Lo scenario che si profilava a Kiev alla vigilia della finale di Champions League è l’ennesima riproposizione della classica sfida Davide contro Golia. Da una parte i Blancos, indiscussi padroni d’Europa, vincitori delle due edizioni precedenti e detentori del maggior numero di Coppe dei Campioni. Dall’altra i Reds, la nobile decaduta e tornata lentamente a cercare di riconquistare il posto un tempo occupato nelle gerarchie europee. Per quanto sulla carta l’esito potesse sembrare scontato, l’entusiasmante cammino europeo degli uomini di Klopp e il classico fascino degli outsider avevano portato un buon numero di tifosi neutrali a sperare in un’apparentemente improbabile caduta dei giganti. E invece.
Invece l’atmosfera d’euforia che si era venuta a creare attorno al Liverpool è stata brutalmente spezzata dalla resa di Mohamed Salah, fermato da un grave infortunio alla spalla, e dagli errori di Loris Karius, tanto clamorosi da quasi eclissare il prodigioso gesto tecnico di Gareth Bale – un gol che verrà ricordato tra i più belli (se non come il più bello in assoluto) mai segnati in una finale di Champions League. Mentre in campo il rosso fuoco del Liverpool che era riuscito a incendiare mezza Europa andava affievolendosi, sulla linea laterale Jurgen Klopp assisteva alla sesta sconfitta in finale di una sua squadra. Su un totale di sette disputate. Ma a cosa è dovuto un record tanto negativo?
Klopp arriva a Dortmund nel luglio del 2008, firmando un biennale dall’aria assai prudente. È appena quarantenne, ha alle spalle una carriera da onesto calciatore di seconda divisione e davanti a sé una da allenatore che si prospetta piuttosto interessante. Pur avendo portato inaspettatamente il Mainz addirittura in Coppa UEFA, nella penultima stagione non riesce ad evitare la retrocessione, mancando la promozione nell’ultimo anno prima di approdare al Borussia. Al suo arrivo, le aspettative sono basse. L’obiettivo è migliorare il piazzamento dell’annata precedente, conclusa al tredicesimo posto. Klopp, tuttavia, ha altri piani per sé e per la squadra. Nelle due stagioni che seguono conclude prima al sesto e poi al quinto posto, vincendo nel mentre una Supercoppa di Germania. Riconfermato, porta il Dortmund a vincere due campionati consecutivi, i primi dopo quasi dieci anni. Risultati davvero sorprendenti.
Il 2013 è l’anno in cui Klopp fa il suo debutto agli occhi del mondo. Il cammino del Borussia fino alla finale di Champions League contro il Bayern Monaco gli ha fatto guadagnare un gran numero di ammiratori, estasiati dallo stile di gioco proposto. Per questo la sconfitta arriva come una doccia fredda, specie per come maturata. Dopo una partita combattutissima, con Neuer e Weidenfeller spesso chiamati al miracolo, il gol di Robben (che di finali perse ne sapeva qualcosa) all’89’ spegne le speranze di un ottimo Dortmund. Al primo gol di Mandzukic rispose Gundogan su rigore, causato da un fallo di Dante, già ammonito, su Reus. Si potrebbe speculare su cosa sarebbe successo se l’arbitro avesse deciso di lasciare il Bayern in dieci uomini, ma sarebbe inutile. Il Borussia, che otto anni prima rischiava il fallimento, esce a testa alta contro un avversario superiore.
Appena un anno più tardi, a maggio 2014, arriva la seconda sconfitta in finale. Questa volta si gioca all’Olympiastadion di Berlino e in palio c’è la Coppa di Germania. È di nuovo BVB-Bayern Monaco, ma sulla panchina dei rivali questa volta c’è Guardiola, al suo primo anno in Bundesliga. Dopo più di cento minuti a reti inviolate, è nuovamente Robben ad affondare il Borussia, seguito dal raddoppio di Müller al 121′. Pochi mesi più tardi, sempre in favore del Bayern, il Dortmund perderà anche una pedina importante dello scacchiere di Klopp, Robert Lewandowski, che passa in Baviera a parametro zero.
Nonostante un campionato ben al di sotto delle aspettative, nel maggio seguente il Borussia raggiunge nuovamente la finale della Coppa nazionale. Questa volta, pur avendo evitato il Bayern, ormai profilatosi come la bestia nera di Klopp, un Dortmund in parabola discendente si trova ad affrontare un Wolfsburg in forma strepitosa. I Lupi arrivano da un buon piazzamento in Europa League e stanno disputando un campionato a livelli eccellenti (arriveranno secondi a fine stagione). È forse la combinazione di questi due fattori a decretare il risultato finale. Nonostante sia Aubameyang ad aprire le marcature dopo appena cinque minuti di gioco, nel giro di mezz’ora il Wolfsburg si porta sull’1-3, con le reti di Luiz Gustavo, De Bruyne e Dost. È la prima Coppa di Germania della storia del club, e la terza sconfitta in finale di Klopp. Il suo ciclo a Dortmund è ormai concluso.
Nell’ottobre 2015 arriva la chiamata del Liverpool. I Reds hanno bisogno di sostituire Brendan Rodgers, i cui risultati sono andati via via peggiorando dopo alcune buone stagioni. Il suo Liverpool aveva collezionato un secondo posto in campionato (perso in maniera rocambolesca) e una Coppa di Lega: apparentemente un magro bottino per una squadra come il Liverpool, ma è necessario ricordare la terribile situazione societaria che pochi anni prima li aveva quasi portati al fallimento e che aveva lasciato una squadra da posizioni centrali della classifica negli anni prima di Rodgers. Per la Kop, quello con Klopp è decisamente amore a prima vista. Il suo calcio, fatto di gegenpressing e rapide ripartenze, sposa alla perfezione le preferenze dei tifosi del Liverpool.
Considerando che la finale contro il Manchester City (sulla cui panchina siede Guardiola) si colloca appena quattro mesi dopo il suo arrivo a Liverpool, sembra ingeneroso attribuire a Klopp particolari colpe per questa sconfitta. Specialmente alla luce del fatto che solo i rigori decideranno in favore del City una partita piantata sull’1-1 fino al termine dei tempi supplementari. A rispondere al gol di Fernandinho, era stato Coutinho, che però non si presenterà sul dischetto per la lotteria finale, forse memore di alcuni errori dagli undici metri arrivati nel corso della stagione.
Alla finale di Basilea, il Liverpool si presenta dopo una delle partite più memorabili mai viste ad Anfield, la semifinale contro il BVB. Una rimonta rabbiosa e straripante che sembra aver lanciato la squadra in finale con una carica tale da poter superare anche il Siviglia, storicamente tra le squadre più ferrate in questa competizione. La rete di Sturridge, che apre le marcature, si rivela tuttavia inutile. Gameiro e la doppietta di Koke condannano Klopp all’ennesima sconfitta in finale, nonostante l’esito della partita sia parzialmente influenzato da qualche svista arbitrale non da poco ai danni dei Reds.
Infine, il più recente, il più scottante argento di Klopp. Alla finale contro il Real Madrid, alla caccia della terza Coppa Campioni consecutiva, il Liverpool arriva letteralmente sulle ali dell’entusiasmo. Dopo i combattutissimi passaggi di turno con Manchester City e Roma (seppur macchiati da alcuni errori grossolani degli arbitri), tutta la città sembra essersi svegliata da un sonno durato più di dieci anni. Tanto era che i Reds non si presentavano a una finale di Champions, loro che ne hanno vinte ben cinque nella loro storia. Persino gli alieni del Madrid sembrano alla portata. Nei primi minuti c’è solo una squadra in campo. La partita è lunga, ma per Klopp le cose sembrano mettersi per il verso giusto. Invece.
Invece l’infortunio di Salah (causato da un discutibile intervento di Ramos) dopo nemmeno un quarto d’ora di gioco rivela tutte le fragilità della squadra che, privata del suo uomo migliore, sembra crollare a pezzi psicologicamente prima ancora che sul piano del risultato. Gli errori di Karius, che più d’ogni altra cosa condizionano la partita, sembrano causati in gran parte dalla paura e dalla sfiducia. Nonostante una partita molto buona della difesa – notoriamente il reparto peggiore del Liverpool – con un portiere in uno stato mentale tanto precario basta poco agli uomini di Zidane per stravincere la partita, impreziosendola con lo splendido gesto tecnico di Bale.
Se due indizi fanno una prova, possiamo dire di avere almeno tre prove: le squadre di Klopp hanno enormi difficoltà nelle partite a somma zero. Non sono i match importanti a destabilizzarle, né quelli contro avversari sulla carta superiori. Del resto il Liverpool è stata, ad esempio, la prima squadra a infrangere l’impressionante record di imbattibilità del Manchester City in campionato. Analizzando tutte le casistiche sopraelencate, possiamo invece individuare due motivi principali, che esulino dagli episodi fortuiti.
Ognuna di queste partite è stata disputata da underdog. I percorsi fino ad arrivare alle finali sono stati quasi sempre entusiasmanti, ricchi di partite spettacolari, di reti e di vittorie conseguite senza lasciare da parte l’intrattenimento. I risultati però sono sempre stati gli stessi. Tutte queste partite sono accomunate dal confronto tra una squadra esperta e con una rosa profonda e/o affermata, e una – quella di Klopp – spesso poco avvezza al contesto di una finale, specie se continentale, e con una rosa molto ristretta e meno talentuosa.
Emblematica in questo aspetto è la finale di quest’anno: all’infortunio di Salah ha dovuto sopperire Lallana; dall’altra parte, quando Zidane ha sostituito Isco, a prendere il suo posto è stato Bale. Nonostante una serata molto sottotono di Cristiano Ronaldo, sappiamo com’è finita. Senza contare che parte dei titolari era composta da debuttanti assoluti come Trent Alexander-Arnold (pescato a inizio stagione dalle giovanili per mancanza di terzini) o Andy Robertson (acquistato in estate dal QPR). La mancanza di esperienza è ciò che ti fa tremare le gambe, la mancanza di solide seconde linee è ciò che te le taglia.
La mancanza di un Piano B. Il calcio proposto da Klopp, quell’heavy metal football che lo caratterizza e che ha fatto innamorare i suoi estimatori, funziona alla perfezione contro gli avversari di livello pari o superiore, che non attendano passivamente difendendo dietro la linea del pallone ma che vengano a pressare alto, creando gli spazi nel quale giocatori come Salah, Firmino e Mané hanno prosperato per tutta la stagione. Quando invece l’avversario lascia che sia, in questo caso, il Liverpool a gestire, difendendo con compattezza, trovare il gol diventa più difficile. Non per forza per inferiorità sul piano tecnico. Lo stesso Real, nei primi minuti della partita, ossia quelli con Salah in campo e il Liverpool in controllo, ha preferito attendere senza forzare l’affondo.
Senza Salah, le cose si sono fatte ancor più semplici. È bastato ingabbiare Firmino, impedendogli di ricevere palla e di impostare, per spegnere il Liverpool. Questo è imputabile da una parte alla ristrettezza della rosa, che impedisce di cambiare tattica con interpreti ad essa più adeguati; dall’altra, a una mancanza di soluzioni proposte dall’allenatore. Quando il Liverpool non riesce a impostare la partita come vuole, appare spaesato. È forse questo il gradino da scalare per Klopp per passare dall’essere un grande allenatore all’essere un allenatore vincente. Occorre una sorta di processo, che forse è già iniziato, forse no; solo il tempo potrà dircelo. A Liverpool ne sono convinti, tanto da festeggiare una sconfitta come l’inizio di qualcosa di grande.
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