A due anni dal referendum decisivo del giugno 2016, la Brexit è ora a metà strada, come abbiamo visto alcuni mesi fa. Esattamente un anno fa la premier britannica Theresa May, invocando l’articolo 50, diede inizio alla vera e propria fase che porterà al definitivo recesso della Gran Bretagna dall’Unione Europea: il 29 Marzo 2019, il Regno Unito uscirà ufficialmente dall’Unione Europea, anche se manterrà uno status speciale per altri due anni, così da rendere il processo meno immediato e traumatico. È proprio il cosiddetto “periodo di transizione”, che durerà fino a dicembre 2020, l’oggetto principale della bozza di accordo firmata dai negoziatori dell’Unione Europea e della Gran Bretagna lo scorso 19 marzo.
In linea generale, nei 21 mesi che vanno da aprile 2019 a dicembre 2020, il Regno Unito non sarà più formalmente un membro dell’Unione Europea, ma la legislazione rimarrà pressoché invariata. Per entrare più nel dettaglio dei negoziati, i punti principali dell’accordo sono quattro.
Osservando il progredire dei negoziati, dunque, sembra che sia il governo di Theresa May quello ad aver ceduto su diversi punti, mentre l’Unione Europea sembrerebbe essere in una posizione di forza.
Intanto, a due anni dal referendum, gli effetti della Brexit cominciano a farsi sentire, soprattutto sul fronte economico. L’economia britannica non ha subito il crollo disastroso che alcuni avevano previsto, ma non è riuscita neanche a reagire come ci si aspettava alla ripresa economica che sta investendo pian piano i paesi occidentali. Da quella che era l’economia più forte e dinamica del continente ci si aspettava una performance migliore, invece i dati economici continuano ad attestarsi su un piano più basso rispetto a quello su cui viaggiavano gli anni scorsi. La sterlina, dopo essere crollata all’indomani dell’annuncio della Brexit, continua a rimanere debole, penalizzando da una parte i consumatori britannici e provocando un’importante ripresa dell’inflazione, ma favorendo al contempo le esportazioni.
Ovviamente i dati, riportati da Il Sole 24 Ore, vengono letti da due punti di vista completamente diversi all’interno del dibattito pubblico inglese. Gli europeisti sottolineano il calo nella crescita del PIL, crescita che è passata dal 2,3% del 2015 all’1,7% del 2017. I sostenitori del leave, invece, festeggiano i numeri, vantandosi di aver smentito tutte le previsioni disastrose che erano state fatte. A prescindere dalle interpretazioni, il problema più importante è sicuramente quello dell’incertezza creatasi: molti operatori economici stanno scegliendo di non investire in UK, o comuqnue stanno spostando i loro quartier generali fuori dal Regno Unito, a causa della mancanza di chiarezza su quale sarà il quadro normativo una volta che la Brexit sarà resa ufficiale. C’è già stato un importante esodo delle banche e degli istituti finanziari, anche se non drastico come era stato previsto dalla Bank of England. Le banche hanno potenziato le loro sedi nel resto del territorio dell’Unione, soprattutto a Parigi e Francoforte, ma continuano ad avere la loro base nella City londinese, che rimarrà un punto di riferimento per l’economia internazionale. Inoltre, la Bank of England ha dichiarato che durante il periodo di transizione continuerà a funzionare la regola del passporting, secondo cui una banca può operare in un altro paese UE senza per forza aprire una filiale in loco. Non è certo se questa regola rimarrà in vigore anche dopo il periodo di transizione, ma le banche sono fiduciose nel trovare altre soluzioni simili. Tutto dipenderà, principalmente, da quale sarà il quadro degli accordi commerciali dopo la Brexit.
Gli effetti, intanto, si fanno sentire anche sul fronte diplomatico. La Gran Bretagna ha sempre goduto di autonomia e rispetto a livello internazionale, sia per la sua storia, sia per la competitività della sua economia. Ha però sempre potuto contare sull’appoggio del suo storico partner oltreoceano, gli Stati Uniti, e di quelli europei. Il nuovo approccio protezionista di Donald Trump e il recesso dall’Unione Europea hanno lasciato il Regno Unito solo sul campo internazionale. L’esempio lampante è offerto dalla vicenda della spia russa avvelenata in territorio britannico, vicenda avvenuta nelle scorse settimane. L’appoggio dei leader europei alle autorità inglesi non è arrivato subito, e non si è dimostrato affatto scontato, come sarebbe invece stato se il paese fosse ancora membro dell’Unione. Le scelte diplomatiche sono di solito influenzate da diversi elementi, in primo luogo dal calcolo dei benefici in fatto di potenza e supremazia, quindi gli stati che hanno dimostrato solidarietà lo hanno fatto solo per interesse nazionale, nonhé probabilmente per indebolire la figura di Putin, che sta tornando ingombrante nella scena mondiale. Londra deve tornare a camminare da sola, ritagliandosi un suo ruolo nel panorama internazionale: in un’epoca in cui le grandi potenze sembra stiano tornando ad acquisire potere e in cui si cercano alleanze sempre più larghe, non sarà facile farsi strada per un’isola che, per quanto abbia un passato glorioso, conta circa 65 milioni di abitanti (la Cina ne conta 1379 miliardi, l’India 1324 e gli Stati Uniti 323,4 milioni).
Intanto, quello dello scorso 19 marzo è stato un primo passo importante per i negoziati, come sottolineato da entrambi le parti, ma la strada da fare è ancora lunga, e sicuramente la politica e l’opinione pubblica britannica pretenderanno che il loro esecutivo porti a casa un accordo più vantaggioso di quel che si prospetta al momento. Theresa May non gode di grande stima all’interno del paese: non è ben vista né dall’opposizione, né dall’opinione pubblica, e diversi malumori si sono presentati anche tra le fila del suo partito, tant’è che la maggioranza in Parlamento è molto stretta. La premier, intanto, ha iniziato nelle scorse settimane il cosiddetto listening tour che la porterà in tutti e quattro gli Stati del Regno. L’intento principale è quello di recuperare almeno consensi tra i cittadini e rassicurarli sul futuro del paese dopo la Brexit. Il tour è iniziato da una fabbrica tessile in Scozia, dove la premier ha ribadito, non a caso proprio nello Stato che dà maggiori problemi in questo senso, che l’integrità del Regno Unito non verrà messa in discussione dall’uscita dall’Unione. Inoltre, Theresa May si è detta ottimista e pronta a portare il paese verso la Brexit e verso tutte quelle opportunità che si presenteranno una volta usciti dall’Unione. Innanzitutto, i fondi che il Regno Unito versa nelle casse europee verranno utilizzati per migliorare l’NHS (sanità pubblica) e il servizio scolastico, mentre, per quanto riguarda l’economia, la May si dice convinta di riuscire ad avere abbastanza potere contrattuale da stipulare un accordo favorevole in materia di commercio.
Le polemiche nel paese, comunque, ancora non riescono a placarsi. I labouristi accusano il governo di avere troppo poco consenso per gestire una situazione storica del genere, lamentando un vero e proprio caos istituzionale. Gli sconfitti sostenitori del remain, invece, chiedono ancora un cambio di rotta. La cosiddetta campagna reverse Brexit sta acquisendo diversi consensi, tra cui quello prestigioso dell’ex premier labourista Tony Blair, che ora vede la possibilità di un referendum bis più vicina che mai. Per quanto i fedeli europeisti possano ancora occupare le piazze e chiedere referendum bis, o referendum per accettare o meno un eventuale accordo concluso dai negoziatori, ormai il divorzio sembra davvero inevitabile. Tra meno di 365 giorni il Regno Unito, dopo più di quarant’anni di membership, lascerà l’Unione europea e tornerà ad essere uno stato completamente autonomo sul piano internazionale. Se questo sarà un bene o un male per il paese, solo il tempo potrà dirlo. Intanto, i negoziatori di entrambi le parti sembrano pronti a lottare per strappare un accordo il più possibile vantaggioso per la propria causa, e si cominciano a vedere passi avanti in tal senso.
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