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Loro: Sorrentino scruta dentro alla maschera berlusconiana

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Anastasia Piperno

I protagonisti dei film di Sorrentino sono sempre uomini logorati, di cui si osserva l’immancabile declino, talvolta personale (Le conseguenze dell’amore, This must be the place, Youth), altre volte specchio di un’epoca di decadenza morale (L’uomo in più, Il divo, La grande bellezza). Nel corso della sua carriera ha abbandonato progressivamente un sostanziale intreccio per una serie di scene di unità tematica, dove è l’accumulo a far poi scaturire il significato complessivo. Si lega d’altronde al gusto per l’aforisma di spirito dei suoi personaggi, per la battuta a effetto, da parte di un regista da sempre affascinato dalle apparenze, sia per una certa patina stilistica spesso criticata, sia per un motivo più profondo, ovvero l’indagine della persona, di un personaggio recitato, affascinante, sempre con una certa influenza o prestigio, e di cosa nasconde dietro la sua maschera. Dopo il ritratto di Giulio Andreotti de Il divo, Sorrentino torna a indagare un personaggio della politica, Silvio Berlusconi. Alla cinematografia già esistente su di lui, Loro sembra voler aggiungere una variazione perfettamente in linea con questi interessi. Non è una dettagliata analisi storico-politica degli eventi accaduti nel periodo preso in esame, quello tra il 2006 e il 2010, ma un’indagine in bilico tra l’affresco di una rete sociale e poi uno sguardo scrutatore alla maschera di Berlusconi, intrufolandosi nel suo privato. È lo stesso regista a dirlo: «Loro non è un film schierato o ideologico. Sarebbe stato stupido fare un film sul berlusconismo, che è un argomento ampiamente sviscerato. Quello che mi interessava indagare era la dimensione dei sentimenti che stava dietro ai personaggi».

Loro, lui

Riccardo Scamarcio interpreta Sergio Morra, personaggio fittizio ispirato all’imprenditore Gianpaolo Tarantini. Foto: comingsoon.it

Il film è diviso in due parti, Loro 1 e Loro 2, uscite al cinema rispettivamente il 24 aprile e il 10 maggio. È un’operazione che ha fatto discutere di sé, tra chi vi vede un intento meramente commerciale, che evita i 204 minuti totali, una durata estenuante per lo spettatore medio, e sfrutta anche un meccanismo di successo della serialità per aumentare gli incassi, e chi vi vede poi un’ulteriore scopo artistico. Il focus tra Loro 1 e Loro 2 cambia innegabilmente. La prima parte si concentra per un buon tre quarti su Sergio Morra, giovane affarista che gestisce piccoli traffici di escort, attraverso cui corrompe politici locali per ottenere appalti. Morra però è insoddisfatto, frustrato dai limiti del circuito di provincia, Taranto, e cerca una svolta professionale. Ha un’illuminazione quando, durante un rapporto sessuale con una sua escort, vede sulla pelle di lei un tatuaggio con il volto di Silvio Berlusconi (già trasfigurato in quello del suo attore interprete, Toni Servillo). Decide allora insieme alla compagna Tamara di partire per Roma, per cercare di arrivare a lui. «Lui» è un pronome che torna continuamente in Loro 1, un mantra pronunciato da chi guarda ad una figura di potere suggestiva. Con un montaggio rapido, di eco scorsesiana (in particolare The Wolf of Wall Street), si rendono i ritmi sfrenati, esuberanti del bestiario che attornia il leader politico, tra festini, sesso e droga, di scalino in scalino per arrivare ad ottenere l’attenzione di lui. Ne Il divo il potere era orchestrato, ramificato con scrupolosa discrezione, con subdoli raggiri e omissioni, lontano dallo sguardo del cittadino e dello spettatore. Qui il potere è narcisismo esibito, che ama riflettersi nei tanti schermi televisivi, curando un’immagine plastica, e proprio per questo è anche avvicinabile. In un reticolato politico di forte carica sessuale, per entrare nella sua cerchia si mercifica il corpo femminile, imitando quel palinsesto che lo svaluta, spersonalizzandolo in immagini su immagini volgari, di serie b, di veline, ragazze senza arte né parte che sognano di lavorare in tv per il più gretto lusso della notorietà. «È dura la vita, se non sai fare un cazzo» dice ironica Kira (Kasia Smutniak), l’ape regina dell’harem dell’ex-Cavaliere. Ne segue quel vitalismo degli eccessi che già caratterizzava il cinema di Sorrentino, da L’uomo in più a La grande bellezza: i colpi sordi dell’inettitudine morale sono coperti dall’alto volume dei piaceri materiali soddisfatti, fino al paradiso artificiale di una scena di Loro 1, dove il tempo è rallentato, sospeso in un idillio, per via della disinibizione data dall’anfetamina.
Seguendo la teoria del filosofo e antropologo René Girard, il desiderio è di natura mimetica. Non c’è mai un rapporto diretto tra l’oggetto desiderato e chi lo desidera. La struttura è triangolare: il soggetto desidera un oggetto, perché questo è stato indicato come via di realizzazione, di felicità da un altro soggetto preso come modello. La calca attorno a «lui» non si serve di Berlusconi come semplice strumento per la propria sete arrivista, ma ne è piuttosto il suo prodotto, ne è intimamente contagiata, mimando il suo stile di vita. Difatti Kira è un sogno erotico, proprio perché oggetto delle attenzioni del modello Berlusconi, tanto che l’eccitazione sessuale di Sergio Morra è in stretta relazione. Non è neanche un caso che tutti i nomi di questi personaggi siano fittizi, e che sia poco rilevante decifrare le persone reali di riferimento, dal momento che si tratta di entità interscambiabili, divorate dalla stessa degradazione. Si adattano all’ambiente circostante, si insinuano in esso alla maniera dell’acqua, incolore e informe, per guadagnarne soltanto un dorato pugno di mosche, una gloria di quindici minuti o tutt’al più nulla.

Elena Sofia Ricci interpreta Veronica Lario.

In contrapposizione all’euforia dei corpi seminudi raggruppati da Morra, dimenantesi per l’occhio di lui, c’è il totale disincanto di Veronica Lario, il disfacimento irreparabile e la putrefazione del privato. Quando Sorrentino mostra Berlusconi nella villa in Sardegna, la prima immagine che ne dà è di un’odalisca, agghindato in maniera buffonesca per strappare una risata alla moglie, che deve riconquistare. Non solo sta perdendo la moglie, ma ha appena subito la sconfitta alle elezioni del 2006, che hanno visto Romano Prodi salire al governo. Servillo impersona volutamente una figura caricaturale, grottesca, esagerata quanto lo era il suo Giulio Andreotti ne Il divo. E ancora entrambi i personaggi affermavano quanto contassero le apparenze, sopra l’onestà e l’integrità: forte delle sue origini di venditore, Berlusconi impartisce un cinico insegnamento al nipote, ovvero che «la verità è frutto del tono e della convinzione con cui la affermiamo», un mero fatto di persuasione. La sua maschera è affabile, una fonte ulteriore di battute di spirito, di spirito bonario e di canzonette, souvenir di un passato romantico. Sorrentino, infatti, guarda a questa figura politica con la stessa duplicità con cui caratterizzava Andreotti: da una parte riutilizza i motivi di fascinazione per la sua abilità performative, la sua forte presenza regalando momenti brillanti, senza nasconderne però le meschinità, soprattutto la polverosa solitudine. La parabola discendente di questo specifico volto è data proprio dall’artificialità del suo sorriso consumato, da barzellette fondate sulla vecchia avversione per il comunismo, riciclate e riciclate.  Si tratta di un grande gioco che non impressiona più Veronica Lario, che in Loro 2 cerca il confronto diretto e decisivo con il marito, prima dell’abbandono definitivo, per poter avere un barlume di sincerità diretta. Cosa c’era prima dell’immagine pubblica? Dove affondano le radici dell’uomo Silvio? «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere», dice lui, specialmente alla provocazioni su dove arrivino i cospicui fondi con cui avrebbe iniziato la sua carriera (di contro alla retorica dell’uomo fattosi da solo). Sempre più durante Loro 2 si evince che la distanza tra un mondo esterno fuori fuoco e il personaggio Silvio, chiuso dentro la cassa di risonanza del proprio io. La macchina da presa infatti dà poco spazio agli altri interlocutori nei momenti di conversazione. La consueta indagine della persona di Sorrentino si scontra con la sfuggevolezza di queste figure, mai conoscibili fino in fondo: dopo vent’anni di performance, di asservimento a un’identità costruita, la voce dell’identità reale è flebile. Si scorge tuttavia la voglia di essere ancora amato, la frustrazione derivata dal consenso mancato. Nonostante il tempo trascorso, nonostante la vecchiaia incalzante, questo tipo di uomo tenacemente attaccato alla vita, che vuole essere ancora in carreggiata, si illude di poter mantenere i lustri di un tempo. Come in Youth, nel personaggio regista di Harvey Keithel, il corpo anziano pende dalla linfa vitale della bellezza giovane, la vuole ancora per sé, per soddisfare i propri impulsi sessuali, e che non ha una visione lucida né su di sé – al contrario della profonda consapevolezza di Jep Gambardella in La grande bellezza – né sulle rinunce necessarie per la propria dignità, personale, professionale.

..e noi

È significativo che la scena di apertura sia slegata dal contesto per assumere un valore simbolico. Sorrentino usa di nuovo la metafora animale, una pecora, che dal prato nella villa in Costa Smeralda di Silvio entra in casa sua. Si accende il condizionatore, il televisore è acceso, e mostra un ricalco di uno show televisivo di Mediaset. La pecora rimane agganciata alle immagini che si susseguono, imprigionata da esse, e nel frattempo la temperatura scende da tre gradi a zero, facendola morire (o si tratta solo di ipotermia?). Altre scene slegate e con animali punteggiano specialmente la prima parte di Loro 1, pur non essendo altrettanto riuscite. È questa quella che più di tutte fa una chiusa insieme alla scena finale di Loro 2 sulla posizione di “noi”, spettatori di questa fiera umana e a nostra volta testimoni dell’era berlusconiana. Lo spettatore di Loro può subire il fascino della vita orgiastica, lussuosa e di spregiudicatezza vivace presentata, ma non può che sentire il puzzo di morte, la fredda e spoglia desolazione delle stanze del leader. Si può ipotizzare inoltre che si alluda all’italiano medio, che è stato nel corso del tempo assuefatto, invaso dall’immaginario berlusconiano – qui riproposto in chiave parodistica in più punti – diffuso dalla televisione, ritrovandosi per una buona percentuale in un’inerzia civile, sfiduciato, senza orientamento e ancora vittima di vecchie immagini, vecchi personaggi e vecchi schemi.
Fuori dal palco di una politica condotta per un primario piacere egotico, minata però da scandali su scandali che pure la deviano dalle sue più gravi responsabilità, c’è la realtà popolare, distante anni luce. Nella scena di chiusura di Loro 2, nelle macerie del terremoto a L’Aquila del 2009, i vigili del fuoco gestiscono il recupero di una enorme statua del Cristo estraendola da una chiesa distrutta dal terremoto. Sorrentino lascia scorrere i titoli di coda con un lungo piano sequenza sui volti dei pompieri, stanchi dalla notte di lavoro. Mentre un matrimonio è distrutto, così lo è anche un Paese, rappresentato in uno dei suoi eventi più traumatici. Fuori dalla realtà plastica del privato di Silvio, c’è la fatica del cittadino, crepato, lasciato solo a sé stesso.

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