Il cinema si distingue rispetto ad altre arti per i suoi processi creativi a vocazione collettiva. Al contrario della scrittura, dove spesso l’artista si isola in un interno, uno studio, una propria interiorità da cui far scaturire le parole più adatte per esprimersi, fare un film è un’operazione che getta all’esterno, non solo nel mondo fenomenico, ma in mezzo agli altri, in una fitta concatenazione di contributi di personalità creative eterogenee. C’è chi fa di questa immersione nel formicaio che è il mondo una vera e propria filosofia di vita. È il caso di Agnès Varda, cineasta belga veterana, che alla soglia dei novant’anni ha ancora voglia di esplorare antri geografici e umani, e confeziona un altro gioiello, il documentario Visages, Villages (2017), pensato, diretto, vissuto insieme allo street photographer JR.
Una strana coppia alla ricerca di ritratti
JR e Agnès, così lontani per età e per aspetto fisico, hanno però quella bizzarra alchimia comune a tante coppie dei buddy movies. Si filmano mentre entrano ai lati opposti dell’inquadratura, su un sentiero piano, entrambi in cammino e convergenti in un punto centrale, salvo poi giocare con lo spettatore su quale sia stato davvero il momento dell’incontro. Chi sono? Cosa c’è alle spalle di entrambi? Qual è il percorso fuori dall’inquadratura, le credenze e le esperienze passate che hanno permesso di trovare loro nel presente un’ottima intesa, armonia di intenzioni e di idee?
Agnès Varda porta quell’inconfondibile pettinatura a caschetto dalla svolta identitaria, quando a diciott’anni, avviandosi nella sua carriera artistica, cambiò nome da Arlette ad Agnès. Inizia come fotografa al Théatre national populaire di Parigi, alla fine degli anni Quaranta, in una città allora devastata dal trauma della guerra e della recente invasione tedesca. Ha studiato all’École nationale supérieure des beaux-arts, e con uno sguardo educato anche alla bellezza dell’arte pittorica e scultorea continua a rintracciare con il suo obiettivo fotografico frammenti di poesia nelle persone e nelle memorie che le rendono quello che sono. Pur non avendo cultura cinefila né esperienza pregressa nel campo, nel 1954 si lancia in un primo film, La Pointe-Courte, il cui carattere innovativo, fresco e indipendente anticipa la ventata rivoluzionaria della Nouvelle Vague. Tenendosi fuori dal cinema commerciale di ingenti e facili profitti, si auto-produce con Cine-Tàmaris, il cui logo felino tornerà nella sua filmografia fino all’ultimo Visages, Villages. Fa un uso di attori professionisti e non professionisti, tra la gente del luogo, il piccolo villaggio Pointe-Courte, e un Philippe Noiret ancora giovane, tra riprese documentarie e fiction, vagamente affine con il decennio di neorealismo italiano che si volgeva alla sua conclusione. La Pointe Courte arriva ben cinque anni prima degli esordi di Godard, Truffaut, Chabrol. E la sua creatrice, una mosca bianca, donna in mezzo a un’ondata cinematografica di soli uomini, intreccerà la sua carriera e biografia personale con grandi nomi del movimento e farà spesso loro omaggio nella sua opera, ma preferirà non ascriversi ad alcuna corrente artistica definita. Alternerà nella sua carriera florida e appassionata film narrativi e documentari con un approccio sempre personale, originale, continuando dopo Le Pointe Courte a ibridare le due aree cinematografiche. Si ricordano Cléo de 5 à 7 (1962), Le Bonheur (1965), Black Panthers (1968), L’un chante, l’autre pas (1977), Sans toi ni loi (1985), Les glaneurs et la glaneuse (2000) e Les plages d’Agnès (2008), documentario autobiografico in cui Varda racconta la propria vita e la propria esperienza artistica. La sua è una macchina da presa itinerante, che inquadra, fondendo intimamente paesaggio e individui, sia un ambiente urbano, come in Cléo de 5 à 7, sia un ambiente rurale, ad esempio in Sans toi ni loi, Les glaneurs et la glaneuse e infine in Visages, Villages. Sempre affamata di avventure, nuovi incontri, nuove storie e nuovi volti, vota il suo operato davvero allo scovare l’inesauribile varietà di esperienze umane, le soggettività altrui, che possono guardare a uno stesso oggetto con punti di vista ben diversi. Ad esempio in Sans toi ni loi la personalità atipica di una giovane senzatetto è rifratta nello sguardo dei tanti individui che incontra, che entrano in relazione con la sua enigmatica diversità e inevitabilmente riflettono e mettono in discussione sé stessi, le loro credenze e la loro condotta. Varda poi è sempre capace di stupore e di curiosità per i mille modi in cui gli altri possono arrangiare la propria quotidianità con risorse creative, specialmente quando appartengono classi sociali ai margini. In Les glaneurs et la glaneuse si condensa un’idea di cinema e di vita, partendo dal significato del verbo glaner, traducibile in italiano come spigolare. Il termine fa riferimento quindi al raccogliere i resti dopo una prima mietitura di cereali, ma Varda allarga sempre di più la propria attenzione, mostrando le disparate attività di chi raccoglie gli scarti dei processi di selezione industriale nelle coltivazioni, che siano di ortaggi, frutti oppure, come nel caso dei senzatetto, i rifiuti degli altri. Come i suoi soggetti di interesse partono in cammino per scovare l’utile, il buono in quello che gli altri si sono lasciati dietro, Varda così esplora il mondo, s’intrufola e rovista nelle vite altrui con una volontà di collezione, di raccolta molto simile. Così anche in Visages, villages sfugge dai principali canali urbani per addentrarsi di nuovo nell’inappariscente, in villaggi poco conosciuti e esperienze che altrimenti rimarrebbero ignote agli spettatori. Con il suo collega JR condivide quindi non solo la professione fotografica (Varda non ha mai smesso di praticarla), ma una peculiare passione per il collage, con il significato che si porta dietro: l’idea di raccogliere l’eterogeneo, ricucirlo in un’idea, un filo connettore, e dare a questi collage il valore di souvenir, una memoria pescata nel mondo inter-soggettivo e portata poi con sé.
JR è chiaramente uno pseudonimo, che nasconde l’identità reale di Jean René. Se Varda è nata nel 1928, JR è nato ben quarantacinque anni dopo, nel 1983, tuttavia inizia nella sua carriera artistica sempre a Parigi. Sin dall’adolescenza disegnava graffiti e si dedica ancora ora a un’arte murale. All’inizio si concentra sulla periferia parigina, realizza Portrait d’une Géneration tra il 2004 e il 2006, ovvero ritratti giganti di giovani sui muri del quartiere popolare Les Bosquets a Montfermeil, un progetto presentato prima illegalmente e poi invece accolto dal municipio della città, che decide di esporre le foto di JR anche sui propri edifici. L’artista quindi si allarga, cominciando a viaggiare e raccontare anche altre realtà, spesso oppresse. «Ho la più grande galleria d’arte al mondo: i muri del mondo intero. Così richiamo l’attenzione di quelli che non frequentano abitualmente i musei». Lascia la propria arte negli edifici del Brasile, Sierra Leone, Kenya, India, Cambogia, Israele, Giappone, Inghilterra e così via. Con una vocazione umanitaria, spiccatamente civile, sempre intento a scovare la bellezza nel mondo e mostrarla anche agli altri, non poteva che trovare nella collaborazione con Agnès Varda una fonte artistica zampillante. La cineasta d’altronde aveva già mostrato interesse verso l’arte murale in un documentario dedicato, Murs murs (1981).
I due così partono per la Francia rurale su un pittoresco camion di JR, funzionante come una cabina per fototessere, ma di formato gigante. Se in Les plages d’Agnès Varda diceva che aprendo le persone vi si trovano luoghi, qui i due artisti intendono omaggiare gli altri nei luoghi di loro appartenenza, attraverso gigantografie negli edifici dei loro villaggi. Si abbraccia allora di nuovo l’etica del fare arte in mezzo alla gente, non nei luoghi istituzionali e museali. Questa immersione però non è neutra, specialmente per Varda. Varda non ha intenzione di rivolgersi ai suoi intervistati con sguardo neutro, analitico, poiché ritiene impossibile che la forma documentaria sia interamente veritiera. È eloquente il titolo di un suo film, Documenteur (1981), dove menteur significa bugiardo. Pur cercando di restituire attraverso la macchina da presa sul volto e sulle attività degli altri la persona filmata nelle sue peculiarità, si dà altrettanto genuina e sincera all’obiettivo, alternando le storie dei locali con scene dedicate ai due registi: aneddoti personali, conversazioni, momenti di quieta contemplazione del luogo e di riflessione sui racconti appena sentiti. Si apporta infatti la soggettività osservante dell’artista. Il collage è per sua natura composto dall’artista, che vi inserisce allora un ordine, una selezione. Filmare poi è costruire, e Varda gioca insieme a JR sull’idea di vestire dei ruoli (JR dice scherzosamente «Stai recitando la nonna saggia» e Varda risponde «E tu stai recitando l’uomo giovane e di spirito libero»). La distinzione quindi tra fiction e non-fiction non è definitiva, dove anche Visages, Villages prevede una forma di performance. Una performance che spesso per immortalare foto dei soggetti incontrati ricorre proprio alla posa, e nel caso più cinematografico, di immagini in movimento, a una coreografia. E se to play, come jouer, hanno il doppio significato di recita e gioco, Varda e JR abbracciano totalmente questa duplicità, perché Visages, Villages è condotto con delicata e frizzante leggerezza.
Come accadeva in Cléo de 5 à 7, di fronte alla morte si riscopre proprio la possibilità di planare sulla vita con leggiadria, lasciarsi serenamente guardare e avere uno sguardo poetico su cose e persone. La piccola Agnès però non vede più bene, ma rielabora con un sorriso anche la sua condizione precaria, segnata dall’età, e la converte in arte. Lascia che JR coordini una serie di attori, persone prese di nuovo dalla strada, non professionisti, per ricreare nella realtà fenomenica la sua percezione visiva. Lettere sorrette in scala prospettica e progressivamente sfocata, che ballano. Tornano anche scene di Les glaneurs et la glaneuse, di un corpo invecchiato ripreso senza timore e nei suoi dettagli nodosi, rugosi, osservato come si potrebbe scrutare le pieghe di un curioso animale. Questi cambiamenti corporei trovano allora una conciliazione con l’armonia di Varda, che pure già in Les plages d’Agnes diceva di aver imparato ad apprezzare le immagini sfocate, perché sono quelle più vicine alla memoria. Qui si inserisce una nota commovente del rapporto con JR, che a questa «nonna saggia» ricorda l’amico Jean-Luc Godard. Entrambi infatti rifiutavano di togliere i propri occhiali e mostrare i loro veri occhi. C’è allora una differenza importante in questa strana coppia, ovvero che JR teme di farsi guardare, scrutare, si scherma con un velo, una maschera, allo stesso modo in cui in una parte finale l’amico Godard si sottrarrà ad un importante incontro e così ai piani avventurosi di una regista che costruisce il proprio film, dando invece una propria arbitraria svolta narrativa. Tuttavia l’amicizia e la cura reciproca porta JR sulla strada di Agnès, scegliendo di concedersi al suo sguardo, di dare un frammento di biografia personale attraverso l’incontro con sua nonna. Si ribadisce che non basta donare bellezza e arte agli altri, ed è necessario investire il film di una certa apertura personale, esporsi. JR riteneva che fosse futile questa insistenza da parte della collega, che si stesse cercando di lavorare e questa fosse un’interferenza, eppure una resa, un ripensamento è stato accennato. Tuttavia ancora prima di ciò si tratta del regalo di un amico a un’amica. Si crea un altro parallelo: Godard decenni prima aveva fatto un’eccezione per Agnès, recitando in suo corto insieme alla compagna Anna Karina in Les fiances du Pont Macdonald senza occhiali, e JR qui in Visages, Villages se li toglie soltanto per lei, in una breve scena. Varda significativamente lo vede sfocato, eppure dice «io ti vedo», dentro di sé percepisce l’intimità di lui. Il film riporta ancora un’immagine sfocata, di nuovo lontana dall’obiettivo neutro, non scavalcante i limiti del regista, anzi, a suo servizio. JR regala a Agnès anche dettagli di lei in gigantrografia, i suoi piedi e i suoi occhi incollati su un treno, cosicché l’artista possa dare a un altro artista la possibilità di viaggiare, vedere idealmente oltre la morte, disvelando altri visi e villaggi.
Varda e JR però sono d’accordo sin dal primo ritratto in un’attenzione comune ancora per disoccupati, operai, cameriere e altra umanità proletaria, che a loro volta si arrendono alla generosità di un ritratto in vasta scala che li omaggi, talvolta con gratitudine commossa. Si immortalano storie semplici, di resistenza, di quotidianità ancora vivace, immaginativa. La sensibilità di Varda, ormai conosciuta alla storiografia cinematografica, si conferma, e così anche quel riguardo attento e sempre curioso, vivo verso le donne, specialmente nel momento in cui propone i ritratti di tre donne lavoratrici, che facciano sentire loro non solo il proprio valore umano e anche rappresentativo, ma diano loro la possibilità di librarsi a nuove altezze. Restituire alle donne libertà, che sia in forma politica o forma poetica, è stata una battaglia continua della cineasta. Si era già manifestata nella satira mordace di Le bonheur, ma anche nella vita, unendosi ai movimenti femministi dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, specialmente in relazione ai diritti riproduttivi, alla sessualità femminile, come si racconta in Les plages d’Agnès, ma anche nel corto Réponses de femmes (1975), dove pure si parla del diritto di aborto e che cosa significhi essere una donna. In tutta la sua filmografia Varda si dimostra figlia coraggiosa del suo tempo, mostrando anche la bellezza di un corpo nudo, sia maschile che femminile. E omaggia i decenni storici da lei vissuti attraverso l’opera dei suoi colleghi e amici, in particolare rivive Bande à part di Godard, facendosi trasportare su una sedia a rotelle da JR con ironia e con la spensieratezza di due bambini.
Varda è una poetessa moderna
Pure densa di ricordi, memorie e omaggi votati a una vita di intimo collezionismo, si comprende ormai come la donna dal caschetto colorato e brioso non sia inchiodata al passato. Conferma la sua modernità in linea con JR, intuendo bene una relazione con l’immagine di sé tutta contemporanea, dove la camera frontale, il selfie, l’autoritratto e il ritratto pullulano nei media, pur conferendo a quest’operazione di iscrivere volti nei luoghi visitati un significato artistico non effimero, svuotato di senso o cura. Visages, Villages è anche una perfetta opera testamentaria, una possibile chiusura perfetta, di sorprendente, energica lievità.