Nel tardo pomeriggio del 7 Aprile, Douma, città siriana allora in mano a un numero compreso tra 5.000 e 8.000 islamisti di Jaish Al Islam, è stata oggetto di un attacco a base di armi chimiche. L’attacco si è svolto mediante l’utilizzo di gas cloro che non è di per sé vietato dalle convenzioni internazionali (come lo è il gas mostarda o il Sarin), ma si trova all’interno di una sorta di zona grigia in cui ne è punito l’uso a scopo di offesa. Tale status particolare è dovuto, in ultima analisi, al fatto che il gas cloro è spesso utilizzato nel corso di processi industriali di vario tipo. La responsabilità dell’attacco è stata ricondotta al regime di Damasco sulla base di report prodotti dall’intelligence francese e da quella britannica.
In particolare, il DRM (Direction du Reinsegnement Militaire), che fornisce a Parigi intelligence sui teatri d’operazione in tutto il globo, ha prodotto una serie di evidenze quali le analisi dei numerosi video spontaneamente apparsi sui vari siti specializzati e sui social network, le testimonianze dei sopravvissuti (la gran parte dei quali è riparata in Libano) e delle organizzazioni sanitarie presenti in loco (come la Union of Medical Care and Relief Organizations) e l’analisi delle operazioni militari compiute dal governo di Damasco in quelle ore. Al termine della disamina le prove raccolte indirizzano con un certo grado di sicurezza verso il regime di Damasco quale principale responsabile dell’offensiva.
Immediatamente dopo l’attacco è arrivata la condanna da entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico, alla quale è seguito subito lo smarcamento delle posizioni da parte sia siriana che russa. Tale tentativo di discolparsi da parte russa (che risulterebbe direttamente responsabile in quanto primo alleato del regime di Assad) è avvenuto in modalità alquanto confuse e contraddittorie: se la posizione di Mosca e Damasco è che non vi sono stati attacchi a base di armi chimiche, ecco che subito dopo la controffensiva statunitense la portavoce del ministero degli esteri russo, Maria Zakharova, ha detto in conferenza stampa che l’attacco americano si è verificato al solo scopo di cancellare le prove (ammettendo quindi l’avvenimento di un attacco), salvo tornare sui propri passi e riaccodarsi alla narrazione principale di Mosca. In tutto questo Teheran ha da subito incolpato i ribelli ipotizzando una sorta di “auto-attacco” o attacco operato da potenze terze al fine di provocare l’intervento statunitense. Gli ispettori presenti a Douma arrivati negli immediati giorni successivi sono stati accolti dal fuoco ostile, sebbene in zona (per stessa ammissione dei governi di Damasco e Mosca) fossero presenti solo unità fedeli ad Assad.
La tesi del “non attacco” vanta diversi sostenitori tra coloro che supportano Assad, che a sostegno dell’ipotesi portano la circostanza che un’enclave accerchiata non necessita di un attacco a base di gas per essere ripresa, specie considerando la disparità di forze in campo tra ribelli e l’esercito governativo che, nell’immaginario dei sostenitori di Assad, è una forza armata di capacità simili a ogni altro esercito del mondo. La verità non è propriamente questa: dopo sette anni di conflitto Damasco non dispone più di un esercito regolare, ma solo del fantasma di esso. Se già nelle primissime fasi della guerra una vasta parte delle forze armate aveva disertato a beneficio dell’FSA, dopo tutti questi anni la maggior parte dei soldati è morta, ferita o ha disertato. Per ovviare a questa problematica mancanza di manpower, oltre a cercare nuove reclute forzate casa per casa, Damasco sta riarruolando e rispedendo al fronte tutti i combattenti che riesce a catturare, con seri problemi di efficacia degli stessi una volta in combattimento. Assad si trova a dover fare i conti con un serio problema di tempistiche (desiderando porre termine alle ostilità il prima possibile) e con l’essere costretto a dover tramutare gli obiettivi militari in successi diplomatici da poter rivendere quando si tratterà di dover stabilire le condizioni della pace.
L’altra tesi, che abbiamo visto essere supportata anche da Teheran è quella del false flag, a beneficio della quale non esiste una singola prova. Oltre a questo è necessario anche considerare che il novero di scenari che confermerebbero tale teoria non coinvolge solo i ribelli, ma anche agenti esterni (agenti delle intelligence inglesi e francesi) che sarebbero dovuti entrare muniti di tute e maschere antigas in una delle aree più sorvegliate al mondo e bombardata ininterrottamente dagli aerei pro-regime sulla quale vige una no fly zone. Al termine dell’operazione avrebbe dovuto anche estrarre gli agenti riportandoli al sicuro. L’intera ricostruzione sembra alquanto debole e improbabile. In caso di attacco interno, invece, appare subito drammaticamente chiaro come chiedere a dei combattenti di morire soffocati dal gas insieme alle proprie famiglie, specie dopo che gli attacchi precedenti non hanno provocato reazioni di livello tale da far cambiare la guerra, sia alquanto irrazionale e da non considerare ai fini della ricostruzione.
Quali motivazioni spingerebbero il regime di Damasco ad un’offensiva tanto cruda e tanto pericolosa dal punto di vista della situazione internazionale? Oltre a quella pressante e già citata della scarsità di uomini che stanno combattendo per Assad e alla necessità di chiudere in fretta con il conflitto, vi è anche uno scopo di tipo prettamente psicologico. Secondo la dottrina di Assad l’eventualità di dover ricostruire uno stato partendo dalle macerie è inapplicabile nel caso in cui la volontà degli avversari non sia completamente annichilita e questo è legato molto probabilmente anche alla profondità e alla durezza delle linee di faglia che attraversano la Siria.
La ricomposizione di una nazione dopo lo scenario di guerra civile può avvenire in moltissimi modi: per l’Italia contò moltissimo l’elaborazione del ventennio precedente, mentre nel caso Sudafricano fu fondamentale la Commissione per la Verità e la Riconciliazione presieduta dal vescovo Tutu, che aveva il compito di rielaborare le diverse testimonianze, raccogliere le confessioni dei colpevoli (da entrambi i lati) e mettere in contatto i vari attori di quel conflitto. Nel caso siriano gli ostacoli a uno scenario di questo tipo sono molteplici, in primo luogo proprio il desiderio di Assad di voler piegare a tutti i costi i propri avversari e quanti non gli sono fedeli, cercandone la capitolazione. La Siria e la famiglia Assad non sono nuovi a ragionamenti di questo tipo: nel 1982, quando la rivolta dei Fratelli Musulmani era già stata praticamente sedata, il padre di Bashar Hafez chiese al fratello che guidava alcuni settori dell’esercito di radere al suolo un terzo della città di Hama mediante un intenso bombardamento d’artiglieria. Solo per quell’attacco il numero di morti stimato fu tra i 10.000 e i 40.000: è questo il motivo per cui ci sono volute altre due generazioni prima che una nuova ribellione scoppiasse contro la famiglia Assad.
Successivamente all’offensiva siriana con il gas si è avuta la controreazione della coalizione guidata dagli Stati Uniti: nella notte tra il 14 e il 15 Aprile, 120 tra missili e bombe sono stati sganciati su tre obiettivi situati sul territorio della Repubblica Araba di Siria. Il numero è doppio rispetto all’offensiva di risposta ai fatti di Khan Shaykhoun del 4 Aprile 2017, sebbene vi sia grande incertezza sul numero di ordigni andati a segno: mentre per il Pentagono tutti i missili hanno colpito il proprio obiettivo, i russi parlano di 71 missili abbattuti su 103 e l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha indicato 65 vettori distrutti prima del contatto.
L’offensiva si è concentrata su tre obiettivi in qualche modo legati allo sviluppo e all’uso di armi chimiche: un centro di ricerca a nord di Damasco, un centro di comando e un deposito per lo stoccaggio delle armi chimiche situati entrambi presso Homs. Il computo totale dei feriti ammonta a tre civili che si trovavano nelle immediate vicinanze della base colpita presso quest’ultima città. L’offensiva ha visto la partecipazione anche di alcuni missili (gli Storm Shadow) e cacciabombardieri britannici decollati dalle basi cipriote, e delle forze aeronavali francesi che hanno contribuito con dodici vettori, nove dei quali lanciati dai caccia multiruolo e tre dalle fregate poste di fronte alle coste siriane. Il Pentagono ha confermato che l’attacco ha notevolmente ridotto la capacità siriana di usare armi chimiche, avendo quindi pienamente raggiunto il suo obiettivo.
L’avvenimento ha comprensibilmente scatenato le ire di buona parte dei commentatori internazionali che ne hanno travisato le finalità: la prima è quella di distruggere la capacità di utilizzo delle armi chimiche da parte del regime siriano in ossequio alle risoluzioni già citate. La seconda finalità è quella di evitare la banalizzazione dell’uso delle armi chimiche facendo passare il messaggio che il loro utilizzo sui campi battagli della Siria come di tutto il mondo avrebbe comportato una durissima lezione per l’offesa. Assad ha imparato la lezione? Probabilmente no. E la ricostituzione delle capacità belliche dell’esercito siriano dal punto di vista chimico avverrà nel giro di poco tempo, probabilmente anche con l’aiuto di Teheran e di Mosca.
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