sbarre impalpabili, ricacciando tutti i timori.

Raggiunsi davvero quel palcoscenico, e per un momento credetti di non farcela. Rimasi sul ciglio di quel pentacolo come un pedone sul ciglio di una strada trafficata, in attesa del giusto momento. Quanti di questi momenti passarono in quei lunghi minuti non saprei dirlo, so solo che lo feci al momento sbagliato, per i motivi sbagliati. Un passo ed ero dentro, un altro ed ero al centro. Presi il coltello che avevo in tasca e lo usai per liberare il mio veleno tutt’intorno: il gesso bianco si mescolò presto con il liquido rosso rubino che avanzava lento e inesorabile fagocitando quel simbolo dannato, mentre altro veleno calava nella mia gola, sorso dopo sorso.

«Io sono qui per me, io ti chiamo» dissi a mezza voce, con tutta la paura che un uomo può provare; passarono lunghi minuti di terribile silenzio, potevo quasi vedere le sbarre di luce muoversi con la luna, diventare più corte, ritrarsi, come inchinandosi alle tenebre del teatro; il legno scricchiolava sotto il peso dell’età e dell’umidità. Non so quanto tempo passò, ma so che quel silenzio e quella leggera luce di candele erano il luogo ideale in cui stare: non avevo più paura, non tremavo. Era come se fossi nel mio letto. Era perfetto.

Di colpo, come un fulmine, il teatro sembrò contorcersi: gli scricchiolii aumentavano, come se tutto stesse invecchiando velocemente, eppure non c’era nessuna differenza nelle assi, nei sedili, nelle pareti; qualcosa strisciava e contorceva il vecchio edificio, facendolo girare; un rapido crescendo che finì come era iniziato.

«Io sono qui per te, io ascolto la tua chiamata» irruppe una voce, nel silenzio della mia mente.

Mi voltai verso l’entrata della grande sala, notando un movimento dietro la tenda: c’era qualcuno. Potei vedere chiaramente chi fosse solo quando fu a metà scalinata: una donna senza capelli, nuda, piena di iscrizioni su tutto il corpo, stava scivolando con passo leggero fino al palco. La sua figura bianca pallida si stagliava sull’oscurità alle sue spalle, le membra ossute sembravano irreali e la testa, pelata, pareva avere una forma irregolare; l’immagine mi infuse un misto tra disgusto e totale dedizione nei suoi confronti. Camminava lenta e aggraziata, mantenendo lo sguardo a terra. Arrivata sotto il palco vi ci appoggiò le mani, terribilmente ossute, inarcò la schiena, finalmente alzò la testa e la inclinò leggermente su un lato, a quel punto i suoi occhi verdi, segnati da profonde occhiaie, mi fissarono, ma sembrava volessero divorarmi; nessuna nota emotiva risuonò sul suo viso. La paura montò in me, come fuoco che si faceva largo sotto la pelle. Nella confusione di quell’irrazionale panico i miei occhi riuscivano solo a restare immobili su un particolare, notato all’ultimo secondo: le sue labbra rosse sangue, che risaltavano sul suo viso come un cuore umano che spunta dal torace aperto di un pallido cadavere.

«Ti va di ballare?»

Contai tre voci, nascoste dietro quella frase. Riuscii solo a fare un passo indietro.

«Mi hai chiamato, ora balliamo» dissero le tre voci. La donna alzò una gamba e portò un piede sul palco, accanto alle mani, facendo per salire. Il suo movimento fu talmente veloce e la posizione finale mi sembrò talmente impossibile che indietreggiai, nel panico, cadendo a terra.

Scena II

Incredibile come lavori la mia testa nei momenti di totale e pura paura. Vedevo tutto: un ragno correva sulla superficie incrostata del palcoscenico, una nube di polvere si stava posando a terra dopo un fugace svolazzo, una candela si era spenta per via della mia caduta. La mia caduta, già. Ero a terra, con le mani nel liquido rosso che aveva divorato il pentacolo appena pochi minuti prima. Alle mie spalle c’era il vecchio sipario, appesantito, un anziano che ha visto troppe guerre con spade di legno e finti amanti divorati dagli applausi. Davanti a me, Lei.

Era ormai salita sul palcoscenico e gattonava verso di me, la sua testa era inquietantemente fissa, qualsiasi movimento facesse il suo corpo, e così i suoi occhi. Mi puntavano, mi laceravano, mi volevano. Passò sopra le candele, sfiorandone le flebili fiamme senza fare una piega. Quando il terrore tornò ad essere una calda sensazione che pervadeva il mio corpo e smise di essere un sottofondo paralizzante incominciai ad indietreggiare, spingendomi con le mani e i piedi, scivolando varie volte. Passai oltre il sipario, che mi fagocitò con gentile calore e umida putrescenza; dovetti fermarmi quando la mia schiena toccò un pannello, un vecchio sfondo usato per qualche spettacolo. Solo dopo avrei notato che, tra macchie oleose e muffa grigiastra, su quel legno sottile era disegnato un distorto albero di mele.

Non mi sono mai interrogato su come la mente crei gli incubi che nelle notti di tormento si avvinghiano alla nostra pelle come mostri affamati, ma l’immagine che mi si presentò davanti era una risposta non richiesta ad una domanda mai posta: insieme al sipario, anche l’oscurità sembrava piegarsi, scivolare altrove, al passaggio di quella donna; come se stesse attraversando una cascata sottile. Gattonava ancora verso di me, un leggero bagliore negli occhi.

Ero paralizzato.

Come un assassino pentito che viene finalmente arrestato, feci un sospiro quando la donna, ormai vicina, mi toccò la gamba destra, facendo scivolare la mano sulla mia coscia.

«Balliamo» ripeteva, e quel tono lascivo che stonava seccamente con il suo aspetto inquietante fu come una luce per la falena nella mia testa. Non fermandosi, mi scivolò addosso. Ebbi la sensazione che le parole tatuate sulla sua pelle si muovessero, fluide, che scorressero sul suo corpo come lei faceva sul mio.

Ci alzammo, senza mai staccarci gli occhi di dosso. Senza dire nulla la sua mano prese la mia, mentre appoggiò l’altra sul fianco. Feci lo stesso, ipnotizzato.

Dietro di noi era il marcio albero di mele, disegnato su un cielo azzurro, incupito dall’età; ballammo. La musica arrivò con la calma di uno stanco esercito che marcia, afflitto dall’ultima sconfitta. S’innalzava tutt’intorno a noi. A quel punto, chiedersi da dove venisse era davvero l’ultima delle mie preoccupazioni. Passammo di nuovo il sipario, tornando sul palcoscenico con un balzo che divertì la mia compagna; la sua risata cristallina mi lasciò di pietra.

L’umido scalpiccio dei nostri passi che affondavano nella pozzanghera di liquido rosso, le candele che cadevano al nostro passaggio, la mia espressione divenne un sorriso senza che ne avessi coscienza. Non so per quanto andammo avanti, in quel tango sporco di vino, timore, oscurità e inchiostro. Il tempo passò rapido, e per ogni veloce secondo che la mia mente riuscì ad imprimere in sé stessa, mi sentivo a casa; mi sentivo avvolto da tutto quello che non avevo mai avuto, pur continuando a non averlo.

Quando la luce del sole divenne una cortina dorata che divideva il palco dalla platea, la mia dea d’inchiostro e incubo si avvicinò a me, sussurrandomi qualcosa all’orecchio.

«Scrivimi…» lenta si allontanò dal mio collo e schioccò un bacio caldo sulle mie labbra. Era come se avessi messo in bocca un tizzone rovente.

Atto Secondo – Un tramonto a mezzogiorno

Scena I

La tavola calda era cosparsa di pietruzze dorate. Il pulviscolo nell’aria veniva illuminato riccamente dalla luce del sole di mezzogiorno, particolarmente brillante, così tutto sembrava avvolto da polvere angelica, che volteggiava pigramente sopra le routine dei presenti.

Un bicchiere di acqua e limone, un tozzo di pane e un momento di oblio allietavano l’attesa del mio ordine, mentre uno sguardo alle persone intorno mi rincuorava sull’assoluta normalità del quadretto: una famiglia chiassosa sedeva vicino a me, un vecchietto sorridente attaccato ad una bombola d’ossigeno lanciava paterni consigli ad una cameriera, due ragazze si scambiavano striduli segreti d’amore giovanile. Un’illusione stupida, la mia. Tutta quella normalità mi contagiò solo per pochi secondi: ero in mezzo ad un oceano con una sconveniente quanto pesante catena di pensieri legata ai miei piedi, che non tardò a tornare, per trascinarmi a fondo. Afferrando il bicchiere notai, di nuovo, quel marchio di inchiostro nero sul palmo della mano sinistra. Una parola scritta con caratteri sconosciuti, disegni a metà tra svolazzi sinuosi e artigli mortali. Un marchio d’inchiostro indelebile. Un regalo della mia dama d’incubo.

Ogni volta che lo guardavo sentivo un’opprimente pressione al petto, come il peso di tutte le mie malefatte, di tutte le volte che cedetti un pezzo della mia anima in cambio di una notte di pensieri confusi e dolce, dolce obliare nel veleno amaro che era tutto quello che non potevo avere.

Presi un sorso d’acqua, come se potesse aiutare a scacciare quel peso, trangugiarlo e farlo scivolare giù, per digerirlo una volta per tutte. Ahimè, l’anima non si cura con un bagno: a lei serve il fuoco.

Quello ebbi.

Il locale, improvvisamente, si colorò di rosso. La luce più calda mai vista; le pietruzze dorate sparirono, come spaventate, e il tempo rallentò dandomi un momento per gustare l’assoluta santità della coincidenza che andava a svolgersi davanti a me: occhi verdi, brillanti e inaspettati, come un’aurora boreale in una stanza buia; la pelle bianca di una statua di marmo, ma morbido come creta; labbra rosa delicato e, soprattutto, i capelli rossi, arroventati dalla luce del sole. L’inferno in cui volevo bruciare.

Un tramonto a mezzogiorno su un profondo mare in tempesta.

Forse l’universo mi stava gettando un’ancora o forse era l’ennesima presa in giro. Forse ancora una volta voleva vedermi combattere per la mia anima e fallire. Ma certo! Avevo già fallito. Mentre la mia salvatrice sedeva al bancone la sua luce riflessa illuminava solo una cosa: quel marchio nero pece sulla mia mano. Stranamente, però, la sicurezza di aver già fallito non mi scoraggiò, anzi. Forse potevo dare uno sguardo oltre il velo, giusto per farmi del male, o per conoscere la verità delle cose. Una verità che non potevo più mancare: il dolore di non poterla avere mi avrebbe tenuto sveglio, attento, e una volta per tutte avrei osservato davvero come sarebbe potuta andare.

Eppure la mia oscurità avrebbe potuto inglobare anche lei e il mio naufragio sarebbe potuto diventare il suo. Abbassai la testa, conscio di avere davanti l’assoluta verità delle cose e di non volerla. Se c’è una cosa di cui posso andare fiero è la solitudine. Il mio viaggio, l’assedio a me stesso, il banchetto sulla mia anima, sono sempre stati momenti che non ho condiviso con nessuno. Nessuno doveva vedere, nessuno doveva sentire, nessuno doveva partecipare. Come una cometa impazzita avrei continuato a viaggiare nello spazio vuoto, senza mai sciogliermi al sole per la paura di pochi superstiziosi o il piacere di altri osservatori, non avrei toccato nessuno con la mia lunga scia.

Arrivò la mia frittata, finalmente.

«Grazie» sorrisi cupo alla cameriera, e lei rispose allo stesso modo, velocemente. Quello scambio assolutamente inutile ricompose i miei pensieri, affondai la forchetta nel mio pasto e presi il bicchiere: il simbolo oscuro mi osservava, distorto, attraverso il vetro e l’acqua.

Purtroppo non potevo immaginare la fisica impazzita dell’universo in cui ero immerso, poiché per strani motivi gravitazionali, per leggi di attrazione esiliate dalla logica, fu il sole a venire verso di me, e potevo sentire il ghiaccio scricchiolare, iniziare a sciogliersi.

Scena II

Sensazioni diametralmente opposte correvano sulla mia pelle mentre lei si avvicinava: Potevo sentire il calore della sua presenza, ed era prima un dolce tepore, poi un inferno bollente. Camminava leggera, quasi saltellante, tra i tavoli del locale; obbligavo il mio sguardo a rimanere sul piatto appena giunto, appena toccato.

«Ci conosciamo?»

Era vicina al mio tavolo, al quale aveva appoggiato le mani. Il mio sguardo si soffermò sull’aura rosea che la sua pelle assumeva intorno all’attaccatura delle unghie. Facendomi forza appoggiai la forchetta e alzai gli occhi. Lei era lì.

«Segui il corso di filosofia di Davis, vero?» aggiunse, annullando la domanda di prima, forse per riempire quella pausa filmica e poco reale che mi bloccava dal rispondere.

Mi sorrideva, e i suoi occhi sembravano estasiati da loro stessi per aver avuto la fortuna di avermi scorto in mezzo a tutte le persone che sedevano alla tavola calda. Il capo leggermente inclinato, un paio di fossette ai lati delle labbra e la mia prospettiva di lei ne moltiplicavano la bellezza.

«Si» mi costrinsi a sorridere, ma non mi uscì bene. Come sempre.

«Mi sembrava di averti visto, in effetti. Mi chiamo Laura».

Protese la mano destra verso di me, la sua pelle sembrava emanare una luce pallida, come il tremolare argenteo di una luna bagnata oltre la finestra, ma attraversata da un’insospettabile nota più calda.

Fu quello il momento capitale, di una gravità così somma che piegò la mia vita come il tempo che la attraversa. Una relatività emotiva che non ti aspetti.

Fionda gravitazionale.
Propulsione.
Stacco.

Eccoci qua. Ora.

Sono seduto al buio, davanti alla mia scrivania; fogli di appunti appesi a una lavagna di sughero mi sorridono benevoli; Laura mi accarezza il collo, appoggia la testa sulla mia spalla sinistra, arriccia le labbra mentre legge le parole luminose sullo schermo del computer. Alcune parole sono un flusso così ingombrante che si disegnano sulla sua bocca per meglio permettere lo scorrere verso la testa e la comprensione.
Come una crescente ondata, più si avvicina alla fine del testo più un sorriso le si allarga sul volto. La ringrazio, guardandola, per quella silenziosa e prematura approvazione.
Un paradosso conciso che si ciba del suo stesso punto di domanda finale mi affiora alla testa: non avrei venduto me stesso se una sola volta nella vita qualcuno avesse sorriso così verso un pezzo di me, eppure quel sorriso, adesso, non esiste forse proprio perché ho venduto me stesso?

Lei non sa. Lei ancora non sa.

«È bellissimo» dice. Ma non ha ancora finito, le si bagnano gli occhi.

«Dove…» interrompe la domanda, quale che fosse. «Dove hai trovato queste parole?» riprende infine.

Non comprendo la richiesta, le sorrido e basta. Non dovrei sorriderle così. Vorrei dirle che tutto quello che ho scritto non è grazie a lei, non è grazie a quello che mi ha dato, non è il sole che ha fatto fermentare i miei pensieri. La colpa è di una stella molto più oscura, la colpa è l’inconfessabile peccato di una gola atrofizzata.

Dio quanto vorrei poterlo fare in suo nome.

Dietro lo schermo del computer, dove la luce dei led, dei pixel e della parole non arriva, un oscuro fluire si muove sinuoso come un serpente che scende dal ramo basso di un albero. Un demone invisibile appoggia la sua testa sulla mia spalla destra e sussurra, assordandomi. Un richiamo oscuro, mi guardo il segno sulla mano.

Lei lo nota.

«Che c’è?» chiede, seguendo il mio sguardo.

«È strano che tu non l’abbia notato fino ad oggi» mi difendo, colpevole.

«Che cosa?» mette la sua mano sulla mia, mi passa i polpastrelli sul dorso, poi sul palmo.

«Questo segno…» abbasso il capo, rompo l’incantesimo.

«Quale?» chiede, alzando appena la voce e ridacchiando. «Non vedo nulla!»

Sento un ago incandescente attraversarmi l’attaccatura del collo. Ma è solo un’altra, ripetitiva, bruciante sensazione.

Atto Terzo – Alla fine muoiono tutti

«Allora, io esco con le mie amiche, torno tra un paio d’ore. Angelica si è di nuovo lasciata con Marco, quindi è possibile che si beva l’anima e saremo costrette a riportarla a casa molto velocemente. Tu fai il bravo, scrivi, non ti distrarre che poi leggo tutto».

La sua voce attutita arriva dall’altra stanza, passando attraverso il rettangolo luminoso dell’uscio, che rompe l’oscurità nel mio studio. Poi lei lo attraversa, viene verso di me, mi bacia, mi sorride.

«A più tardi» rispondo, e la bacio di nuovo, come se fosse l’ultima volta. Lei lo nota, un sorriso velato da un lampo ombroso le si disegna sul volto, mi osserva più a lungo di come si farebbe in un normale congedo, poi si gira. L’ultimo rumore che sento è quello della porta che si chiude.

Mi ritrovo solo, davanti al computer. Il finale del mio libro è ben scolpito nella mia testa, devo solo modellarlo. Alla fine l’eroe muore… Alla fine muoiono tutti.

«Titoli di coda…» mormoro per incoraggiarmi.

Vicino allo schermo c’è una bottiglia di vino, lo stesso vino che settimane fa versai a terra e nella mia gola, in un vecchio teatro. Il mio sangue… Divertente.

Un bicchiere dopo l’altro affogo i ricordi, un bicchiere dopo l’altro zittisco la mente, un bicchiere dopo l’altro riempio il mio corpo di coraggio, sento l’approssimarsi della fine, sento il freddo della Dama d’Inchiostro lambirmi dolcemente come fanno le onde con la spiaggia. È tempo.

Quando Laura torna a casa io sono ancora seduto davanti al computer, pallido e ubriaco. Lei lo nota, mi guarda con biasimo. Alle mie spalle si staglia Lei, la mia Dama, l’incubo in carne. Ossuta, sinuosa, macchiata da scritte fluide che danzano sul suo corpo come streghe intorno al falò. Mi cinge il petto, avvicina le sue labbra al mio orecchio. La sua voce e la mia suonano all’unisono.

«È tempo di rivelazioni, è tempo di sapere».

Laura mi guarda confusa, il suo solito sorriso si spegne in un’espressione che conosco molto bene, il suo stesso volto domanda ‘Ancora?‘ senza il bisogno di parlare.

Sbuffa, si avvicina quietamente. «Vino? Vodka? Cosa, stavolta?»

«C’è di più» dico, in contemporanea al Demone pallido avvinghiato a me, ma un guizzo di forza si fa strada. «La mia anima sta affogando, Laura». La colpevolezza si scolpisce su di me con la violenza del colpo di uno scalpello. Il Demone pallido mi guarda per la prima volta stupito, le sue parole all’orecchio erano ben altre.

«Quello che ho scritto non è opera mia».

Laura tenta di interrompermi, ma la fermo.

«Ho sempre dovuto bere per poter scrivere qualcosa di decente! Pomeriggi passati davanti al computer, all’ennesimo foglio bianco! Caffè, musica, qualche stupido mantra». Rido, rido di me «Da ubriaco scrivo… Da ubriaco, scrivo!»

Poi di nuovo, parole che mi si conficcano nel cervello, sputate attraverso l’orecchio dal Demone pallido. «Lui è mio ora, la sua bellezza è la mia, il suo dolore è il mio».

Senza poter far nulla vedo Laura fare un passo indietro, ha paura, glielo leggo in faccia, e la sua paura è un coltello che mi attraversa il cuore lasciandomi in vita.

«Ascolta…» si costringe a calmarsi. «Adesso ti faccio un caffè bello forte, tu ti metti sotto la doccia…»

«No, Laura». Ormai piango. «Lei non me lo permetterà».

«LEI CHI?» urla Laura in risposta. «DI COSA STAI PARLANDO?!» La sua paura si tramuta in rabbia, agita le mani mentre strilla, suda, ma è sempre stupenda.

«La sua ispirazione!»

Questa volta a parlare è direttamete il Demone pallido, e sono sicuro che la sua voce arrivi anche a Laura, perché fa un altro passo per allontanarsi, vede quella Dama cingermi da dietro la sedia, la vede alzarsi, lasciarmi e camminare verso di lei.

Ora è il volto stesso della paura la maschera che cinge quello della donna che amo, mentre la raccapricciante rivelazione fatta carne cammina sinuosa verso di lei.

«T-tu… Chi…»

«Io sono l’ispirazione che Lui ha deciso di seguire, l’ispirazione a cui ha deciso di conferire il suo potere». La mano del demone fa uno svolazzo, le dita si distendono una dopo l’altra, sinuosamente quanto velocemente, e Laura viene presa da una forza oscura che la sbatte verso la parete alla mia destra, una mensola si spezza. La statuetta di vetro di un cavallo cade a terra infrangendosi in mille pezzi.

Il mio naufragio è il suo naufragio, in un mare di stelle di vetro.

La Dama, il Demone, l’Incubo si gira verso di me, mi guarda soddisfatta, si avvicina e mi bacia violentemente; io rimango seduto, quasi incatenato.

«Scrivimi!» mi sussurra, spostandosi dalle mie labbra al collo, e io la scrivo.

Ci sono eroi e mostri; gli eroi ci cibano, i mostri ci divorano.

Io sono un mostro. Quel raro tipo di mostro che divora sé stesso.

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Nicolas Foresti

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