Dire addio all’amore della propria vita non è mai facile, specie se non per la prima volta. È con misurata pacatezza che Fernando Torres, 34 anni compiuti lo scorso marzo, annuncia ai giornalisti la sua intenzione di partire a fine stagione. Dice che sta bene, che si sente ancora in grado di poter dare qualcosa al calcio, ma che all’Atletico è ormai ora di fare posto agli altri. «Non c’è nessuna spaccatura con Simeone, dobbiamo rimanere tutti uniti per il bene della squadra» conclude, ciò che è meglio per l’Atleti sempre presente nei suoi pensieri. Sembra strano pensare che un tempo era proprio lui a essere il meglio per i Colchoneros. Sembra impossibile pensare che non lo sia più. Specie con quella tanto familiare faccia da bambino.
I primi passi
Fuenlabrada è una città di quasi duecentomila abitanti, il cui sguardo è necessariamente rivolto verso la poco distante Madrid. Per questo, moltissime famiglie si dividono nella fede calcistica tra Atletico e Real, questi ultimi privilegiati in popolarità, specialmente dalle nuove leve. A scuola, tutti i bambini tifano per i gloriosi blancos. O meglio, quasi tutti. Il piccolo Fernando ha trascorso i primi anni della sua vita imparando dal fratello maggiore Israel a giocare e dal nonno materno a scegliere i colori giusti. Il calcio è il primo amore, l’Atletico è il secondo. Ogni due giorni, mamma Flori lo accompagna ad allenarsi. In autobus o in treno, sotto il sole cocente o sotto la pioggia torrenziale. «Non sentirti obbligato. Finché ti diverti continuiamo» gli dice, «e poi, se ti stanchi, non torniamo più». Fernando non si stancherà mai.
Dall’alto dei suoi quattordici anni e del suo ruolo di raccattapalle, Fernando ha già osservato il pubblico rojiblanco in moltissime occasioni diverse: gente di tutte le età con le lacrime agli occhi per la retrocessione, folli festeggiamenti per la promozione, tante sconfitte e un po’ meno vittorie. «Ma alla fine di ogni partita, tutti erano felici di essere venuti a vedere il loro Atletico. A differenza dei tifosi di Barcellona e Real, a cui interessa soprattutto vincere, credo che noi siamo più interessati al sentimento che al risultato» dice Torres nella sua autobiografia. È il 1998: Fernando vince con le giovanili la Nike-Cup (una competizione tra i maggiori club europei) e viene nominato giovane dell’anno. L’Atletico gli offre il suo primo contratto da professionista.
Da sconosciuto a leggenda
Nel maggio del 2001, Torres viene chiamato ad allenarsi con la prima squadra. È un diciassettenne col viso pieno di lentiggini che non dimostra affatto la sua età. In spogliatoio, nessuno conosce il suo nome. I compagni decidono di chiamarlo semplicemente “el Niño”, il bambino. Quella domenica diventa il più giovane giocatore della storia dell’Atletico Madrid a debuttare tra i professionisti e quella seguente segna il suo primo gol tra i professionisti. A fine stagione, i Colchoneros non riusciranno a conquistare la promozione per una mera questione di differenza reti. Per Fernando è un’enorme delusione, ma il futuro ha ancora molto in serbo per lui.
L’anno seguente, l’Atletico conquista la promozione. Nella sua prima stagione in Liga, Torres segna tredici gol in ventinove presenze, attirando l’attenzione del nuovo proprietario del Chelsea, un certo Roman Abramovič. È lui in persona a presentare un’offerta da ventotto milioni per quello che i giornali definiscono «uno dei più interessanti prospetti spagnoli». La dirigenza dell’Atletico rifiuta. A diciannove anni, arriva la fascia da capitano con il club e la prima convocazione in nazionale maggiore, con la quale il Niño partecipa agli Europei del 2004 e al Mondiale del 2006. Entrambe le competizioni si concluderanno con scarsi risultati a livello collettivo, ma il nome di Torres si fa gradualmente strada sulle pagine dei giornali di tutta Europa.
Torero a Anfield, campione in Europa
Una sera d’estate del 2007, passeggiando coi suoi cani a Madrid, Torres riceve la telefonata che gli cambia la vita. Rafa Benitez gli comunica di volerlo a Liverpool e di avere intenzione di presentare al più presto un’offerta per il suo cartellino. Il 4 luglio dello stesso anno, l’acquisto sarà completato per 27 milioni di sterline, una cifra record per il club. All’alba del suo approdo a Anfield, le opinioni sul suo conto sono molto discordanti. Il Guardian avverte i tifosi Reds: se è un nuovo Fowler quello che desiderano, li aspetta una grave delusione. Torres segnerà la sua prima rete al debutto a Anfield contro il Chelsea e concluderà la stagione con 29 reti in tutte le competizioni (eclissando il record personale di Owen) e 24 gol in campionato, diventando il debuttante straniero più prolifico nella storia della Premier League.
Se con il Liverpool in maggio sfumano sia Champions League che campionato, per Torres la stagione non è ancora finita. Dopo una lunga cavalcata, è un suo gol in finale contro la Germania a decretare la Spagna campione d’Europa. «Le mie uniche gioie legate alla nazionale erano quelle viste nei vecchi filmati in bianco e nero, ma questo è un sogno che diventa realtà» dichiarerà ai media. In dicembre, finirà terzo classificato nell’assegnazione del Pallone d’Oro, dietro al vincitore Cristiano Ronaldo e a Lionel Messi. L’anno seguente segnerà l’inizio di una lunga serie di infortuni destinati a segnare con costanza la carriera di Torres. Ciò non gli impedirà di segnare il suo cinquantesimo gol in ottantaquattro presenze con il Liverpool.
Chelsea e Milan
Per il neolaureato campione del mondo (seppur con partecipazione limitata) in Sudafrica, il ritorno in Inghilterra non è affatto dolce. La rottura del club con Benitez nell’estate 2010, l’arrivo di Hodgson e il pessimo stato del Liverpool sia a livello societario che nei mediocri risultati in campionato e nelle coppe, porteranno Torres a richiedere un trasferimento nella finestra di mercato invernale 2011. Come terribile epilogo di quella che era stata una bellissima storia, Torres verrà ceduto al Chelsea per 50 milioni di sterline. Le forti pressioni dovute all’altissimo prezzo del cartellino, unite a una condizione psicofisica sempre più precaria, faranno sì che l’esperienza a Londra del Niño sia ben peggiore di quella a Anfield. Sembra azzardato da dire, ma persino una Champions League, persino la prima del club per cui giochi, può passare alla storia come un merito minore quando la si vince da comparsa e non da protagonista.
Nel 2012, questa volta giocando un ruolo decisivo (a fine torneo sarà premiato con la Scarpa d’Oro), vince un nuovo Europeo con la Spagna nella finale di Kiev contro l’Italia. Con il Chelsea, invece, in maggio del 2013, vince l’Europa League in finale contro il Benfica sotto la guida di Mourinho. Sarà l’ultimo trofeo alzato con la maglia Blues, nonostante la sua permanenza a Londra si estenda fino all’agosto seguente, quando sarà ceduto al Milan. L’esperienza italiana di Torres, nonostante le roboanti dichiarazioni al suo arrivo, si rivela terribilmente anonima, tanto da lasciar presagire un possibile imminente ritiro. Così non è, e nel gennaio del 2015 arriva il momento di tornare a casa.
Ritorno a Madrid
La scarsità di minuti messi a sua disposizione da Inzaghi obbliga Torres a cercare altri lidi in cui giocare. L’interesse dell’Atletico sorge con tempismo perfetto, come a prenderlo per mano e riportarlo a casa, la casa che aveva lasciato come enfant prodige e che ora lo ritrovava già uomo, ma, per certi versi, solo e spaurito come un bambino. La perdita improvvisa di Luis Aragonés, l’allenatore più importante della sua carriera, gli infligge un duro colpo. Ancor di più, però, lo fanno le poche chance di poter contribuire al progresso della squadra. Nonostante un Vicente Calderón stracolmo e festante gli dia il bentornato, gli anni e gli infortuni hanno indebolito di molto il ragazzo che a Madrid ricordavano.
Il recente raggiungimento dei cento gol totali in Liga è stato parzialmente messo in ombra dall’annuncio del suo addio all’Atleti. «Per far spazio ad altri» ha dichiarato. Il fatto che questa sia con ogni probabilità la scelta giusta può davvero far riflettere sulla traiettoria tanto strana di un giocatore che è stato amato alla follia da chi ha potuto vederlo, e ricorda di averlo visto, giocare al massimo delle sue potenzialità e disprezzato senza pietà da chi invece ha maggiormente impressi i fallimenti degli ultimi anni di carriera. Per quanto indubbiamente dotato di incredibile talento e doti atletiche fuori dal comune, non si può fare a meno di pensare che la carriera di Torres sia stata viziata da un’incessante serie di infortuni e spesso dalla sfortuna di trovarsi al posto sbagliato al momento sbagliato.
Così, nuovamente, Torres si appresta a ripartire, a salutare l’Atletico. Nello stesso modo in cui l’aveva fatto la prima volta: con un po’ di nostalgia, con la voglia di mettersi in gioco e con la promessa di ritornare.