«Ti richiamo. Sto seguendo un omicidio e mi hanno appena chiamato dal giornale». La voce dall’altra parte del telefono tradisce più di qualche primavera, ma è ferma, cordiale, gentile. Sempre di fretta, come si impone a chi fa questo mestiere. Sempre e comunque al servizio della notizia. Lui è Mario Proto, e forse ai più questo nome dirà poco. Sarebbe veramente difficile, invece, non essersi mai imbattuti in una sua foto. Reporter del Corriere della Sera, romano, classe 1953, ormai da quasi mezzo secolo Mario racconta l’Italia con i suoi scatti – che hanno accompagnato e incorniciato i più importanti e talvolta tragici momenti del nostro Paese – rimanendo però sempre nell’ombra, schivo, sfuggente.
Lo raggiungiamo al termine di una giornata, ci dice, impegnativa: «Questo mestiere è cambiato tanto. La cronaca è sempre di meno e le notizie sono sempre più difficili da trovare, ad esempio oggi ci hanno informato di un omicidio successo qualche tempo fa, che non si sapeva nemmeno fosse un omicidio. Prima bastava che un marito tornasse a casa e trovasse la moglie a letto con l’amante che scattava il delitto d’onore… oppure le rapine: ora, con tutti questi metal detector, non ce ne sono più. Poi sarà che è la Capitale, sarà che c’è il Vaticano, sarà che è il centro della politica, sarà anche che molte notizie non filtrano per non creare allarmismi, ma Roma è sempre più controllata. Siamo già a tre omicidi che succedono e non ci dicono nulla. Prima la Questura aveva una sala stampa dove facevano stare giornalisti e fotografi in attesa delle notizie, ora è stata chiusa». Ascoltarlo raccontare la propria vita professionale è come immergersi in uno stream of consciousness di ricordi nitidi come le pellicole sulle quali ha impresso istanti che hanno fatto il giro del mondo: sempre con lucidità, prontezza e anche un bel po’ di fortuna. «Ho assistito a talmente tanti fatti che nemmeno li ricordo tutti. Ho iniziato nel 1973, ho visto il terrorismo, gli anni di piombo, la Banda della Magliana che a Roma ha fatto un bel po’ di danni… mi sono divertito. Ho avuto tantissime soddisfazioni personali e ho vissuto tante pagine di storia».
Ecco, la storia. Quella con la s minuscola che incrocia quella con la S maiuscola in un momento ben preciso, una data e un’ora che Mario e tutta l’Italia non dimenticheranno mai. È lui stesso a raccontarlo: «Il 16 marzo 1978 tutta Roma era in fermento. Era il giorno del compromesso storico in Parlamento, l’ordine era andare tutti a Montecitorio e non perdere nemmeno un minuto di quella giornata fondamentale. Ed era proprio lì che mi stavo dirigendo quella mattina, più o meno verso le 9, con la mia 127 rossa. Improvvisamente, mi tagliano la strada una serie di macchine delle forze dell’ordine, sia in livrea che civette, che sfrecciano a gran velocità. Addirittura, mi colpì un poliziotto in borghese che seduto fuori dal finestrino con la paletta bloccava le macchine agli incroci per liberare la strada: non avevo mai visto tanta concitazione. Era chiaro che era successo qualcosa, così feci manovra e mi misi in scia a quelle auto che correvano per il centro di Roma. Sulle prime pensai a uno scontro tra i militanti di destra e quelli di Lotta Continua, il periodo era quello e non era la prima volta che accadeva. Arrivati in via Trionfale mollai la macchina nel primo posto utile e proseguii a piedi, imboccando via Mario Fani di corsa, carico di borse e strumentazione». Fatto qualche metro la scena è impressionante: le auto di Aldo Moro e della sua scorta crivellate di proiettili, cadaveri sull’asfalto, sangue ovunque. Mario capisce subito quello che è successo: «La macchina di Moro, una Fiat 130, era riconoscibilissima. Era un’ammiraglia del tempo, in tutta Roma ce ne saranno state forse al massimo due. Capii subito che si trattava di lui, anche perché ci trovavamo su un percorso che lui faceva sempre per andare a messa al mattino, eravamo nei dintorni di casa sua e io conoscevo bene la zona, ci avevo abitato da ragazzo. Appena arrivai un’ambulanza si stava allontanando a sirene spiegate: pensai si trattasse proprio del Presidente. Pensai che fosse rimasto solo ferito in quella sparatoria e che lo stessero portando via. Per prima cosa, fotografai il corpo dell’agente Raffaele Iozzino riverso a terra, poi mi avvicinai alla 130, calpestando bossoli e vetri rotti, una cosa oggi assolutamente impensabile. Senza poter cambiare le impostazioni della macchina mi avvicinai e puntai attraverso il finestrino frantumato. La foto che scattai, incredibilmente, fu nitida e chiara. Ci misi pochissimo a realizzare di essere l’unico presente sul posto, a quel punto scappai con il primo pensiero di andare immediatamente a “piazzare” il materiale. Quella foto è passata veramente alla storia».
La foto di cui Mario parla è quella, celeberrima, che ritrae l’appuntato Domenico Ricci e il maresciallo Oreste Leonardi, di scorta a Moro, accasciati l’uno sull’altro e già morti. Quella foto che finisce in prima pagina su praticamente ogni giornale e che fa il giro del mondo, raccontando con immediata crudezza il sacrificio estremo degli uomini che tentarono, invano, di impedire il rapimento del Presidente della DC e segnando, di fatto, l’inizio della carriera di Mario Proto. Una foto non priva di implicazioni psicologiche: «conoscevo bene i ragazzi della scorta di Moro. Avevo seguito il Presidente talmente tante volte che ormai si può dire che eravamo diventati amici. Ci incontravamo mentre aspettavo la fine delle riunioni politiche o dei vari incontri nelle segreterie, era inevitabile scambiare quattro chiacchiere. Vederli ridotti in quelle condizioni mi colpì molto».
Mario Proto ha avuto dalla sua la grande intuizione di essere l’uomo giusto al momento giusto nel posto giusto. Come il 10 giugno 1981, quando una telefonata della redazione lo spedì nelle campagne della periferia romana: «Mi chiamarono tipo alle due, le tre di notte, e mi dissero: ‘Vai a vedere che c’è un bambino che è scomparso, stanno iniziando le ricerche’. A Vermicino… aperta campagna…. di notte… un posto che, andando a tentativi e al massimo con il Tuttocittà, capirai…. quando mai avrei trovato? Decisi di aspettare almeno le prime luci dell’alba per vederci qualcosa». La tragedia di Alfredino Rampi si materializza davanti agli occhi di Mario, che segue minuto per minuto, sempre scattando, la drammatica escalation. «Avevano stabilito un contatto radio con il bambino, calando un microfono nel pozzo. Era straziante. C’era il vigile del fuoco Nando, poi diventato famoso, che non si allontanava mai, e c’era il loro capo, il comandante Pastorelli. Tentarono di salvarlo in ogni modo, fino a decidere di scavare un pozzo parallelo con un mezzo civile fatto venire da chissà dove. La trivella a dire il vero il buco lo aveva anche fatto, ma producendo vibrazioni fortissime e incontrando strati di granito. Le provarono davvero tutte, ma Alfredino non ce la fece». L’incidente di Vermicino viene ricordato anche per la prima diretta-fiume della televisione italiana: sembrava inizialmente che le operazioni di soccorso dovessero durare poco e fossero destinate a concludersi con successo, ma il susseguirsi di “cattive notizie” e il pathos che aumentava di ora in ora costrinsero la Rai a non bloccare i collegamenti, dando vita, se così si può dire, a un reality ante litteram. Di certo, a detta degli esperti di comunicazione, il primo esempio italiano della cosiddetta “TV del dolore”. Le foto di Mario raccontano tutta la disperazione di quei momenti: negli occhi dei soccorritori c’è prima speranza e poi frustrazione, mentre la folla attende gli sviluppi sotto un sole che, ricorda lui stesso, picchiava spietato.
«Mentre si era tutti lì in attesa, arrivò il presidente Sandro Pertini. Che persona straordinaria. Sorvolando sulla sua storia personale che è arcinota, era veramente un uomo perbene. Salutava tutti e dava la mano a tutti. Quando durante qualche cerimonia noi ci spingevamo un po’ oltre tentando di fotografarlo e la scorta si allertava, lui li rimproverava: ‘Lasciateli stare! Devono lavorare!’, sempre a nostro favore. Una persona dalla idee chiare, fin da piccolo. Quando era detenuto nel carcere fascista, la madre chiese la grazia e lui la rifiutò…. per dire. Quando succedeva qualcosa lui interveniva in prima persona, sempre. Partiva dal Quirinale e andava a vedere. E così fu a Vermicino, dove rimase in macchina tutta la notte in attesa di capire se Alfredino si sarebbe potuto salvare [come fece anche, appena due mesi dopo, per la strage alla stazione di Bologna, N.d.R.]. Non si mosse mai. Un grandissimo Presidente».
La politica si è spesso intrecciata con la cronaca nera, negli scatti di Mario Proto. Come quella volta che fu l’unico a fotografare Giulio Andreotti, allora novantatreenne, colpito da un malore e portato via in ambulanza dalla sua casa di Roma. Una sequenza di foto semplice eppure straordinaria nella sua unicità, conoscendo il carattere estremamente riservato del politico più discusso e controverso del dopoguerra italiano.
«Onestamente, quella volta lì speravo che schiattasse (ride). La soffiata fu buona, arrivai prima della Polizia e mi nascosi finché non uscì in barella. Abitava di fronte a Castel Sant’Angelo, di fronte c’era una fermata di un autobus, ed ebbi anche modo di scegliermi la posizione migliore per scattare una foto da una posizione perfetta. Le forze dell’ordine fanno di tutto per non fartela portare a casa, ma in redazione mica puoi dire “oh, mi hanno messo la mano davanti all’obiettivo”, devi riuscirci a tutti i costi. E quella volta ci sono riuscito».
Ma vivendo tutti questi drammi, vedendo continuamente morti e sangue (Mario Proto fu anche uno dei primi a entrare nell’appartamento di via Poma, dove era appena stata uccisa Simonetta Cesaroni, e nella villa all’Olgiata, dove la contessa Alberica Filo della Torre era stata orrendamente assassinata) non si rischia di diventare un po’ cinici e insensibili? «Mah… ti dirò… io li ho visti in tutte le salse, non mi manca nessun tipo. Grandi, piccoli, giovani, vecchi… in tutte le maniere. Però mentre lavoro è come se la macchina fotografica mi facesse da filtro, quasi da schermo. Io li guardo tramite l’obiettivo. È solo dopo, quando stampo la foto, che osservo la scena e mi rendo conto dell’avvenimento. Come nel caso della scorta di Moro, che come ho detto conoscevo personalmente. Solo dopo, mentre mi stavo allontanando dalla scena, mi sono fermato a riflettere su quello che era successo a persone che condividevano la mia quotidianità. E mi sono reso conto di quanto fosse stato orribile quello che avevo appena visto. Ma in quel momento no. La professionalità impone di realizzare la foto perfetta e questo è tutto quello a cui penso. Noi siamo dei registratori, dobbiamo documentare, dobbiamo far vedere tutto. Poi selezioni, cercando la formula migliore per presentare il dramma, la morte e la vita delle persone».
Ci sarà stata, in tutti questi anni, una foto che avresti disperatamente voluto fare e non hai fatto perché proprio non ci sei riuscito? «Oh certo, per tornare ad Aldo Moro, il giorno del ritrovamento del cadavere in via Caetani io ci sono stato, ma la foto non sono riuscito a scattarla. Calcola che tutti i famosi cinquantacinque giorni… beh forse tutti no, ma almeno venti-venticinque, un giorno sì e un giorno no… io me li sono passati dormendo in macchina sotto casa di Moro. Presumevo che in qualsiasi momento la situazione si fosse sbloccata la famiglia sarebbe stata la prima a essere avvertita, e seguendola sarei potuto arrivare per primo. Speravo nell’intuizione che mi avrebbe dato la marcia in più. Ma quel 9 maggio 1978 mi ha detto male, perché – pur superando diversi filtri – arrivai di fronte a via Caetani senza potermi avvicinare più di tanto. In quella situazione, l’unico modo per riuscire era stare in alto, come fecero i colleghi che si infilarono nei palazzi per affacciarsi ai balconi delle case e scattare, alcuni inseguiti dai Carabinieri. L’immagine simbolo di quel giorno fu di Gianni Giansanti, un collega che conoscevo bene e che è morto a cinquant’anni un bel po’ di tempo fa. Quelle foto a colori furono scattate con una pellicola da studio al tungsteno del tutto inadatta alle foto esterne diurne, perché all’epoca il colore era riservato solo ad avvenimenti di un certo rilievo e si potevano vendere solo ai settimanali e non ai quotidiani che andavano in bianco/nero».
«Anche in quel caso i colleghi furono molto fortunati, perché quel giorno si era tutti a piazza del Gesù, molto vicino a via Caetani, a seguire il direttivo nella sede Democrazia Cristiana dove tutti erano riuniti per gestire l’emergenza. E c’ero anch’io, solo che io ero arrivato per primo all’inizio dei lavori ed ero lì davanti alla porta pronto a scattare alla fine al momento dell’uscita. I miei colleghi, tra cui Gianni, arrivati tardi dopo di me e rimasti in fondo alla piazza, furono più veloci a girarsi e correre. Via Caetani è una traversa di via delle Botteghe Oscure, dove c’era la sede del Partito Comunista, a soli sette minuti a piedi da piazza del Gesù. Come videro le auto a sirene spiegate iniziarono a correre in quella direzione e si infilarono nei palazzi, nascosti dietro le finestre. Io purtroppo non fui abbastanza svelto, dopo tanti e tanti giorni passati a fare la spola tra casa di Moro e la Questura… dormendo pochissimo e cercando comunque di non perdere di vista le altre notizie della giornata».
Mario Proto è un fiume in piena di ricordi, di ricchi e spesso inediti backstage dietro le immagini iconiche che hanno fermato i momenti topici della storia d’Italia. «Ci sono tanti che fanno a botte per apparire, ma io no, a me non interessa. Un giorno, forse, scriverò un libro. Non lo so. Anche di mostre, onestamente, non ne ho fatte molte, solo un paio. Una me l’hanno voluta organizzare in occasione dei quarant’anni di carriera e l’ho voluta dedicare alla memoria del mio caro amico Nicola Calipari [il funzionario SISMI ucciso durante la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, rapita a Baghdad, N.d.R.]. Ho conosciuto Nicola poco dopo il suo trasferimento a Roma dalla Calabria, da dove era stato costretto a spostarsi dopo essere stato pesantemente minacciato dalla ‘ndrangheta. Una persona stupenda, buona, dal sorriso gentile, per me è stato un vero onore. Lo incontrai una quindicina di giorni prima della sua morte in una cerimonia alla caserma sede dei NOCS e mi invitò ad andarlo a trovare per prendere un caffè… poi arrivò la notizia della sparatoria e della liberazione della Sgrena, e io subito immaginai che lui potesse esserne rimasto coinvolto. Mi arrivò la chiamata in redazione per andare sotto casa sua. Mi rifiutai. Non avrei mai potuto».
Tutte le foto che illustrano questo articolo, tranne dove diversamente indicato, sono di Mario Proto, che ringraziamo per il tempo che ha voluto dedicarci derogando alla sua riservatezza e per il suo straordinario lavoro di testimonianza storica che non si è mai fermato e ancora continua. Il nostro lavoro gli deve tantissimo.
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