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Arancia meccanica: distopia e realtà

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Alfonsa Laonigro

«Quando un uomo non può scegliere, cessa d’essere un uomo».
L’autodeterminazione, l’esercizio del libero arbitrio, è innegabilmente uno dei diritti fondamentali dell’individuo. Ma cosa avviene quando questo diritto si scontra con l’esigenza di tutela dell’ordine sociale? Fino a che punto può spingersi l’ingerenza dello Stato nel controllo della libertà individuale, in nome di un bene superiore quale la sicurezza pubblica? È questo il cardine dell’opera più conosciuta di Anthony Burgess, Arancia meccanica, pubblicata nel 1962. Il romanzo si inserisce nel filone della letteratura distopica, che annovera capolavori come 1984 di George Orwell e Il mondo nuovo di Aldous Huxley. Del resto è lo stesso Burgess, in una lettera al Los Angeles Times del 1972, ad affermare: «Se Arancia meccanica, così come 1984, rientra nel novero dei salutari moniti letterari (…) contro l’indifferenza, la sensibilità morbosa e l’eccessiva fiducia nello Stato, allora quest’opera avrà qualche valore». Il protagonista della vicenda di Burgess, Alex, presenta in effetti una fondamentale analogia col Winston Smith di orwelliana memoria: l’essere soggetto a un condizionamento psicologico volto a modificare il suo atteggiamento nei confronti dell’ordine costituito. Perché? Per capirlo, occorre fare un passo indietro, e capire chi sia davvero Alex DeLarge.

Malcolm McDowell nella sequenza d’apertura di A Clockwork Orange (1971).

La caratterizzazione del personaggio – apparentemente banale, ma in realtà complessa e sfaccettata – è frutto tanto dell’idea originale di Burgess quanto del prezioso contributo di Stanley Kubrick, che firma la trasposizione cinematografica del romanzo [A Clockwork Orange, 1971]. Senza Kubrick, infatti, Alex non avrebbe avuto un cognome, né le sembianze e gli atteggiamenti che l’hanno reso un cult del cinema contemporaneo; tuttavia, sottolinea Burgess, «in termini filosofici, nonché teologici, l’arancia di Kubrick è frutto del mio albero». È vero. Già il primo Alex, protagonista del romanzo, appare per ciò che è: la personificazione del male. Un ragazzo di quindici anni la cui cattiveria è una scelta consapevole, anzi, «un’impresa personale», e non l’esito di una corruzione morale imposta dall’esterno. Alex non ha subìto traumi, non è stato traviato: egli è essenzialmente, intrinsecamente malvagio, e rivendica il suo diritto a esserlo. Tutt’altro che un personaggio positivo, dunque; e tuttavia egli «suscita una strana identificazione psicologica», come ammette Kubrick in un’intervista. Perché? Perché Alex rappresenta il nostro inconscio. La nostra parte più oscura. Ciò spiega, secondo il regista, il motivo per cui Arancia meccanica è un’opera che si odia o si ama. Chi prova un senso di repulsione nel leggere il romanzo o guardare il film, è chi, «per ingenuità, per scarsa preparazione psicologica o incapacità emotiva», non sa accettare una verità tanto semplice quanto terribile: in ognuno di noi si cela un mostro, un atavico istinto di violenza cui la psicoanalisi ha dato il nome, appunto, di inconscio. Chi apprezza, invece, l’opera di Burgess e Kubrick è chi ha saputo scendere a patti con questa realtà, accettarla, farla propria, e godere dunque di questa sua pittoresca, geniale, coloratissima trasposizione allegorica.

Locandina originale del film (1977).

Alex, dunque, è radicalmente e irrimediabilmente cattivo. La scelta di caratterizzarlo in tal senso, rivela Kubrick, serve a evidenziare in maniera netta e inequivocabile la gravità di ciò che gli è stato fatto; solo così «ci si accorge che si tratta di un’azione profondamente immorale, anche ai danni di una creatura simile». Vediamo allora di cosa si tratta. Ma prima, uno sguardo retrospettivo sulla vita e le abitudini del protagonista renderà chiaro cosa egli abbia fatto per meritare una simile pena.

Alex e i suoi compari, i Drughi.

Alex, giovane delinquente e capo di una banda di teppisti, pratica il pestaggio, la rapina e lo stupro per mero diletto. Nutre una forte passione per la musica da orchestra – in particolare per Beethoven, che ispira i suoi sogni di violenza – e si esprime in un lessico giovanile scarsamente comprensibile ma molto raffinato. Una notte, intento a compiere una delle sue prodezze, si rende colpevole di omicidio preterintenzionale: la condanna è di quattordici anni di carcere, ma ne sconterà soltanto due. Al termine del secondo anno di prigione, infatti, Alex diviene uno dei soggetti sperimentali della cosiddetta Tecnica Ludovico: un trattamento rivoluzionario, che promette di trasformare il criminale più efferato in un bravo cristiano e un onesto cittadino. Il come, però, è tutto da vedere; letteralmente. Alex, infatti, si trova costretto ad assistere a una serie di proiezioni cinematografiche, legato mani e piedi a una poltrona da dentista e con gli occhi tenuti aperti da un ferma-palpebre. Questi «film molto speciali», come li definisce il dottore che lo ha in terapia, non sono altro che rappresentazioni delle violenze più atroci: proprio quei pestaggi, quegli stupri a cui Alex era così abituato e che lo riempivano di una gioia perversa. Dopo quindici giorni di trattamento, Alex è un uomo nuovo: la sola idea di compiere un atto violento gli provoca atroci spasmi in tutto il corpo, una fortissima nausea e un desiderio di morte, che scompaiono solo se l’istinto aggressivo lascia il posto a un comportamento affabile e cortese, talora servile.

Una così radicale trasformazione è dovuta al cosiddetto «condizionamento marginale»: un meccanismo psicologico basato sulla associazione – negativa, in questo caso – di uno stimolo con un sintomo. Nei primi giorni di trattamento, infatti, Alex aveva subito una serie di iniezioni ipodermiche contenenti un farmaco che provoca senso di paralisi, spasmi e terrore: sintomi che egli avverte mentre assiste ai film horror, e che poi avvertirà automaticamente in presenza dei film stessi, senza che gli sia somministrato nulla. «Si tratta di associazione, il più vecchio metodo educativo del mondo». Peccato che, in tal modo, sia solo l’organismo di Alex a rigettare istintivamente la violenza, senza che la sua volontà sia in alcun modo coinvolta. Qui si pone il quesito morale cardine dell’intera vicenda: «Un uomo che sceglie il male è forse in qualche modo migliore di un uomo cui è stato imposto il bene?». Gli autori dell’opera non hanno dubbi in tal senso, ed è lo stesso Burgess a sottolinearlo: «La mia parabola e quella di Kubrick vogliono affermare che è preferibile un mondo di violenza assunta scientemente – scelta come atto volontario – a un mondo condizionato, programmato per essere buono o inoffensivo». Alex è infatti «una vittima dell’epoca moderna», e lui stesso ne è consapevole: dinanzi all’orgoglio di politici e burocrati, fieri di aver trovato un rimedio alla delinquenza – e, di riflesso, alla piaga del sovraffollamento delle carceri – urla disperato: «E io? E a me non chiedete nulla? (…) Devo forse essere soltanto un’arancia meccanica?». E l’arancia meccanica non è altro che la metafora dell’uomo moderno: da fuori nient’altro che un uomo comune, un’arancia come tante; da dentro, un pericoloso congegno a orologeria programmato dal governo per i propri scopi, predeterminato ad agire in modo irreprensibile nonché funzionale ai bisogni dello stato.

Una delle sedute della Tecnica Ludovico.

Come’è possibile allora, in un simile scenario, nutrire una qualche fiducia nei confronti delle leggi e della politica? Come si può scegliere con convinzione di essere bravi cittadini, elettori responsabili, ingranaggi ben oliati della macchina sociale, se la strumentalizzazione è dietro l’angolo? Ha senso tenere a freno i nostri più atavici istinti, se a chiederci di reprimerli è chi mira a impiegarli a proprio vantaggio? La risposta è: sì, purché si sia capaci di gestire chi ci gestisce. «Penso che l’establishment», afferma Kubrick, «vada tenuto sotto controllo, e che dobbiamo tenerci pronti a lottare contro di esso». Per lottare, tuttavia, occorre essere individui liberi e razionali.

Secondo alcuni critici, la Tecnica Ludovico costituirebbe una rappresentazione allegorica del mito platonico della caverna. Alcuni prigionieri, incatenati in una caverna, sono costretti a osservare sulla parete di fronte a loro un susseguirsi di ombre: le ombre delle cose, che i prigionieri, non avendo mai conosciuto il mondo esterno, credono essere le cose reali. Lo stesso accade ad Alex, vittima del condizionamento marginale: soggetto a un vero e proprio “lavaggio del cervello”, identificherà la violenza cinematografica con quella reale, comportandosi di conseguenza. Arancia meccanica, come ogni romanzo distopico, è un’allegoria, ma al tempo stesso un monito: il suo obiettivo è mettere in guardia il lettore dal pericolo di subire, in maniera più o meno diretta, condizionamenti analoghi. Un pericolo, in effetti, tangibile, se si pensa alle strategie comunicative di cui l’establishment si serve concretamente per direzionare l’opinione pubblica, specie in campagna elettorale. L’opera di Burgess – e di Kubrick – è infatti un’opera politica. Distopica, sì: ma reale.

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Alfonsa Laonigro

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