theWise incontra: Giacomo Giaquinto

Classe 1991, Giacomo Giaquinto ha appena pubblicato il suo primo romanzo, Il circolo delle anime corrotte, disponibile su Ibs.it. In questa intervista ci racconta il suo rapporto con la scrittura, il suo esordio letterario, i progetti per il futuro.

Cominciamo dall’inizio. Come ti sei avvicinato alla scrittura? Per caso, o in seguito a un evento particolare?

«Da ragazzino, mi costava fatica esprimere i pensieri a voce. Mi imbarazzava, mi intimidiva. Quindi preferivo scrivere, che fossero lettere o i primi sms. Così mi accorsi che scrivere, in generale, mi faceva stare bene, e che dinanzi a ogni stimolo esterno la mia immaginazione galoppava. Mi resi conto che preferivo mettere su carta le mie storie e tenerle per me; non mi piaceva dispensare ciò che pensavo. In seguito mi sono avvicinato alla scrittura come scelta di vita, dopo aver letto, a tredici o quattordici anni, Cuori in Atlantide di Stephen King. In quel libro lessi una frase che mi sbloccò, che mi fece capire che nella vita avrei dovuto fare lo scrittore. Quella frase era: «Pace + amore = informazione». Fu quella frase, così bella e interessante, a farmi capire che volevo scrivere anch’io qualcosa di così immediato. Per quel libro piansi; quando provi un’emozione così forte, vuoi essere in grado di trasmettere la stessa cosa».

Quindi l’idea di base è di trasmettere un’emozione?

«In realtà no. Credo che l’idea di base sia, per quanto mi riguarda, riuscire a evitare che i pensieri si immiseriscano attraverso la parola. Quando hai dei concetti dentro, vuoi fare in modo che non vengano mai travisati; la scrittura ti permette di fare questo, perché non hai un limite. Nel discorso parlato un limite ce l’hai, ad esempio se l’interlocutore si distrae; nella scrittura no, perché sei tu e la tua tastiera».

Hai parlato di tastiera. Scrivi direttamente al computer?

«Sì, non sono mai stato un grande fan delle trame. Non mi piace scrivere la trama in anteprima. A me piace partire da un perché, anche se nel Circolo più che un “perché” è un “che cosa succederebbe se”; in questo caso, che cosa succederebbe se un segreto fosse elevato all’ennesima potenza, creando un effetto domino. Non c’era una trama di partenza; un romanzo ha senso quando i personaggi si muovono da soli all’interno della stesura, dell’ambientazione che hai inventato o scelto per loro. Quando sono i personaggi a suggerirti le azioni, probabilmente stai facendo un buon lavoro; a me è successo questo. Qualsiasi racconto abbia scritto, non è mai partito da una trama».

Quindi parti da un’idea, da un concetto.

«Parto da un “che cosa succederebbe se…”. Se non hai questa domanda dentro di te, non riesci a dare il senso del dramma, dell’azione, perché non sai come far evolvere i personaggi. In un libro nulla è secondario: non esistono solo i personaggi, ma anche la natura morta, i luoghi, le descrizioni, gli antagonisti, persino le condizioni atmosferiche… sono cose che esistono nella vita di tutti; una giornata storta può dipendere anche dal solo fatto che piova. Lo stesso vale per i personaggi del libro: se ti isoli da questo discorso stai scrivendo qualcosa di irreale, e qualcosa di irreale non può far presa sul lettore. Ecco perché non amo scrivere di persone straordinarie in situazioni ordinarie, ma di persone ordinarie in situazioni straordinarie».

Veniamo all’atto pratico. Hai dei rituali di scrittura o scrivi come capita?

«Più che dei rituali, ho delle abitudini di scrittura: molti autori amano scrivere di notte, io preferisco scrivere al mattino. Cerco sempre di scrivere tra le sette e le dieci pagine al giorno; la mia giornata alla tastiera inizia alle 09:00, e non mi fermo finché non ho scritto le mie dieci pagine».

Hai un luogo deputato alla scrittura?

«Sì, scrivo in camera mia. Secondo me esistono due fasi della scrittura: una a porta chiusa e una a porta aperta. Quella a porta chiusa è la fase iniziale, in cui butti su carta le tue idee senza pensare; perché il concetto base dello scrivere non è pensare, è scrivere. I pensieri immiseriscono la scrittura; in questa fase, se stai attento alla grammatica non vai avanti. Nella seconda fase, quella a porta aperta, hai finito di scrivere il romanzo e inizi a pensare a come migliorarlo, a cosa togliere e cosa no».

Quindi è raro che ti lasci ispirare dalle atmosfere di luoghi particolari.

«Onestamente penso sia una leggenda metropolitana. L’idea del poeta che davanti al mare si accomoda e scrive è un po’ una leggenda metropolitana… Sì, un’atmosfera può ispirarti un paragrafo, mi è capitato di aver vissuto situazioni che mi abbiano ispirato dei paragrafi. Ma mettersi a scrivere da zero è un po’ più complicato. Scrivere vuol dire avere una pagina bianca e riempirla; non si riempie di certo da sola. E poi, c’è bisogno di situazioni di comfort per scrivere; altrimenti, un periodo che nella tua testa è molto bello rischia di diventare una stupidaggine banale e senza senso».

Hai citato Cuori in Atlantide di Stephen King. Ci sono altri autori che ti hanno lasciato qualcosa, che hanno influenzato il tuo modo di scrivere?

«Penso che tutti noi, nel momento in cui scriviamo qualcosa, siamo ciò che stiamo leggendo in quel periodo. Lo stile è una connotazione: ci sono diversi elementi che lo alimentano. Ad esempio, tipici del mio stile sono i cambi di verso, ovvero le frasi in cui cambiando l’ordine degli elementi si ottiene tutt’altro significato. E poi, mi piace molto descrivere i pensieri dei personaggi. Tra i miei padri spirituali sicuramente c’è Bruce Springsteen, che non è solo un cantante ma uno straordinario autore, e poi John Steinbeck, con Furore. Tra gli autori thriller Donato Carrisi; e tra i meno recenti, Bram Stoker, che mi ha influenzato non tanto nello stile di scrittura, essendo un po’ vetusto, ma ha fatto sì che amassi il thriller. Ho letto un po’ di tutto, ma la mia principale fonte d’ispirazione resta Stephen King».

C’è un motivo particolare per cui sei attratto dal thriller?

«Credo che il tempo di ciascuno di noi sia prezioso e limitato, e la lettura di un thriller ti fa capire che arrivare all’ultima pagina è l’unico modo di risolvere un dubbio. È nella natura umana essere attratti dal thriller: l’uomo vive di dubbio. Ogni giorno ci svegliamo con un dubbio diverso, fosse anche il semplice «ho chiuso il gas?». Ecco perché il thriller rispecchia appieno la natura umana. Leggere un thriller ti permette di dialogare con la tua parte più oscura, che è intrinseca in ognuno di noi».

Quindi, in un certo senso è un dialogo con sé stessi.

«Sì, e lo è anche per lo scrittore. La scrittura è un lavoro solitario: ti fa dialogare con te stesso, anzi, con tanti te stesso, quello più razionale e quello più oscuro. Quando si scrive un thriller ci si apre a mondi improbabili; è quel che accade nel descrivere un omicidio. È una cosa che nessuno di noi ha mai fatto – si spera -, quindi devi riuscire a immedesimarti sia nel carnefice che nella vittima».

A proposito di immedesimazione. Oltre a scrivere, sei stato animatore in villaggi turistici, dove ti è capitato più volte di scrivere soggetti per giochi di ruolo. C’è un legame tra la scrittura “pubblica” del gioco di ruolo e quella “privata”, solitaria, del romanzo? La dimensione del confronto è presente in entrambi i casi?

«Non penso ci sia un legame tra le due cose. Nella scrittura per giochi di ruolo parti dal presupposto che devi accontentare qualcuno, in quel caso il giocatore, quindi devi inserire delle trame molto fitte nelle pagine del racconto. Nella scrittura privata ciò non accade; non si scrive un libro per accontentare gli altri, e soprattutto non si scrive per guadagnare. Se parti dal presupposto di voler scrivere un libro commerciale, che diventi un bestseller, hai sbagliato mestiere. Anche perché la scelta del bestseller è sempre molto labile; non è mai esistito un genere unico o una trama unica. In ogni caso, la scrittura privata è sempre per sé stessi, mai per altri. Certo, che poi il libro sia pubblicato è una buona cosa; significa che qualcuno ha apprezzato i tuoi pensieri, le tue parole».

Quindi sentirsi scrittori è una sorta di condizione interiore, che non ha nulla a che vedere col riconoscimento esterno. O sì?

«In realtà, sentirsi scrittori non è che una denotazione di forma. Scrittore è la persona che scrive; in questo senso, siamo tutti scrittori. Ciò nonostante, penso che il lavoro dello scrittore di thriller, del giallista, sia molto complicato: il giallista non può mai perdere il ritmo della storia, e deve stare attento a non dare mai troppi dettagli. È il più cervellotico di tutti i narratori, se si considera che la scrittura, per quanto sia un fatto interiore, è anche dettata da certe regole, che uno deve rispettare per poter ambire al mercato – ma anche per poter scrivere un buon prodotto per sé. Nessun giallista finisce un romanzo e dice: “Sono certo che diventerà un bestseller”. Al contrario: quando finisce il suo romanzo e lo rilegge, gli fa schifo. Allora lo aggiusta, lo rilegge un’altra volta e si accorge che fa un po’ meno schifo, e così via. Ma non gli piacerà mai davvero. Per un semplice motivo: il giallista sa già come va a finire, quindi ha perso il bandolo della matassa sin dall’inizio».

Parliamo del tuo romanzo. Anzitutto, la genesi: come è nato? Da un’idea specifica o da una collazione di idee diverse?

Il circolo delle anime corrotte nasce così: una sera ero a Bari, in un locale. Pioveva, e la pioggia è un elemento fondamentale nel romanzo. Seduto al mio tavolo, ascoltavo un manipolo di avventori conversare tra loro: parlavano di segreti, di cose che non avrebbero mai raccontato alle loro mogli. Più alzavano il gomito, più i loro segreti aumentavano, diventando sempre più reconditi, sempre più tremendi; quasi impensabili. A quel punto mi sono chiesto: cosa accadrebbe se quei segreti venissero a galla? Come si giustificherebbero coloro che li nascondono? Non mi importava delle vittime di quei segreti; mi interessavano le reazioni di coloro che li stavano rivelando. Da lì ho iniziato a pensare, stranamente, non tanto ai personaggi, quanto alla location. Volevo ambientare la mia storia in una città realmente esistente, ma poi mi sono reso conto che dovresti conoscere tutti gli abitanti di quella città per poterla trasportare nel libro, e ho capito che sarebbe stato più semplice inventarne una. Così è nata Circle’s Mill: una città che ha il segreto come marchio di fabbrica, visto che la sua unica eredità, la sua unica attrattiva turistica è lo spaccio di bigliettini d’auguri. Credo non ci sia nulla di più segreto di un bigliettino: basti pensare che quando si dà un biglietto a una persona le si dice: «Leggilo quando sei solo», ed è forse questo il segreto più grande. Volevo narrare di una città immersa nel mondo dei segreti: questa è la genesi del romanzo».

Parliamo della trama. Qual è l’intreccio fondamentale?

«Il punto di partenza è il suicidio collettivo di alcuni ragazzi, avvenuto dieci anni prima dell’inizio dei fatti. Le vittime non avevano nulla in comune, se non l’età e il fatto di frequentare la Westminster University, centro nevralgico del caos che si crea a Circle’s Mill. Il suicidio dei ragazzi è indagato da un giornalista del luogo nell’ambito di un’inchiesta, un rapporto, che viene immediatamente insabbiato dalla polizia. Questo perché nel rapporto ci sono nomi e cognomi di chi ha spinto i ragazzi al suicidio: sono tutti pezzi grossi. Ma un bel giorno, una copia del rapporto finisce nelle mani della gente comune, che la sfrutta per ricattare coloro che vi sono citati, minacciando così di rovinare la loro carriera. Questo rapporto è quindi il primo segreto della città, una cosa che sanno tutti; ma nessuno fa niente. «Nessuno fece niente» è una frase molto ricorrente all’interno del libro; un vero e proprio monito. A un certo punto, la malavita locale assolda un sicario, che inizia a uccidere coloro che stanno sfruttando il rapporto per ricattare i piani alti. Sennonché, questo killer sfugge al controllo della malavita e inizia a uccidere i pezzi grossi – secondo il modus operandi del suggeritore, ovvero istigandoli al suicidio – lasciando sul cadavere di ognuno una citazione di Stephen King, e ovviamente si vedrà perché. Il detective di primo grado Michael Hobbes, coadiuvato dal suo partner Jerome Spark, inizia a indagare su questo assassino scrittore; ma ben presto i due si accorgeranno di star lottando non contro un serial killer, ma contro l’intera Circle’s Mill, che vuole mantenere il suo segreto. È una lotta contro l’omertà, e loro dovranno trovare un modo per uscirne vivi».

Giacomo Giaquinto
Il Circolo delle Anime Corrotte (Scatole Parlanti, 2018).

Hai parlato di lotta contro l’omertà. Al di là dell’intreccio, quali sono i temi del romanzo?

«Il tema portante del romanzo – ogni romanzo ne ha uno – è sicuramente l’omertà. L’omertà è al centro di tutto, e omertà significa corruzione; non a caso il romanzo si intitola Il circolo delle anime corrotte, e si apre così: «Gli uomini credono che le conseguenze siano una stupida invenzione letteraria…». Ed è vero: se cerchi di nascondere un segreto, di solito non ti preoccupi delle conseguenze. Infatti, un altro tema del romanzo sono proprio le conseguenze, le conseguenze di un segreto mantenuto troppo a lungo. C’è poi la violenza, la violenza sui giovani; e in particolare, si parla di come il passato può forgiarti nel futuro. Ogni personaggio della storia ha subito un trauma, e deve lottare contro «gli spettri che la notte si tolgono il guinzaglio e corrono liberi»; i pensieri, gli incubi che ci tormentano al calare del sole. Si parla di traumi, ma non di come uscirne; è molto banale chiedersi come si esce dal passato. Mi interessa piuttosto capire come i traumi del passato formano la tua personalità: come si diventa ciò che si è? Questo è il punto».

In un’ottica idealmente disinteressata, perché consiglieresti di leggere il tuo romanzo?

«Bella domanda. Anzitutto credo che noi italiani, nell’ambito del thriller, negli ultimi anni abbiamo dato una lezione a tanti autori americani. Basti pensare a Giorgio Faletti, a Donato Carrisi, a due mostri sacri del thriller come Camilleri col suo Montalbano (ma non solo) e Lucarelli, che ha scritto Almost Blue, un capolavoro tradotto in tutto il mondo. Consiglierei il mio romanzo perché ti tiene incollato a ogni pagina. E poi, a un certo punto ti accorgi che i personaggi che incontri sono persone che conosci; sono il tuo vicino di casa. E lì inizi a porti una domanda, la stessa che io pongo al lettore: come ti comporteresti se avessi un segreto e, nonostante tu voglia rivelarlo, quando lo stai per fare minacciano la cosa più cara che hai al mondo? Avresti davvero il coraggio di parlare? Un altro aspetto interessante è che fino all’ultimo non sai se stare dalla parte del killer, che uccide gente apparentemente intoccabile, un manipolo di pedofili, violentatori, assassini… o dalla parte dei detective. Ma a un certo punto ti devi schierare».

Hai citato diversi autori italiani. È ancora possibile rendersi originali? Come?

«Credo che l’originalità di per sé non esista. Essere originali vuol dire fare qualcosa che non è mai stato fatto; ma la scrittura è stata la prima invenzione dell’essere umano. Quanto al thriller, esiste dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, quando in Inghilterra fu inventato il giallo – dal colore della copertina dei primi volumi – per esorcizzare i demoni della guerra. Penso che l’originalità sia da ricercarsi, più che nell’idea, nello stile. Certo, le idee originali esistono, ma esistono pure le idee già riprese, ricalcate più volte; il punto è la capacità dello scrittore di attrarre le persone nella storia. Il lettore deve sentirsi rapito da ciò che hai scritto. L’idea potrà non essere originale, ma non diventerà mai davvero banale se riesci a renderla reale. La bellezza di una storia, comunque, è sempre molto soggettiva; c’è chi apprezza tantissimo Tre metri sopra il cielo, mentre io lo considero orribile. Lo stesso vale per tanti autori: Dan Brown vende milioni di copie nel mondo, ma per me è uno scrittore più che mediocre, anche se lo considero molto furbo. Ecco, probabilmente più che l’originalità, allo scrittore serve la furbizia; ciò vale in particolare per il giallista, che più di ogni altro deve essere capace di far voltare pagina al lettore».

Quindi il punto centrale è la suspense.

«Certo. In un thriller è fondamentale, altrimenti chiudi il libro dopo qualche pagina».

Pensi sarà possibile mantenere questa suspense in un eventuale adattamento della tua opera? 

«Certo, sarebbe meraviglioso. Ad esempio, credo che il cinema sia assolutamente capace di creare suspense; basti pensare ai film di Hitchcock, o agli adattamenti cinematografici di certi romanzi, come La ragazza del treno, molto carino, o Gone girl – L’amore bugiardo, nominato agli Oscar. Ovviamente, spero che un giorno traggano un film dal mio romanzo».

Quindi, stai pensando ad un film.

«Sì, un film per il cinema. Uno spettacolo teatrale, no; le scenografie sarebbero troppo costose, e poi ci sono troppi personaggi. Quanto alle serie tv, non amo le serie tratte da romanzi; un libro esaurisce la sua stesura in duecento pagine, mentre una serie deve durare dieci o dodici puntate, per cui capita che vi inseriscano elementi inutili, a volte anche inventati. Credo più nella forza delle due ore di un film».

Hai altri progetti in cantiere?

«Sì, sto scrivendo un secondo romanzo, sul tema della pedofilia nella Chiesa. Si intitola La lingua dei morti ed è ambientato tra due città, Roma e Napoli. Narra di un culto, la “lingua dei morti”, appunto, che inizia a mietere vittime sia tra i preti pedofili che tra le loro vittime, considerati entrambi impuri e quindi da redimere attraverso morte e resurrezione».

Rimarrai fedele al thriller, dunque.

«Assolutamente! Non potrei mai abbandonare la retta via».

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