In occasione della presentazione del nuovo album di inediti di Ilaria Graziano e Francesco Forni, intitolato Twinkle Twinkle, abbiamo avuto modo di fare il punto sulle prospettive del duo e sulle differenze, viste dall’interno, tra la scena musicale italiana e straniera.
Partiamo dal principio, voi fate una cosa abbastanza rara: nello stesso album cantate sia in italiano, sia in inglese, che addirittura in francese; inoltre questa è una cosa che non riguarda solo Twinkle Twinkle, ma anche i vostri due lavori precedenti. Questo è sicuramente stato un quid in più, che vi ha aperto le porte del mercato estero, come testimoniano le numerose date in Francia, Germania e Canada. All’inizio del vostro progetto com’è nata questa scelta?
Ilaria Graziano: «Mah in realtà è nata proprio così, non ci abbiamo pensato. Noi non siamo due naïf, ma nell’approccio alla musica sì: cioè nel senso che andiamo in una direzione molto emotiva, istintiva, non stiamo lì a pensare “usiamo le lingue per il mercato”. Ha sicuramente influito anche il fatto che ci conoscessimo già da tanto tempo e che ci divertissimo a scambiarci i gusti musicali e a riprendere dei tradizionali in lingue diverse, anche portoghesi, dei blues… Avevamo dei gusti che riuscivano a incastrarsi bene, e alla fine questa cosa ha semplicemente preso forma in maniera naturale; poi lingue diverse ti permettono di ragionare in maniera differente, ogni lingua ti fa scrivere e pensare in altri modi, così come ti porta a usare la voce in altri registri, quindi la timbrica cambia ed è come se si aggiungesse una variante o uno strumento in più. È un discorso creativo, artistico…».
Francesco Forni: «Di scelta: la lingua fa parte proprio della scelta di un sound, nel senso che se prendi una canzone inglese e la traduci in italiano non hai la stessa cosa, così come al contrario. È una scelta che parte da un’esigenza di suono e creativa».
Il primo album lo avete definito in alcune dichiarazioni come un’introduzione necessaria al progetto, mentre il secondo come un approfondimento, sia per l’ascoltatore che per voi. Twinkle Twinkle come lo collocate in questo percorso e che tappa rappresenta?
Francesco Forni: «È giusto quello che hai detto: introduzione al progetto, approfondimento, e questo terzo disco è come se fosse una piccola evoluzione, cioè l’essere rimasti solidi in quella che è la cifra stilistica del progetto – come ad esempio negli arrangiamenti rimasti minimali, che continuano a porre al centro la scrittura e le due voci che si incastrano – spingendoci, però, oltre, proprio come scrittura di canzoni; anche come sound ci siamo un po’ allargati rispetto agli altre due dischi, esplorando cose fin’ora non approfondite in questa maniera».
Il vostro è un folk con alcuni episodi blues, un po’ fuori dal tempo, e non è semplice trovarvi delle connotazioni che possano rimandare a un sound specifico, oppure a un contesto particolare. Quali sono le vostre ispirazioni musicali in generale e nel mondo musicale di oggi?
Ilaria Graziano: «Guarda, forse questa cosa che dici del blues, in realtà è proprio perché noi consideriamo molto tutto quello che fa parte delle radici e della tradizione; quindi ci sta pure il fado [genere di musica tradizionale portoghese, N.d.R.], ma c’è pure l’Africa, ovviamente. Forse quello che ci condiziona tanto è il fatto che siamo sempre alla ricerca. Ovviamente ascoltiamo tante cose diverse, però poi personalmente è difficile che mi soffermi al risultato di qualcuno che ha interpretato qualcosa. Mi affascina molto più vedere da dove arriva quella cosa che mi è piaciuta, e forse questo lascia ancora dello spazio per fondere delle cose, comporle, incastrarle in maniera probabilmente diversa».
Francesco Forni: «Sì, alla fine, sulle influenze dal vivo certe cose sono ancora più suggestive, più evidenti: quando suoniamo, anche chitarra e voce dal vivo, ci è capitato che ci abbiano detto che il nostro sembrasse un sound alla Led Zeppelin; oppure a volte facciamo del folk e ci dicono che sembriamo un duo punk. Questo, nel senso che comunque alla fine nelle radici abbiamo sicuramente i Led Zeppelin e tutta una serie di cose che ormai sono dei classici. Effettivamente è difficile trovare dei punti di riferimento contemporanei, che ci ispirino nel genere e nelle sonorità, ma non perché non ci piaccia niente, anzi, ci piacciono un sacco di cose, anche contemporanee, però alla fine sono molto diverse tra loro ed e più difficile ritrovarle nel nostro sound. Quindi sì, è più semplice trovare cose come i Led Zeppelin, appunto, che non un gruppo contemporaneo di folk».
Venite entrambi dal mondo delle colonne sonore per teatro, tv e cinema, tra l’altro con numerosi riconoscimenti. In che modo questo lato della vostra produzione artistica ha condizionato negli anni la scrittura dei vostri pezzi e le immagini che rimandano?
Francesco Forni: «Sicuramente moltissimo. Non tanto per il fatto di aver collaborato col teatro o con il cinema, ma proprio per una tendenza a essere nella scrittura un po’ tra il paesaggistico e il visionario: questo forse è il fattore che ci fa scegliere nell’ambito cinematografico, rispetto alle nostre canzoni. Penso che abbiamo una propensione naturale a scrivere in quella direzione».
Ilaria Graziano: «Sicuramente questo, e forse è anche una scelta: nel senso che a volte sai, descrivere un’immagine può essere molto più efficace che raccontarla. Io tendenzialmente mi lascio trasportare da una cosa, dal descriverla, fotografarla, anziché girarci troppo intorno insomma; e quindi è secondo me un modo di raccontare che si avvicina a uno stile cinematografico, nel senso che tu le cose le fai vedere… è con le immagini che “fai vedere”, che stai raccontando».
Per Francesco Forni: siamo a Roma, mi sembra doveroso farti una domanda sull’Angelo Mai. In quel determinato contesto storico cosa ha significato quel progetto, e c’è un aneddoto, a esso legato, che ricordi in particolare?
Francesco Forni: «l’Angelo Mai per me è una parte molto importante del mio stare a Roma, in quanto è stato uno dei primi focolai culturali e musicali che ho incrociato. Agli inizi, quando la sede era a Monti, ancora non c’era il teatro, c’era una chiesa sconsacrata e un cortile, ma soprattutto c’era un gruppo di persone che provava a inventarsi e proporre qualcosa. Ricordo che ogni tanto una persona portava una cassa, ci si attaccava e si faceva musica per venti, trenta persone. Da lì è iniziato un legame molto forte da cui è nato il collettivo Angelo Mai, il disco del collettivo e la voglia di portare questo progetto anche fuori da Roma con degli spettacoli e dei segni molto particolari, che io non ho mai trovato in giro. In generale era un carattere di proposta unico nel suo genere. Di aneddoti ne ho milioni, per cui mi è difficile… Ricordo una delle prime volte in cui si creò una magia incredibile fu durante un concerto nella chiesa sconsacrata: arrivammo alle sei di mattina e ci alternammo, eravamo io, Roberto Angelini, Filippo Gatti, Alessandro Giangrande e tanti altri… ricordo che verso le quattro di mattina c’era Vinicio Capossela, piano e voce illuminato solo da candele, mi sembra che fosse addirittura non amplificato, c’era un atmosfera unica. Penso fosse il 2005, perché poi fu sgomberata quella sede e ci vollero un paio di anni per avere la sede di Caracalla. Quel periodo lì lo ricordo come un’emozione dopo l’altra, in realtà tutte le cose che ho fatto all’Angelo Mai le ricordo con una forte partecipazione emotiva, però quel periodo in particolare fu per me come affacciarmi in una nuova dimensione, tutta da creare, e in più c’era questa sensazione di qualcosa che stavamo mettendo su, una possibilità che stava nascendo e che prendeva forma».
Per Ilaria Graziano: tra le cose più particolari che hai fatto di certo ci sono le colonne sonore per manga come Ghost In The Shell e Cowboy Bepop: com’è stato approcciarsi alla scrittura in questo ambito?
Ilaria Graziano: «Questa cosa è nata un po’ per caso molto tempo fa ed è durata tanti anni. Yoko Kanno, che era la compositrice di tutte le colonne sonore, cercava una voce italiana e io le sono stata presentata, da lì è nato un feeling pazzesco: abbiamo fatto varie colonne sonore fino ad arrivare alla produzione di un mio disco solista che raccogliesse il “best of” di queste produzioni, più degli inediti. L’approccio è più o meno uguale, dipendeva dalle situazioni: se dovevo ad esempio scrivere un testo mi mandavano la melodia e mi descrivevano la scena e quindi di cosa dovesse trattare il testo, altre volte invece trovavo cose già scritte e dovevo semplicemente interpretarle; però anche in questo caso trovavo molto interessante lavorare con Yoko, perché era un po’ una visionaria, mi chiedeva dei suoni, di entrare in delle atmosfere con la voce, e quindi, mentre registravo, mi ricordo che venivo proprio trasportata nella sua direzione. All’inizio non avevo ben capito cosa stessi facendo, perché se non sei appassionato non lo capisci veramente, fin quando non sono cominciate ad arrivare strane email un po’ da tutto il mondo, persone che volevano mettersi in contatto con me, che volevano autografi, al che cominciai a chiedermi cosa stesse succedendo, cosa realmente stessi facendo [ride, N.d.R.], poi dopo scoprii con che passione viene seguito quel mondo. Una volta mi invitarono in Louisiana per una convention con i doppiatori, gli attori eccetera, ed io gli dissi che sarei venuta con un musicista perché non canto sulle basi, e quindi ovviamente ci andai con Francesco Forni. Era prima di questo progetto, molto prima… Andammo e ci ritrovammo in questo mondo pazzesco dei manga, tra cosplay e altro, fu un’esperienza molto bella, e fu la prima volta in cui toccai con mano quanto effettivamente siano affezionati i fans di questo mondo; pensa che ancora oggi capita che li troviamo ai nostri concerti con il disco da autografare».
Più volte avete sottolineato come uno dei vostri punti di forzi sia lavorare in simbiosi mantenendo la propria individualità. In che modo accade questo, e dal punto di vista strettamente musicale: quali sono i vostri punti in comune, e forse che è un po’ più divertente, quali sono i vostri antipodi?
Ilaria Graziano: «La musica penso sia proprio il campo di unione, nel senso che quando si sta lavorando a un arrangiamento o a un testo e magari un passaggio a me non convince, o viceversa, non è vissuta come un’opposizione, anzi, come un vantaggio, un orecchio esterno, e quindi è difficile che non ci troviamo; ma non perché non la pensiamo allo stesso modo, ma perché quello che c’è di diverso, l’altro, lo acquisisce come una ricchezza in più. C’è un’incondizionata fiducia reciproca, che è fondamentale se vuoi portare la tua identità d’insieme».
Francesco Forni: «Io penso che questo sia proprio alla base di questo progetto; anche quando magari le menti apparentemente non erano in accordo, avevano una certa sensibilità ed empatia. Nel senso che magari durante il percorso possiamo dirci cose diverse, ma quando poi ci appare davanti un qualcosa, la vediamo in due la nostra direzione, e anche se il risultato è in contraddizione con quello che ha detto uno, l’altro, o entrambi, alla fine è sempre istintivamente condiviso».
La scena italiana in questo momento, sia per l’attenzione del pubblico che per le numerose uscite discografiche, sta vivendo un buon momento. Voi che passate molto tempo all’estero e anche dal punto di vista sonoro siete delle voci fuori dal coro, come la vivete, e fino a che punto vi sentite effettivamente parte della scena italiana?
Ilaria Graziano: «Quello che non mi piace di questo paese, ma non riguarda noi perché noi abbiamo il nostro corrispettivo in Italia, è quanto sia sopita una parte del pubblico rispetto a ciò che viene propinato dalle radio commerciali e dai media. Quello non rappresenta la scena italiana, infatti noi, parlando di scena italiana, non ci rapportiamo a quella cosa; perché chiunque si rapporti a ciò non ha lunga vita, perché quello è un sistema che ragiona come una macchina che macina. La cosa che trovo diversa, ad esempio, da quando siamo all’estero è che si è un po’ demolita la cultura dell curiosità, cioè non è che se è qualcosa è stata sdoganata dalla televisione allora va seguita, mentre tutto il resto ha meno impatto; all’estero questa cosa non succede, anzi è il contrario! Noi ci siamo ritrovati in posti dove ci chiedevamo «ma chi lo riempie questo luogo di quattrocento persone che siamo usciti ora in Francia?» perché noi eravamo condizionati dalla nostra cultura, che tu per un certo risultato devi fare la gavetta, deve passare da quello, da quell’altro… e invece ci siamo trovati a riempire teatri di quattrocento persone in paesi non nostri; anche perché il luogo propone una rassegna, e anche se non ti conoscono, ti cercano, ti vanno a vedere e magari ti trovavi con persone che si erano anche imparate il pezzo nel frattempo, perché nel mentre si erano appassionate al progetto. Quindi quello che ti posso dire è che in Italia c’è ostruzionismo, non tutti i canali sono aperti come dovrebbero essere per chiunque. A noi ancora ci capita di essere scoperti, e saremo sempre scoperti, perché noi funzioniamo con il passaparola, che è un altro modo di essere presenti e stare nella scena, e il nostro passaparola funziona anche perché il nostro pubblico è appassionato; e ha un grandissimo valore, perché lo hai conquistato semplicemente con quello che gli dai, senza nessun fiocchetto».