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Vita quotidiana di un villaggio africano. Il racconto di Gianni Celati

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Maria Letizia Camparsi

In Occidente c’è un’idea molto vaga di come si vive realmente nei villaggi africani. L’immagine che ci viene riportata appare spesso come offuscata da un velo di ipocrisia e reticenza: è il pietismo che sopraffà il realismo. Non sono molti poi gli scrittori italiani ad aver fatto un’esperienza nel continente nero e ad avercela raccontata. Ma Gianni Celati ha fatto questo sforzo e, tramite gli appunti presi nelle lande dell’Africa nord-occidentale, cerca di restituirci i tratti più interessanti di uno stile di vita e di una cultura lontana dalla nostra.

I villaggi africani

Fuori dagli sporadici centri urbani della fascia sahariana si estendono fino all’orizzonte il deserto e la savana. Ed è proprio qui che si insedia la maggior parte della popolazione, raccolta tendenzialmente in piccoli villaggi di qualche centinaia di abitanti, fatta eccezione per qualche aggregato di dimensioni più consistenti. Il passato dell’Africa affonda le sue radici tra quelle capanne di paglia, dove la vita ha un altro ritmo, più lento, e dove si vive ancora come si faceva nelle generazioni passate. Si mantengono vivi i riti tribali, si parla un dialetto indigeno e la quotidianità profuma ancora di autoctono. Sembra che non ci sia nessuna traccia del processo di occidentalizzazione a cui sono state sottoposte le città.

Gianni Celati ci racconta questa parte di spettacolo che raramente finisce sotto i riflettori. In tre anni di frequenti viaggi in Senegal, dal 2003 al 2006, ha realizzato un libro, Passar la vita a Diol Kadd, e girato un documentario, Vita, diari e riprese in un villaggio del Senegal. Con questi strumenti l’autore ha cercato di riportare la realtà così com’è, senza morali sottintese o scopi secondari. «Vorrei che tutto apparisse meno romanzesco possibile – chiosa lo scrittore all’inizio del libro –, perché non se ne può più di queste vite da romanzo a cui dovrebbe somigliare anche la nostra. Qui non c’è niente che possa attirare le frettolose chiacchiere dell’attualità. Giorno per giorno, passa la vita e basta».

Diol Kadd

Diol Kadd, sede delle lunghe permanenze di Celati, è un villaggio wolof (nome del gruppo etnico e della lingua) di trecento abitanti, «piantato nella grande savana che va dagli ultimi quartieri di Dakar al confine settentrionale del Senegal». Le immagini della sua penna e quelle dei suoi cameramen, Lamberto Borsetti e Paolo Muran, ci restituiscono una prospettiva inedita da cui poter ammirare la quotidianità africana.

Il villaggio possiede una piccola scuola, una “moschea-casotto”, quattro pozzi.  In ogni cortile ci sono dalle tre alle cinque capanne, per viverci, per dormirci, per gli attrezzi e per le riserve. E i limiti delle dimore sono segnati da siepi o da stuoie di canna. Nelle strade circolano liberamente galline, capre, cani, uccelli locali e lucertole. La base di sussistenza è la coltivazione del miglio e delle arachidi, lavoro che impegna per sei o sette mesi all’anno.
Diol Kadd è un posto così poco considerato, vista la mancanza di miniere o qualsivoglia fonte di guadagni, che non esiste su nessuna cartina geografica, «e gli amministratori regionali hanno perfino deviato un fiumiciattolo che gli passava accanto».

Regime femminile

Diol Kadd è un villaggio guidato soprattutto dalle donne. «Qui la vita scorre lenta e pacifica, con una tranquillità dovuta al fatto che gran parte degli uomini sono assenti (perché al lavoro in città o nei campi)». Le donne si svegliano all’alba e durante la mattina escono a fare la spesa, a prendere l’acqua al pozzo o a fare altri lavori. Nel pomeriggio, condividono lo spazio dei cortili e svolgono le loro attività chiacchierando e parlando sempre con umorismo. La vita qui è tenuta al minimo, ma le donne hanno una grande capacità di salvaguardare le apparenze, col portamento, coi modi cortesi.

Assenza di mitologia dell’amore

La mitologia dell’amore non si è mai imposta nei villaggi africani. A Diol Kadd, poi, vige la regola del matrimonio tra cugini, al fine di creare raccordi e legami prestabiliti, tanto che si può dire che quasi tutto il villaggio sia imparentato. I coniugi sono scelti dagli anziani, che detengono il maggior prestigio sociale, e capita spesso che combinino due cugini che non si sono mai visti tra loro.

Questo legame ha solo uno scopo pratico: generare dei figli per i lavori agricoli, per le faccende della casa e altri bisogni. Nella famiglia c’è quindi una forma di solidarietà, soprattutto nel lavoro dei campi, dove si collabora e ci si coordina. Tuttavia, tutto ciò che noi consideriamo passione amorosa lì non si manifesta e di fatto non ha senso. Gli uomini possono anche essere poligami, e spesso le mogli in concorrenza devono convivere nello stesso cortile (a volte succede pacificamente, a volte meno). «Dalle nostre parti la cosa è un po’ diversa – nota Celati –: l’eros sta in piedi come facciata, o come vestiario per far bella figura, o come cosmesi di viso e seno».

Abbigliamento

In passato le stoffe si coloravano in casa, secondo l’etnia, la confraternita, l’età, le circostanze. Ora la situazione è diversa. I ragazzi indossano solitamente dei vestiti simili ai nostri: pantaloni, camicie, magliette e nessun vestito folkloristico. Gli adulti, invece, quando non lavorano, mettono una tunica bubù (abito colorato), a indicare la loro autorevolezza di anziani. Le ragazze, poi, hanno tuniche semplici, di stoffa e taglio non pregiate, senza decorazioni particolari, e non portano il turbante. Ma, a differenza loro, le signore, nelle occasioni speciali, sfoggiano vesti di colori e taglio distinti, belli e sfarzosi, a dimostrare l’autorità di carriera coniugale. «Con quei vestiti da guardare a lungo – annota lo scrittore –, ognuna di quelle matrone trovava la propria unicità riconoscibile, ed era manifestamente contenta di mostrarsi così».

Credenze e sepolture

In molte zone dell’Africa settentrionale non c’è il culto dei defunti. «L’impressione che ho avuto in Tunisia, nel Mali, e nelle zone centrali del Senegal – scrive Celati –, è che sia abolita ogni glorificazione dell’individuo, lasciando che si mescoli con la terra da cui proviene». A Diol Kadd i morti vengono seppelliti sotto quello che rimane di un’antica foresta di baobab. Quelle piante, per la loro importanza, creano una sorta di luogo d’onore. Seguono poi anche dei cimiteri fatti di sabbia lungo la costa di Dakar. Ma in entrambi i luoghi non c’è alcun segno che indichi le sepolture.

Il loro modo di celebrare i parenti scomparsi, dunque, è quello di conservare memoria delle generazioni, anche quelle lontane. C’è poi un alone di misticismo che ammanta la questione delle sepolture. Il signor Balla N’Diaye, ad esempio, ha parlato allo scrittore di un sito che si trova vicino a casa sua, sotto due baobab, e dove verrà seppellito anche lui: «Ci ha spiegato che lì sotto ci sono sei strati di morti –riporta Celati –, e che un tempo esistevano arti magiche per aprire fessure, in modo da seppellire i morti più facilmente. […] In lui c’era il senso di una prossima chiamata della morte: chiamata senza alcun dolore, ma come ricongiunzione con gli altri sistemati sotto terra». Le persone come il signor Balla sono le ultime depositarie di una cultura animista, con le sue credenze magiche sulle malattie e i miracoli, sulla vita e la morte. La religione ufficiale infatti è quella islamica, ma nella variante della dottrina dei Murid, basata fondamentalmente sui principi della carità e dell’amore.

La saggezza degli anziani

Nella piazza di Diol Kadd c’è una tettoia, detta mbardat, «in qualche modo sacrale o rituale». È il luogo dove un tempo i capi del villaggio si riunivano per discutere i problemi locali, ma non è improbabile che ancora oggi si riuniscano lì sotto per trattare questioni di grande importanza. Ora è frequentata da pochi anziani che vanno lì a chiacchierare. «Da notare che i sedili non sono fatti per sedersi, bensì per sdraiarsi su assi piatte – nota Celati –. E lo dico perché la stessa pratica è ancora usata dai Dogon di Bandiagara, dove si dice che i capi trattino i problemi da risolvere in posizione supina, bevendo birra di miglio per raggiungere uno stato d’ebbrezza e avere delle visioni». Anche in Casamance esiste una struttura simile dove gli anziani si riuniscono e, secondo quanto è stato raccontato allo scrittore, in simili situazioni l’interno della tettoia «si riempie di djinn (gli spiritelli del deserto) in lotta per prevalere nelle decisioni da prendere, e se qualcuno non è addestrato a sopportare quegli scontri animisti non può sopportare la situazione».

Il ballo

Ogni lunedì, giorno in cui non si lavora la terra, le signore dei Diol Kadd indossano gli abiti più belli e si radunano in piccole feste. «In uno di questi lunedì ho visto che le signore vogliono soprattutto ballare – racconta Celati –. Ballano da sole o tre insieme, guardandosi con sorrisi di complicità: e lo fanno tutti i momenti, con i mezzi musicali più semplici, come il ritmo di danza battuto su un catino». Esiste poi una vera e propria ricorrenza caratterizzata da musica e danze scatenate, il sabar. In quell’occasione il ritmo è dato soprattutto dalle percussioni, e idealmente ci dovrebbe essere un’orchestra di dodici tamburi, ognuno con un nome e una funzione speciale. Solitamente si forma un cerchio, e le donne si lanciano dentro come risucchiate, ma dopo qualche mossa corrono fuori «come per non eccitarsi troppo, o come se si vergognassero del loro impudore».

Il sabar è una festa femminile, con sottintesi circa i rapporti con i mariti. In origine, infatti, era un raduno che aveva luogo per risolvere i problemi presenti nelle famiglie, in particolare quelle poligame. Oggi, invece, quello che rimane è «lo scatenamento di gesti e passi e salti che fanno pensare a qualcosa di non domato». E poi «certe donne si lanciano come in un raptus, fissando davanti a sé senza vedere niente, e il raptus va a parare nella mossa provocante, quella di sollevare il lembo della sottana o qualche volta del corpetto: gesto che di solito scatena risate come un’azione spericolata. Nessuna donna è obbligata a entrare nel cerchio del sabar, e chi vi entra lo fa come un atto di libertà».

In definitiva, la vita nei villaggi africani ha un aspetto molto diverso dalla nostra. Dalla struttura sociale agli impegni quotidiani, dal ritmo della vita alla mentalità. Gli abitanti vivono in comunità molto unite rispetto a quanto non facciamo noi e godono di una serenità che non fa invidiare loro il processo di modernizzazione del mondo Occidentale.

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Maria Letizia Camparsi

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