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L’epidemia di ebola in Congo: risvolti di una crisi

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Carlo Paganessi

Mbandaka è una città della Repubblica Democratica del Congo che conta quasi un milione di abitanti, situata vicino al confine con la Repubblica del Congo. La città, fondata nel 1883, è capoluogo della regione equatoriale e nel corso del tempo ha avuto diversi nomi: il primo fu Equateurville, attribuitole dal fondatore Henry Morton Stanley. Solo tre anni dopo la città venne rinominata in Coquilhatville, nome che tenne per tutto il periodo della dominazione belga sul Congo fino all’indipendenza nel 1966, quando le venne attribuito il nome attuale in ossequio a un leader tribale molto noto. Nel 1997 la città fu teatro del massacro degli Hutu durante la prima guerra del Congo, mentre oggi si trova a essere possibile epicentro di una nuova epidemia di ebola, scoppiata nelle campagne circostanti (probabilmente presso Bikoro) e infiltratasi nell’abitato negli ultimi giorni. La situazione è risultata essere particolarmente preoccupante in quanto Mbandaka è situato laddove il fiume Ruki si getta nel fiume Congo, il che la rende un importante hub di trasporto fluviale.

Non è ancora stato ritrovato il paziente zero: l’inizio di questa epidemia è dovuto probabilmente al consumo di carne poco cotta di pipistrello della frutta, animale in cui il virus è ospitato e dove solitamente rimane in stasi, salvo scatenarsi nel momento in cui entra in contatto con un umano. La trasmissione da umano ad umano avviene poi tramite il contatto con i fluidi corporei di un soggetto che ha contratto la malattia da alcuni giorni. Date le modalità di contagio (che escludono la via aerea) e dato che un soggetto inizia a manifestare i debilitanti sintomi della malattia da prima di diventare contagioso, è decisamente improbabile che questo compia lunghi viaggi.

Uno degli aspetti cruciali nel contenimento delle epidemie di ebola è il trattamento dei cadaveri. Foto: BBC.

Il virus aggredisce il paziente provocando una febbre emorragica altamente contagiosa qualora un altro soggetto dovesse venire a contatto con i fluidi corporei di un malato. Il paziente comincia a manifestare i primi sintomi in un periodo compreso tra i tre giorni e le tre settimane successive al contagio: dolori muscolari, faringite, rash cutanei e febbre. Più tardi, mano a mano che il virus si diffonde, questo reagisce con le piastrine contenute nel sangue e con i neutrofili, causando il progressivo indebolimento del sistema immunitario del paziente e emorragie sia interne che esterne sempre più gravi. Non è raro che siano proprio le perdite di sangue a portare il paziente alla morte.

Non esiste un vero e proprio protocollo standardizzato per la cura della malattia, pertanto il trattamento si concentra sulla cura dei sintomi: si cerca di tenere il paziente idratato, si curano le infezioni dovute all’immunosoppressione e si cerca di addensare il sangue per limitare le emorragie. Il personale sanitario è probabilmente la categoria più a rischio infezione, e deve sempre indossare i necessari dispositivi sanitari. In contesti come quello delle campagne congolesi, tuttavia, l’altra grande categoria esposta è quella dei parenti della vittima: la procedura di sepoltura prevede che prima della stessa i familiari lavino il cadavere nelle acque del fiume, aumentando così esponenzialmente le probabilità di contagio.

Intorno a Mbandaka ci sono diverse vie fluviali e questo rende la città un hub dei trasporti, con molte persone che vi transitano ogni giorno. Foto: AP.

Un grande avversario di chi sta cercando di arginare l’epidemia è la scarsa conoscenza della materia da parte della popolazione: giovedì 24 le autorità che gestiscono le strutture in cui sono curati gli infetti hanno dovuto registrare la fuga di tre pazienti in piena fase attiva della malattia, prelevati dai familiari che li hanno portati in motocicletta in chiesa affinché potessero rivolgersi a Dio. All’arrivo dei tre fuggitivi con le rispettive famiglie presso il luogo di culto era in corso una funzione con oltre cinquanta persone. Il rischio di contagio è stato altissimo, tutti i presenti sono stati trattati e sono tutt’ora sotto osservazione per capire se hanno contratto il virus. Tutti e tre i pazienti sono morti entro poche ore dal disperato tentativo dei parenti.

Ad oggi gli infettati superano la cinquantina e i morti sono oltre trenta: le febbri emorragiche provocate dall’ebola sono malattie con un tasso di mortalità tra i più alti del pianeta, in parte a causa dell’aggressività, in parte a causa della già citata mancanza di un protocollo per la cura del male. Al momento sono presenti in loco degli effettivi di Medici senza Frontiere ed è stato organizzato un ponte aereo per supplire alle eventuali mancanze in termini materiali, di uomini ed economici che il centro di cura possa riscontrare.

In aggiunta a questo, il governo di Kinshasa si sta dimostrando più preparato di quanto la comunità internazionale aveva previsto: Michael Yao, IM (una sigla che sta per Incident Manager) nominato dalla Organizzazione Mondiale della Sanità per sovrintendere alle operazioni, ha affermato che l’esecutivo ha predisposto squadre di risposta attiva dotate delle necessarie precauzioni ma soprattutto di acqua potabile, in modo da ridurre al minimo le possibilità di contagio. L’unica mancanza è dovuta alla rete viaria congolese che al momento non è nella migliore delle condizioni, e costringe i mezzi di soccorso a tragitti molto lunghi per arrivare alle aree colpite. Per ovviare a questo problema intorno a Mbandaka e ai villaggi circostanti sono state preparati eliporti d’emergenza per il trasporto del personale e delle risorse. Il fattore isolamento rappresenta al contempo un problema e un vantaggio, limitando la possibilità di ulteriori contagi.

Il presidente congolese Joseph Kabila. Foto: REUTERS/Edward Echwalu.

Altro fattore positivo su cui può far leva l’apparato di contrasto congolese è l’esperienza: dal 1976 ad oggi il paese ha registrato diverse epidemie di ebola che sono sempre state contenute con discreto successo, al contrario di quanto accaduto in Africa occidentale tra il 2014 e il 2016, quando oltre 11.000 persone persero la vita e oltre 27.000 vennero infettate dal virus. In aggiunta a questo ora c’è un vaccino con il quale trattare le persone a rischio: la statunitense Merck ha creato un vaccino testato per la prima volta con successo in Guinea nel 2015 e che sta attraversando altre fasi di test ora. Gli unici inconvenienti riguardano da un lato il fatto che deve essere tenuto a temperature basse in un posto molto caldo e con poca disponibilità di energia, mentre dall’altro richiede una prima iniezione e due visite dopo tre e dopo quattordici giorni per monitorare lo stato di salute del paziente. I test sono stati finanziati dal governo britannico e da quello norvegese.

Il fatto che una malattia mortale e contagiosa come la febbre emorragica causata dall’Ebola abbia una diffusione improvvisa in un paese come la Repubblica Democratica del Congo, dove sette cittadini su dieci hanno un accesso inadeguato alle cure mediche, porta sicuramente a notevoli paure e timori nei confronti della malattia. Ma questo caso ha dimostrato che anche in un paese tra i più poveri al mondo tale malattia può essere agevolmente contenuta e arginata (anche grazie al contributo internazionale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità) se l’azione avviene per tempo. In caso contrario si verificano casi come quello dell’Africa Occidentale del 2014. La lotta a malattie di questo tipo si dimostra sempre più una questione di preparazione e collaborazione che di mezzi e mera potenza economica.

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Carlo Paganessi

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