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Nucleare iraniano, le certezze di Israele e Stati Uniti

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Carlo Paganessi

La scorsa settimana è stata dominata da un’altra questione centrale nello scenario Medio Orientale e mondiale, ovvero le tensioni tra Israele e Iran, con le attività nucleari del secondo come pietra dello scandalo. Nella giornata di martedì il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha rivelato al pubblico un rapporto tratto da fonti d’intelligence che descrive come Teheran abbia mentito a riguardo del programma nucleare iraniano, minando anche la fiducia sulla quale si basava l’accordo del 2015 tra Stati Uniti, Iran, Russia, Regno Unito, Germania, Cina e Francia, dove si ponevano delle limitazioni a Teheran nello sviluppo delle proprie conoscenze e nell’utilizzo dei propri impianti di arricchimento dell’Uranio per determinati scopi.

Le due potenze sono costantemente in rotta di collisione dal cambio di regime in Persia con la detronizzazione dello Shah Ciro Reza Pahlevi nel 1979 (la c.d. Rivoluzione islamica) e la creazione di una teocrazia guidata da un ayatollah (un dotto dell’Islam di rango più alto) e dove le leggi vengono applicate da una “guarda della rivoluzione” (i c.d. Pasdaran, coloro che vegliano). All’indomani della nascita della Repubblica Islamica l’ayatollah Khomeini definì Israele come “il piccolo Satana” (in contrapposizione al “grande Satana” rappresentato dagli Stati Uniti), avviando una stagione di rapporti piuttosto freddi tra Teheran e Tel Aviv: vennero chiusi tutti i canali diplomatici ufficiali e l’ambasciata israeliana in Iran venne chiusa e destinata a ospitare i membri dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

l’Imperatore Reza Pahlevi, sovrano della Persia fino al 1979. Science Museum Photo Studio.

Negli anni successivi l’Iran iniziò a fornire supporto ideologico, economico e materiale ai partiti sciiti del Libano, favorendone la ricomposizione sotto un unico partito che si chiamò Hezbollah. Il “partito di Dio” si articolò in diverse branche: oltre a quella politica e quella assistenziale vi fu (ed è a tutt’oggi esistente e attiva in teatri complessi come quello siriano) anche una consistente sezione militare che ricevette da Teheran l’addestramento necessario per attaccare obiettivi israeliani e americani, come avvenne il 18 aprile del 1983 con l’attacco all’ambasciata statunitense e il 23 ottobre dello stesso anno con l’attacco alle caserme della forza multinazionale presente in loco, che fece propendere il presidente Reagan per il ritiro dal Libano.

Nonostante un quadro generale di relazioni decisamente fredde e ostili tra i due paesi, non sono mancati momenti di breve collaborazione, sebbene solo a livello non ufficiale. Il più importante di questi momenti fu durante il conflitto tra Iran e Iraq degli anni ’80 che durò per oltre 8 anni. Nell’ottica di contrasto al baathismo, considerato dagli israeliani il pericolo maggiore per Israele, Tel Aviv fornì oltre 500 milioni di dollari in armamenti a Teheran ripagati con scorte di petrolio. L’Iraq di Saddam, dal canto proprio, temeva che la nuova repubblica islamica avrebbe cercato di far rivoltare la minoranza sciita irachena. Oltre a questo ciò che spinse Saddam a dichiarare guerra fu anche la possibilità di diventare lo stato egemone dell’area del golfo. Mosso da alcune dispute sulla definizione del confine dello Shatt-Al Arab (il fiume che prende vita dalla confluenza di Tigri ed Eufrate) Saddam dichiarò una guerra combattuta a colpi di ondate umane da Teheran e con i gas da Baghdad. Nonostante quasi un decennio di conflitto la guerra si concluse con una pace bianca.

La presidenza Rafsanjani fu essenzialmente priva di grandi sviluppi nelle relazioni tra i due paesi, che concluso il conflitto con Baghdad tornarono alla consueta ostilità, con Teheran che perseverò nel sostegno alle organizzazioni palestinesi e ad Hezbollah. Nel 2000 il nuovo Ayatollah Khamenei parlò di Israele come di un tumore da eliminare dalla mappa, salvo cambiare la propria opinione 5 anni dopo quando venne chiamato a commentare le parole di Ahmadinejad che desiderava la sparizione di Israele dalla mappa, chiarendo che la Repubblica Islamica non avrebbe mai minacciato l’esistenza di nessuno stato.

Il periodo compreso tra il 2005 e il 2013 vide uomini dai sentimenti forti schierati su entrambi i fronti: i tre primi ministri Olmert, Sharon e Netanyahu, succedutisi a Tel Aviv, e Ahmadinejad a Teheran. Questo periodo è probabilmente il più nero per le relazioni tra Iran e Israele, date le tensioni legate ai programmi nucleari e missilistici iraniani, costantemente sabotati dal Mossad (istituto, il servizio d’intelligence civile estero israeliano). Dal 2010 al 2013 morirono almeno cinque scienziati e vennero diffusi virus come Stuxnet all’interno della rete di diversi impianti iraniani, con il conseguente danneggiamento di centrifughe e impianti per l’arricchimento dell’uranio. Altra metodologia messa in campo dai servizi d’informazione israeliani fu la rivendita, attraverso società fittizie, di materiale difettoso, che allungò notevolmente le tempistiche di ricostruzione dopo i sabotaggi. Nel 2011 Israele sequestrò una nave iraniana diretta a Gaza, con un ulteriore intorbidimento dei rapporti tra i due paesi.

Nel 2015 il patto nucleare (JCPOA – Joint Comprehensive Plan of Action) concluso tra l’Iran e le sei potenze frutto in parte della nuova presidenza Rouhani, in parte del nuovo corso della diplomazia statunitense sotto Obama, prevedeva l’eliminazione delle sanzioni economiche poste contro Teheran negli anni precedenti a fronte di un progressivo smantellamento del programma nucleare iraniano con la riduzione delle centrifughe di arricchimento attive presso gli impianti di Natanz e Fordo, e la modifica della destinazione d’uso del centro di produzione di acqua pesante di Arak, che avrebbe prodotto solo isotopi da usare in medicina.

L’Ayatollah Khamenei durante un discorso. Al Jazeera.

L’accordo ha una durata prestabilita di 15 anni durante i quali l’Iran ha 24 giorni di tempo per poter adempiere alle richieste d’accesso di eventuali siti o attività sospette provenienti dalla IAEA (International Atomic Energy Agency). Il rapporto presentato martedì scorso da Netayahu evidenziava determinate incongruenze tra quanto affermato dall’Iran in sede di stipula dell’accordo e la verità: nella fattispecie il rapporto si concentra su determinate attività che andrebbero molto oltre i limiti imposti dall’accordo, con impianti segreti di arricchimento dell’uranio e fabbriche di acqua pesante per la produzione di plutonio.

Uno dei capi ispettori della IAEA che ha avuto l’opportunità di lavorare sul caso iraniano, Olli Heinonen, ha affermato che gran parte delle immagini mostrate fossero elementi già a conoscenza della comunità internazionale e dell’agenzia non rappresentanti particolari violazioni degli accordi del 2015. Buona parte degli elementi presentati da Netanyahu risalgono a un periodo precedente al 2003, ma soprattutto non è stato esposto nulla di successivo al 2009, data in cui la IAEA fa risalire la cessazione di ogni tentativo coordinato su scala nazionale di costruire un ordigno atomico.

Hassan Rouhani, primo ministro dell’Iran. Al Jazeera.

Il rapporto israeliano sul nucleare iraniano arriva in un momento strategico per la sopravvivenza dell’accordo, date le continue minacce di ritiro arrivate dall’amministrazione Trump, a cui il presidente statunitense ha dato seguito con il ritiro dall’accordo nella serata di mercoledì. La presidenza degli Stati Uniti intende ritirarsi dall’accordo in parte per proseguire nell’opera di distanziamento da quella che era la politica estera di Obama, in parte per gli interessi confliggenti che i due paesi hanno su vari teatri, in primo luogo quello siriano, dove Washington è intervenuta in opposizione al regime di Assad dapprima con un certo sostegno ai ribelli in funzione anti Stato Islamico, poi in sostegno ai curdi verso il medesimo avversario, e dove Teheran è presente sia con le proprie truppe che con il sostegno ad Hezbollah.

In ultima analisi, la maggior parte dei commentatori internazionali ammantati di una certa imparzialità giudica il report israeliano come qualcosa di contenente informazioni datate e non contenenti nulla che violi il JCPOA. La linea d’azione che Israele sta tenendo sembra voler auspicare un ritorno in grande stile degli Stati Uniti in Medio Oriente: una circostanza di questo tipo, tuttavia, costringerebbe Trump all’ennesimo dietrofront rispetto alle promesse isolazioniste fatte in campagna elettorale. Dall’altro lato questo rapporto è funzionale alla politica statunitense di intorbidimento dei rapporti con Mosca e i suoi alleati ed è già stato sostenuto ciecamente sia da Trump che dal nuovo Segretario di Stato Pompeo. Teheran, dal canto proprio, ha già minacciato gli Stati Uniti dicendo che in caso di ritiro del JCPOA anche loro avrebbero denunciato il patto, facendo pentire amaramente Washington, in una spirale di conseguenze che sta già portando ulteriore instabilità in Medio Oriente e, in definitiva, mette a repentaglio la non proliferazione nucleare e l’ingresso di ulteriori stati (dopo quello forzato della Corea del Nord) nel novero delle potenze dotate di arma nucleare.

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