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La morte di Aldo Moro, quarant’anni dopo

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Davide Finazzi

9 maggio 1978, un nodo cruciale per la storia italiana:  quel giorno viene ritrovato il corpo di Aldo Moro, a conclusione della lunga agonia iniziata 55 giorni prima. Il 16 marzo le Brigate Rosse rapiscono lo statista in via Fani, a Roma, sterminando i cinque uomini della sua scorta. I terroristi annunciano di aver portato il prigioniero in una “prigione del popolo” e di volerlo sottoporre a processo. Il Paese è diviso fra il fronte della fermezza e della trattativa, tra chi vuole cercare di salvare lo statista ed evitare una sconfitta morale per la collettività la sua morte, e chi non ammette la possibilità di dare riconoscimento a un gruppo terroristico, considerando anche questa una sconfitta inaccettabile, anche perché era in gioco uno “scambio di prigionieri” tra il politico democristiano e tredici terroristi incarcerati. Alla frammentazione politica si aggiunge quella dell’opinione pubblica e già in quei giorni le istituzioni sono accusate di mascherare con la fermezza la volontà di non salvare il prigioniero: un sospetto che continua a fare discutere.

L’imponente dispiegamento delle forze dell’ordine e dell’esercito non porta ad alcun risultato, contribuendo al senso di impotenza dell’opinione pubblica. Infine, dopo che ogni tentativo di trattativa è naufragato, le Brigate Rosse dichiarano conclusa la battaglia: la sentenza del loro processo è la morte. Il corpo senza vita di Aldo Moro è fatto ritrovare in Via Caetani, a Roma.

Aldo Moro è una figura chiave di quel periodo. Membro della Democrazia Cristiana fin dalle origini, eletto all’Assemblea Costituente, più volte parlamentare, ministro e presidente del Consiglio, nel corso degli anni ’70 è impegnato in qualità di presidente del partito nella lunga e difficile trattativa del compromesso storico con il segretario del partito comunista Enrico Berlinguer. L’accordo, che prevede di far partecipare gradualmente i comunisti al governo, ha un obiettivo comune a entrambe le formazioni politiche: rendere più stabile la democrazia italiana, che in un periodo di scontri sociali, oscillazioni economiche e terrorismo sembra quanto mai fragile. Moro ha la seria preoccupazione di rendere più solide le basi di una democrazia nata da poco, con alle spalle l’esperienza fascista e che sembra oscillare tra il caos e il rischio di svolte autoritarie. Per questo vuole l’instaurare una reale alternanza tra la Democrazia Cristiana e il Partito comunista, se non portando al governo quest’ultimo, perlomeno dandogli l’effettiva possibilità di arrivarci.

Berlinguer e Moro, i due principali fautori del compromesso storico, nel 1977 (©LaPresse Archivio Storico Politica)

Il progetto del compromesso storico d’altronde incontra forti opposizioni, ed è proprio nel giorno in cui dovrebbe finalmente passare a una fase più matura, con il voto di fiducia comunista al governo Andreotti, che Moro viene rapito.

Le Brigate Rosse, una delle organizzazioni terroristiche più forti degli anni piombo, scelgono Moro non a caso, proprio per la sua importanza politica come membro di spicco della Democrazia Cristiana: il loro scopo è colpire la DC in quanto considerata partito-stato.

Il sequestro di Aldo Moro avviene in un momento in cui i servizi sono in fase di riorganizzazione, e non sono quindi pronti a operare al meglio. Lo smacco subito costringe lo stato a reagire: vengono ricostituiti rapidamente i NOCS del generale Dalla Chiesa, sciolti l’anno prima che portano a segno diverse operazioni di successo contro le BR; nel 1979 è introdotta la legge sul pentitismo, che garantisce forti sconti di pena ai terroristi che collaborino con la giustizia. Nel giro di pochi anni grazie a queste misure le formazioni eversive vengono stroncate: a metà anni ’80 gli anni di piombo possono dirsi conclusi.

Le conseguenze politiche dell’omicidio furono inevitabili. Cossiga, ministro dell’interno, dovette dimettersi. Il governo di solidarietà nazionale, data la gravità della situazione, proseguì per alcuni mesi. La corrente democristiana contraria all’accordo, e soprattutto a includere i comunisti nel governo, prese sempre più forza, finché nel gennaio del 1979 il PCI decise di uscire dalla maggioranza.

Durante la crisi del sequestro era emerso come esponete di spicco del fronte della trattativa il segretario del partito socialista Bettino Craxi. Negli anni Ottanta fu tra i protagonisti del pentapartito, la grande coalizione di socialisti, democristiani e partiti minori che resse il paese in alternativa al compromesso storico.

Non è infrequente far risalire ai concitati giorni del sequestro Moro la crisi di fiducia e autorità dei partiti che è poi deflagrata nel 1992 con lo scandalo di Tangentopoli, portando a un radicale cambiamento dell’assetto politico.

Nel corso degli anni a Moro sono state dedicate vie, piazze, scuole, università, opere d’arte, come a volerlo trasformare in una sorta di eroe civile, nel tentativo di ricomporre la dolorosa ferita che ha accompagnato la sua scomparsa. Il rischio è quello di dimenticare la figura dello statista, di appiattirla, dimenticandosi che Moro è stato un professore, un analista delle dinamiche giovanili e del 68. Dimenticandosi anche che durante la sua carriera era spesso oggetto di satira per il suo linguaggio considerato troppo complesso, quasi incomprensibile. D’altro canto, il fatto che molti brigatisti del commando siano liberi, e le dichiarazioni di pessimo gusto di quelli che non si sono mai dissociati, fanno sempre discutere. Tutto questo ci fa capire che il conto con gli anni di piombo e le loro tragedie non è stato ancora chiuso, anche se in questi quattro decenni le indagini e le inchieste sul sequestro Moro sono state innumerevoli. Dopo quattro processi e il lavoro di due commissioni parlamentari si è creata una ricostruzione dei fatti abbastanza solida, anche se spesso anche le stesse autorità ammettono di non avere la certezza assoluta su alcuni elementi, dovendosi basare eccessivamente sui resoconti dei brigatisti incarcerati.

Mario Moretti (al centro) con altri brigatisti durante il primo processo Moro nel 1983 (da L’Unità)

Nel frattempo, quasi tutti i brigatisti coinvolti sono stati arrestati, anche se molti di loro, grazie alla legge sul pentitismo, sono in libertà; altri sono morti, come Prospero Gallinari e Germano Maccari, a cui le indagini più recenti attribuiscono (come confermò egli stesso) l’esecuzione materiale dell’omicidio insieme all’allora figura di vertice dell’organizzazione, Mario Moretti. Due brigatisti condannati in contumacia sono invece ancora in latitanza. Proprio il fatto che molti brigatisti siano tornati in libertà è un motivo di frequente contrasto e dibattito: nell’opinione pubblica la legge sui pentiti continua a creare uno scontro tra la necessità di fare giustizia e quella, a cui ha assolto in modo efficace, di contrastare l’emergenza eversiva.

Per cercare di ricucire queste fratture sono nati in Italia alcuni progetti di giustizia riparativa, che consiste nell’incontro e dialogo tra le vittime e i colpevoli, con lo scopo di riconciliarli: Agnese Moro si spende da anni per raccontare questa esperienza insieme ad alcuni ex-terroristi, membri del commando che rapì il padre.

L’Italia di oggi è sicuramente molto diversa da quella che seguiva angosciata le vicende della primavera del 1978. Il sistema partitico si è trasformato, è cambiato il mondo del lavoro: il tema più caldo non è la situazione nelle fabbriche, e le grandi manifestazioni operaie che agitavano le piazze sono un ricordo. Ora le grandi sfide sono la disoccupazione e il precariato, in un paese che si è terziarizzato e la cui crescita è molto rallentata. Le mobilitazioni di massa e l’intenso attivismo politico studentesco e giovanile degli anni Settanta non si sono più ripetuti con la stessa forza: il senso di scoramento seguito al caso Moro è uno dei motivi che ha portato al riflusso di molti giovani a partire proprio dalla fine degli anni Settanta. I grandi temi della discussione politica sono cambiati: nuove problematiche come l’immigrazione e i rapporti con l’unione europea polarizzano adesso l’opinione pubblica. D’altronde quarant’anni fa il fenomeno migratorio più rilevante restava quello interno, dalle regioni del sud a quelle del nord, e l’integrazione europea era molto minore rispetto ad oggi: le prime elezioni per il Parlamento Europeo si svolsero nell’anno successivo.

Eppure tante problematiche sembrano riemergere come un fiume carsico. Ad esempio l’incertezza economica, con una crescita che non sembra mai abbastanza solida e continua; l’instabilità politica, con la persistente difficoltà a creare e far durare i governi, anche in uno contesto profondamente mutato. Dopo un ventennio di bipolarismo e legge elettorale maggioritaria che sembravano avere portato una relativa stabilità, lo scenario politico si è nuovamente frammentato a partire dal 2013. I risultati delle ultime elezioni, senza vincitori netti, e l’ultima legge elettorale, prevalentemente proporzionale, hanno inevitabilmente generato paragoni, non sempre opportuni, con la Prima Repubblica. E nella scorsa campagna elettorale la violenza politica, anche se ben lontana dai picchi degli anni Settanta, è certamente stata preoccupante, soprattutto con l’eclatante attentato di Macerata.

Durata dei dieci governi italiani più lunghi. Nessun governo italiano ha mai superato i 4 anni di vita, e la durata media di un governo repubblicano è circa un anno (truenumbers.it).

In questi quarant’anni la democrazia italiana ha certamente tenuto, resistendo ad altri momenti di crisi come la strage di Bologna, le stragi di mafia e la grande crisi finanziaria del 2008. Ma in un momento in cui la fiducia verso le istituzioni è particolarmente bassa la domanda che inquietava Moro rimane attuale: le sue radici sono davvero diventate più solide?

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