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L’economia circolare. Il nostro futuro, come in passato

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Domenico Beccia

Ci siamo da poco lasciati alle spalle la Giornata Mondiale della Terra, evento nel quale si cerca di sensibilizzare alle tematiche ambientali in modo tale da farle arrivare all’intimo della quotidianità. L’inefficacia delle esposizioni a tema ecologico sta spesso nella parvenza idealista, quasi hippie, che queste si portano dietro. È fondamentale quindi associare a queste dei modelli di applicazione pratica che vadano ad abbracciare il concreto dell’economia e, più in generale, della vita di tutti i giorni. Un esempio parecchio in voga negli ultimi anni è quello dell’economia circolare, per la quale si spendono discorsi, progetti ed eventi in tutto il mondo.

Per capire cos’è e come funziona l’economia circolare partiamo dalla sua antitesi: l’economia lineare. È un modello molto banale per com’è strutturato e a tutti sicuramente noto, ma che già nella sua esposizione mette in luce i suoi molteplici limiti.

Schema di economia lineare.

In un modello economico lineare immaginiamo il processo di produzione e di utilizzo di un bene come una linea con un inizio e una fine. In questo percorso possiamo individuare delle tappe fondamentali: la produzione delle materie prime, dalla loro estrazione alle prime lavorazioni, alle elaborazioni tipiche del settore secondario in cui si struttura il prodotto finito, alla sua distribuzione e al suo uso e consumo. La linea termina letteralmente nella pattumiera. Di fronte a questo schema si rendono immediatamente evidenti le criticità che rendono questo sistema difficile da sostenere ma, al tempo stesso, molto fiorente al giorno d’oggi. In primo luogo, è chiaro quale sia il destino di ogni bene prodotto. Si potrebbe obiettare che questo sia inevitabile nel momento in cui un bene smette di avere utilità. Obiezione ingiustificata ed è proprio falsificando questa posizione che nascono i principi dell’economia circolare. In secondo luogo, è facile intuire come gli attori che agiscono a monte in questa linea spingano affinché ci siano sempre più rifiuti, perché cestinare un prodotto porta con sé la necessità di averne uno nuovo. Questo si traduce in nuove materie prime da lavorare, nuovi beni da produrre e da distribuire. Questo approccio all’economia porta alla cosiddetta obsolescenza programmata. Sarà capitato a tutti di dover gettare uno smartphone perché la memoria non riusciva più a supportare i continui aggiornamenti, o un pc per il difetto ad un componente impossibile da sostituire o il cui cambio non era economicamente vantaggioso. Oggetti, il più delle volte legati alle ultime tendenze tecnologiche, perfettamente funzionanti a eccezione di un aspetto unico ma irrisolvibile. Un progetto premeditato per far sì che la vita media di un oggetto non superi una manciata di anni, così da obbligare a un ricambio continuo.

L’ultimo aspetto da sottolineare è legato alle condizioni demografiche attuali. Siamo tanti, troppi secondo alcuni, di certo aumenteremo nei prossimi decenni sulla spinta del boom della natalità dei Paesi in via di sviluppo. Più consumatori portano a più rifiuti, a valle, e a un maggiore sfruttamento delle risorse naturali, a monte. Quello della crisi delle risorse è un tema spesso sottovalutato. Non è solo una questione ambientale, ma una vera e propria guerra che si combatte tra popoli diversi per appropriarsi di giacimenti, di miniere, di foreste. È una guerra che viene combattuta con accordi commerciali, con capitali e forze lavoro mobilizzate ma anche con le armi. È una guerra che si abbatte sui paesi più poveri, spesso pregni di possibilità dal punto di vista estrattivo e, da anni, parte lesa dell’economia globalizzata, con una nuova forma di colonialismo non più disegnata sulle cartine ma altrettanto logorante per chi è costretto a subire il peso delle superpotenze.  Ecco come concetti astratti quali quelli di economia lineare e circolare, che appaiono spesso come piccoli gesti quotidiani dagli effetti ideali, trovano un riscontro importante in processi globali che vanno a toccare non solo l’ambiente ma anche le condizioni dei lavoratori e gli accordi fra Nazioni.

Schema di economia circolare.

Questa potrebbe essere una soluzione. Lo schema sovrastante indica i principi dell’economia circolare. Si parte dal modello di economia lineare ma salta subito all’occhio come il circuito si chiuda in diversi punti. Il punto in cui le linee deviano sono tutte a livello del consumatore, vero perno nell’economia e sulla quale tutti i sistemi vengono costruiti. I destini di un bene già utilizzato possono essere diversi a seconda dello stato e della natura del bene stesso. A tale proposito sono state spese parole dalla Ellen MacArthur Foundation, la decima più grande fondazione privata americana, impegnata in ambiti legati all’istruzione, agli affari e, appunto, all’economia circolare. «I flussi di materiali sono di due tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera, e quelli tecnici, destinati a essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera». Legandosi in maniera elementare a questo enunciato, ogni materiale può potenzialmente avere una vita eterna, nella misura in cui arrivi non degradato alla fine del suo uso.

Il primo principio cardine dell’economia circolare è rappresentato dall’ecoprogettazione, vale a dire pensare all’oggetto tenendo già presente il suo destino e quindi cambiandone il progetto in modo da dargli la possibilità di avere pezzi intercambiabili e riutilizzabili. In un certo senso è l’esatto opposto di ciò che si tenta di fare con l’obsolescenza programmata. Il secondo principio è legato al primo e sta nel pensare all’oggetto in termini di versatilità e di adattabilità ai cambiamenti del mondo esterno. Non qualcosa che possa presto aver fatto il suo tempo. È probabilmente il punto più ostico, se si pensa a quanto guadagno porta l’alternarsi delle mode. Il terzo punto è l’utilizzo di energie rinnovabili, punto di partenza imprescindibile di ogni sistema che aspiri a ridurre l’impatto ambientale dell’uomo. Il quarto punto è l’approccio ecosistemico. È il punto più affascinante, perché richiede un totale sovvertimento del sistema economico pensato non più come tante singole iniziative ma come un unico organismo che funziona in sincrono. Il quinto punto è rappresentato dal recupero dei materiali, la messa in pratica di tutto ciò che viene preparato dai quattro punti precedenti. E qui veniamo a quello che i consumatori (ma non solo) possono fare.

Nuovamente uno sguardo alle frecce dell’economia circolare. Il destino di un bene varia a seconda di ciò che è possibile recuperare. È lapalissiano che più si torna indietro nella catena rispetto al consumatore e più il bene dovrà essere modificato e più lavoro richiederà. La soluzione più estrema è il riciclo, in cui ci si focalizza sul recupero dei materiali. Da decenni si spendono parole su parole sull’importanza del riciclo e della raccolta differenziata. Per un Paese come l’Italia, con i suoi problemi nella gestione urbana dei rifiuti e con una spesa per lo smaltimento nell’ordine dei miliardi di euro (buona parte dei quali finisce all’estero), la raccolta differenziata dovrebbe diventare una priorità assoluta. Di certo le politiche statali sono ancora indietro, ma il traino dovrebbe arrivare dalle coscienze dei singoli, pensando ai possibili risparmi in termini di gettito fiscale ma soprattutto ai possibili guadagni derivanti dalla rilavorazione delle materie prime, ambito del lavoro ancora parecchio sottovalutato.

Il secondo destino possibile per i beni già usati è sicuramente il più distante dalle abitudini comuni e forse per questo rappresenta un punto su cui c’è parecchio da fare. Il remanufacturing prevede la possibilità di modificare un bene già terminato. In questo caso i singoli materiali mantengono la struttura data dalle lavorazioni originali, ma si utilizzano i singoli componenti per alterare un oggetto o per stravolgerlo al punto da creare qualcosa di totalmente nuovo. È un campo che richiede grande ingegno e spesso manualità ma che può rappresentare un ottimo terreno per idee imprenditoriali.

Ellen MacArthur, in un discorso ai TED talks.

Infine le ultime due possibilità, che sono quelle in cui il bene viene rimesso in circolo così com’è: la redistribuzione e la condivisione. Un bene che ha fatto il suo tempo per qualcuno può essere una ricchezza per un altro. E quindi prolungare il più possibile la vita di un oggetto è un modo per sfruttarlo quanto più possibile e per dare una maggiore dignità a tutti gli attori che hanno cooperato per la sua realizzazione. È una prassi fortunatamente sempre più comune in quella che prende il nome di sharing economy. È un approccio importante che porta con sé una profonda modificazione dello stile di vita comune. Sta passando l’epoca del possesso dell’oggetto. Il fine non è più possedere ma usufruire. L’attore che fino ad ora abbiamo denominato “consumatore” prende più propriamente il nome di “utente”.

Da notare come l’icona dei rifiuti non scompaia nemmeno nella grafica dell’economia circolare. Benché questo modello, citando sempre la Ellen MacArthur Foundation, rappresenti “un’economia pensata per potersi rigenerare da sola”, è davvero difficile immaginare un mondo senza rifiuti. Tuttavia, a pensarci bene, i rifiuti sono un’invenzione moderna. Già i nostri nonni avevano l’abitudine di riutilizzare tutto, talvolta di adoperare un bene con fini stravaganti. Non per sforzo d’ingegno ma per necessità. Se pensiamo ai nostri antenati, dalle civiltà dei secoli scorsi fino agli albori della nostra specie ci accorgiamo che mai i rifiuti sono stati un’entità così viva nell’economia dell’epoca. È forse proprio con questo sguardo al passato che ci si dovrebbe approcciare, come singoli e come comunità, perché probabilmente l’abolizione totale dei rifiuti è un obiettivo irrealizzabile pienamente ma è un limite verso il quale è possibile tendere e doveroso ambire.

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