Negli ultimi vent’anni il cinema di fantascienza ha raggiunto una popolarità senza precedenti per la storia del genere. In primis è determinante il contributo del filone supereroistico, che nel generale calo delle presenze in sala costituisce una tendenza da cui ricavare buoni incassi, grazie all’affluenza e interesse di un grosso fanbase. Altrettanto importante è la storica saga di Star Wars, che dal lontano 1977 fino a oggi è in grado ancora di creare una consistente attesa, portando vecchi e nuovi affezionati a riversarsi nei cinema a ogni nuovo capitolo. Inoltre c’è il fortunato sottogenere distopico, non di rado tratto dalla letteratura young adult che avvince la generazione più giovane di lettori, con grandi successi di botteghino come la saga di Hunger Games. Non si può dimenticare, poi, quello che fu il clamoroso successo di Avatar nel 2010. Riflesso del progresso tecnologico, spesso questo genere incanala la primaria volontà di spettacolarizzazione, con grandi effetti speciali, di un tipo di cinema commerciale. Al contrario chi tenta di riallacciarsi alla tradizione della fantascienza speculativa trova nel sistema produttivo vigente grossi ostacoli, una vera e propria sfida. L’ultimo di Garland, Annientamento, tratto dall’omonimo romanzo di Jeff Vandermeer, rientra proprio in questa minorità coraggiosa.
Alex Garland, prima romanziere (L’ultima spiaggia), poi sceneggiatore (28 giorni dopo, Sunshine, Non lasciarmi) e infine regista con l’esordio Ex Machina (2015) si è progressivamente ritagliato un certo spazio d’azione nel cinema fantascientifico, cercando di coniugare la volontà di generare riflessioni, quesiti di spessore filosofico con idee creative, una narrazione pragmatica, avvincente e un’esposizione alla portata di uno spettatore medio. Proprio Ex-Machina, film indipendente, ha rappresentato un passo importante nel suo salto da sceneggiatore impegnato in progetti altrui ad autore autonomo, conquistandosi un primo posto al sole, trentasei milioni di incassi a fronte dei quindici milioni spesi e una certa benevolenza critica, oltre che vari premi. Il suo secondo film, Annientamento, è stato pensato e realizzato con l’intento di prendersi libertà maggiori, cercando di sfruttare i mezzi economici raggiunti per impegnarsi in un progetto molto ambizioso.
Trasporre il libro di Vandermeer è stato un passo audace, dal momento che il romanzo presenta soluzioni creative affascinanti e di notevole libertà artistica e immaginativa, ma molto difficili da trasporre sullo schermo. Tuttavia il neo-cineasta britannico è sempre stato in cerca di stimoli originali con cui guidare o condire le sue storie, e Annientamento allora non è da meno, anzi, è il materiale di potenzialità più ingenti che abbia mai avuto. Ancora di più si protende verso una narrazione speculativa e volutamente ambigua, con minori compromessi rispetto a una precedente affabilità di pubblico più vasto. Di conseguenza arrivare alla luce non è stato semplice. Il risultato che ne è sorto ha lasciato interdetta la casa di produzione Paramount, che lo aveva ingaggiato dopo aver acquistato i diritti del libro nel 2013. Dopo un test screening, David Ellison aveva espresso timori riguardo al possibile successo del film, a causa del suo tenore «troppo intellettuale e complicato». La cautela della produzione derivava anche dal recente flop di Madre! di Aronofsky, bersagliato da pubblico e critica per motivi analoghi. Garland però era ancora sotto l’ala protettiva e incoraggiante di Scott Rudin, che aveva finanziato anche Ex Machina. In seguito però a un cambio di produttori, il supporto della Paramount è venuto a meno. Il progetto è stato mantenuto ma con pesanti compromessi, ottenendo un accordo con Netflix che potesse attutire i rischi. Il film è stato diffuso nelle sale il 23 febbraio 2018, ma con una distribuzione molto limitata e soltanto al territorio statunitense, e a cui sarebbe seguita dopo diciassette giorni, il 12 marzo, un passaggio alla rete di streaming Netflix, a cui sono andati i diritti per la distribuzione internazionale. Annientamento quindi è stato relegato alle ristrettezze del piccolo schermo, senza che fosse stato pensato per questo tipo di fruizione e rappresentando l’ennesimo abbandono da parte delle grandi case di produzione di strade più impervie e stimolanti.
Va precisato che non si tratta di un rigoroso adattamento del libro, come dichiarato dallo stesso Garland, ma di una personale re-interpretazione che in molti punti significativi si distacca dagli eventi del romanzo per abbracciare le suggestioni del regista. La storia ne conserva comunque molte basi. Il governo statunitense, nel silenzio di un progetto segreto, ha mandato una serie di militari e scienziati all’avanscoperta e studio di una zona misteriosa, l’Area X. Si tratta di un fenomeno anomalo, una zona in crescente espansione entro cui le leggi fisiche e biologiche sono alterate. Nonostante le numerose squadre addentratesi, i sopravvissuti sono soltanto due: il soldato Kane (Oscar Isaacs) e la moglie, biologia ed ex-soldato, Lena (Natalie Portman). La storia inizia proprio dal ritorno di quest’ultima, la quale non era a conoscenza dell’Area X finché non ha assistito al ritorno del marito, in uno stato comatoso, assente e trasognato. Infatti Lena, nel bisogno di capire cosa sia successo a Kane, prende parte al gruppo di spedizione successivo. Un gruppo di sole donne e scienziate: la fisica Josie Radeck (Tessa Thompson), la geomorfologa Cass Shepard (Tuva Novotny) e il paramedico Anya Thorensen (Gina Rodriguez). A esse si aggiunge l’enigmatica dottoressa Ventress (Jennifer Jason Leigh, vista di recente in Good Time), psicologa che ha organizzato e assistito le precedenti spedizioni, e che intende entrare di persona nell’area per la prima volta. Ciò che segue è un viaggio nell’ignoto e negli angoli bui della psicologia umana, tra incubo e meraviglia. Si attua di nuovo una costante delle storie di Garland, fin dai suoi esordi di romanziere: un gruppo di personaggi si ritrovano in un ambiente ostile e radicalmente diverso dalla loro normale quotidianità o da un contesto comune, costretti ad adattarsi a esso. Le dinamiche del gruppo passano da una ingegnosa collaborazione a uno scontro di volontà per la sopravvivenza, attraverso una messa in discussione della loro visione di vita e delle loro certezze. Infatti i motivi horror o fantascientifici dell’autore sono sempre al servizio di un approfondimento su che cosa significhi essere umani, e le possibili risposte passano sempre e comunque per come ci relazioniamo con gli altri.
Nella scena di apertura Lena, di ritorno dall’Area X e messa in quarantena, racconta a una squadra di militari la propria esperienza. Interrogata su che cosa pensa di aver visto, sulla causa della morte delle sue colleghe, non ha risposte, né ne ha tanto meno alla domanda: «che cosa sai?». Questa regione misteriosa – che può ricordare la Zona di Stalker di Tarkovskij, seppur si sia ben lontani da tali vette cinematografiche – sfugge a qualsiasi riduzione alle categorie della mente umana e alle sue conoscenze scientifiche. La professionalità e la competenza della squadra mandata in sua esamina possono osservare soltanto più accuratamente la sua natura aliena, con progressivo sconcerto e con difese sempre più deboli. Non si è davanti a un fenomeno statico, pronto a consegnarsi all’occhio dissezionante dello scienziato, ma si tratta di un organismo vitale che surclassa continuamente la capacità di controllo dei suoi ospiti. L’Area X si nutre di vita, “rifrange” la luce, le onde sonore e, secondo l’intuizione della fisica Josie, tutti i tipi di DNA, compresi quelli degli uomini che vi si addentrano per studiarla, attraverso un processo di duplicazione cellulare. È in continuo mutamento, tanto che dalla medesima pianta si originano specie diverse, andando contro ciò che Lena credeva possibile. Coinvolge silenziosamente e altera, senza poter sapere quando è penetrata nelle creature che fa proprie. Negli intenti di Garland, la sua natura assimilativa e imitativa non fa che amplificare, rendere spaventosamente visibile il male nero dei suoi personaggi, facendo sì che scrutino negli abissi della loro identità senza poter scamparvi. In verità che cosa rappresenti davvero questo fenomeno spaziale è dato alle molteplici interpretazioni possibili dello spettatore. Una delle più probabili e ravvisabili nel testo filmico è proprio questa, cioè che abbia una forte connotazione psicologica. È Shepard, ad esempio, a dire che non si accetta una missione del genere se la propria vita non è in perfetta armonia, rivelando dettagli significativi su come tutti i membri del gruppo condividano uno stato di stortura interna. Un cancro consuma la vita di tutte, che sia in senso letterale o figurato, ad esempio attraverso il lutto, l’infossamento in vizi e debolezze nocive come l’alcolismo o l’autolesionismo, uno stato di depressione che decima, sbriciola di giorno in giorno gli antri di luce nella propria interiorità. Nel fulcro tematico di Annientamento c’è proprio questo: un organismo che annichilisce, invade e disintegra, ma attira vittime non casuali, che si sono introdotte volontariamente nel pericolo dell’ignoto, spinte non dall’amore per la ricerca scientifica o da volontà eroiche, ma da impulsi più tetri, che nascondono un istinto autodistruttivo in partenza.
Per Lena però addentrarsi in questa regione significa anche calarsi nelle ragioni della profonda metamorfosi del marito. Il viaggio nell’alterità spaziale è un viaggio in verità di sondamento degli altri, tanto che questi diventano materia costituente del luogo, lo popolano in modi sorprendenti e ambigui, di decifrabilità remota. Lena cerca tracce per ridurre la distanza lancinante tra sé e il coniuge. La loro deriva relazionale è mostrata da Garland con una serie di flashback tra il prima e il dopo, tra una giocosa e serena complicità e il silenzio mortifero. Nella prima parte di introduzione la biologa è già gettata in una mancanza affettiva che non riesce a superare, dal momento che il marito sembra non tornare più, e quando si palesa improvvisamente a casa, la confonde profondamente. Il fronteggiarsi delle due identità si riflette in superfici materiali, come un bicchiere posto davanti alle loro mani che si toccano oppure uno specchio che li incornicia durante un abbraccio. Per Garland scavare negli eventi, anche i più difficili e sfidanti l’umano, significa sempre riscoprire l’importanza fondamentale degli affetti, quanto essi possano essere l’ultimo senso di vita nel caos generale, quanto possano essere propulsori delle nostre azioni, anche in situazioni di sopravvivenza dove solitamente si pensa che sia l’egoismo più primordiale a vincere tutto. Tuttavia niente è uguale a sé stesso nell’azione corruttrice del tempo, esattamente come l’Area X altera irreversibilmente tutti gli organismi. Allora ritrovare Kane in una zona fuori dal conoscibile, addirittura nei suoi confini (un faro dentro cui la mutazione in atto è estrema) è un abbandonarsi all’eterno fluire del mondo e della vita, all’inafferrabilità ultima degli altri. E se un istinto autodistruttivo fa parte costitutivamente dell’umano, allora si deve scendere a patti con l’idea che l’amore talvolta non salvi da possibili derive di questo tipo, che allontanano uno dall’altro senza permettere la fusione sperata, lasciando invece l’impotenza soffocante di chi guarda un’altra solitudine senza poterla eliminare alla radice.
La resistenza posta dalla scienziata-soldato, che analizza lucidamente e allo stesso tempo è combattiva verso le avversità incontrate, risponde alla distruzione dell’alieno in modo peculiare. Lena però incassa una relativa sconfitta, perché non può sottrarsi all’azione mutatrice. Si dissocia dalla confusione o dall’arrendevolezza delle altre per il bisogno di tornare indietro, ovvero di tornare da Kane per poterlo curare. Non si lascia avvinghiare nella morsa dell’incubo, ma mantiene la forza vitale e oppositiva necessaria per schiacciare la parte oscura di sé e riemergere. Tuttavia il movimento esistenziale del suo personaggio, pur facendola tornare effettivamente nel luogo di partenza, testimonia che quella rigettata dall’area non è la Lena che vi era entrata. Se Annientamento è un film allusivo anche della depressione, gli occhi ancora iniettati della presenza del Bagliore – un nome per indicare vagamente la luminosità dell’area e quindi l’area stessa – di Lena e di Kane sono i residui del buio albergante nelle profondità di sé stessi. Affacciarsi ad esso è di incidenza profondissima, destinata a lasciare residui, per quanto pallidi, per tutta la vita.
Inoltre se i limiti fisici, biologici sfidati dalla fantascienza mirano a conquistare l’immaginazione del lettore e allo stesso tempo farlo riflettere su di sé e la sua società, Annientamento rimane un film imperfetto. Non sempre infatti gli effetti visivi, i dialoghi e in genere le sue soluzioni creative rendono giustizia alla grande potenzialità del suo soggetto. Da una parte un approccio psicologico avrebbe necessitato di una resa dei personaggi più incisiva e prismatica, dall’altra davanti alle straordinarie possibilità creative offerte da un’ambientazione così indefinibile, mutevole e sempre al di là delle facoltà umane la sfida era valicare le immagini a cui più si è abituati per proporne di originali, o quanto meno di familiari, ma con una variazione di forte interesse. In questa prospettiva ad esempio il ricorso sporadico a mostri o animali in scopertissimo CGI, pur alludendo a un’altra resa fisica di mali umani, non ha la forte pregnanza simbolica dei mostri di Del Toro.
La seconda opera registica di Garland quindi è altalenante, presenta le fragilità prevedibili da parte di un autore ancora in fieri. Per alcune parti davvero degne di nota e impressionanti, come i venti minuti finali, ce ne sono altre più pallide, blande. Garland però rimane un punto di riferimento visibile per un tipo di fantascienza di ambizioni artistiche, e i sottotesti e temi che smuove attraverso questo Annientamento sono abbastanza stratificati da dare adito a ripetute discussioni e dibattiti. Probabilmente l’esperienza della visione di Annientamento allora è meno soddisfacente delle riflessioni che ne seguono, ma non mancano le carte giuste perché le successive opere del regista siano davvero una conquista su più fronti.
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