Alice Rohrwacher è una regista italiana, e questo sembra già porla, almeno sul piano internazionale, come una rappresentante di una minoranza ancora più ristretta. Lo scenario dei registi italiani odierni, quello più visibile, non è poi così vasto. A maggior ragione i nomi femminili si ricavano a fatica e si possono contare sul palmo di una mano. Questa giovane donna per metà tedesca ha goduto sin dal suo esordio di una benevola attenzione dall’estero: Corpo celeste (2011) è stato presentato nella sezione della Quinzaine des réalisateurs di Cannes, vincendo poi in patria il Nastro d’argento come miglior regista esordiente. I due film successivi non fanno che confermare la stima accordata dal festival francese alla sua opera: ha vinto il Premio Speciale della Giuria nel 2014 per Le meraviglie e ora, nell’ultima edizione, il suo Lazzaro felice ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura in ex-aequo con Three Faces di Jafar Panahi. Ricordiamo inoltre che durante Cannes 2018 è stato presentato nella sezione Un Certain Regard Euforia di Valeria Golino. Anche lei fu premiata con il Nastro d’Argento per il miglior regista esordiente per Miele (2013), ma a questo turno non ha portato a casa alcun riconoscimento. La Rohrwacher invece ora è ben festeggiata dai suoi connazionali, e approfittiamo del momento di attenzione accordatole per ricordare proprio il suo primo film, Corpo celeste, che già rendeva buoni auspici per il suo futuro sviluppo artistico.
Nel percorso della maggior parte dei ragazzi cattolici la cresima coincide con l’emergere della prima pubertà. Così è anche per Marta (Yle Vianello), giovane tredicenne che torna con la madre e la sorella a Reggio Calabria, dopo aver vissuto per dieci anni in Svizzera. Qui riprende il suo percorso con il catechismo, dove la catechista Santa (Pasqualina Scuncia) fa leggere ad uno dei suoi ragazzi queste parole: «Stai crescendo ed è per te un’esperienza stupefacente. Quante novità ogni giorno: la tua voce cambia, il tuo corpo si trasforma. Ti senti annoiato, depresso. Non conosci il tuo posto nel mondo. Noi lo sappiamo: è la Chiesa la risposta che stai cercando». Marta affronta davvero un periodo del tutto nuovo e in cui tutto le è estraneo: un’altra città, un’altra comunità a cui adattarsi e soprattutto un ribollìo sotterraneo di piccoli cambiamenti nel suo corpo, ma anche di inquietudini, domande. Il suo sguardo esplora l’ambiente circostante con silenziosa curiosità, scrutando i volti degli adulti, il degrado urbano appena sotto casa sua. Guarda anche sé stessa allo specchio, e accoglie sollecita un primo segno del suo seno in sviluppo, indossando di nascosto i reggiseni della sorella. Si affaccia ad un nuovo stato di vita con tutto il mistero che contiene, ombre appena sfiorate, nuovi pesi da sostenere, un senso grave inedito. E la religione cattolica amplifica le sue perplessità: una cultura biblica che non conosce, la figura di Gesù ancora sfuggente. Allo stesso tempo il sacramento che sta per ricevere le chiede una conferma della propria fede, su cui non si era interrogata prima. Rohrwacher infatti mostra un percorso propedeutico dove il cresimando dovrebbe essere parte attiva, associandolo al racconto di formazione. Si orienta così nella visione del sacramento come un rito di passaggio che coinvolge anche la crescita naturale di chi lo riceve. Non è soltanto come un suggello che arriva dall’alto, ma un’adesione che è promossa dalla catechista con un tipico lessico militaresco, descrivendo il nuovo ruolo dei cresimandi come «soldati di Dio». Così la sua preadolescenza, nel suo passaggio dall’innocenza dell’infanzia ai turbamenti successivi, si colora anche di una fase di transizione sulla profondità della sua religione, a cui fino a quel momento apparteneva soltanto passivamente, come la maggior parte dei suoi coetanei. Il corpo di Gesù viene posto come radicalmente diverso, «un corpo spirituale, celestiale, santo». Rohrwacher pone una prima soglia di osservazione dedicata al corpo: il corpo di Marta che si sviluppa, e con esso guarda all’iconografia del corpo di Gesù, tramite il crocifisso. Quest’ultimo sovrasta la sua entrata in comunità: appare sin dalla prima scena, dal momento in cui Marta si presenta alla catechista, nella confusione della sera e della folla. Il crocifisso è posto su un palco, dove il parroco, don Mario (Salvatore Cantalupo), annuncia l’arrivo imminente del vescovo. È un segno di appartenenza della comunità, riunita dalla stessa fede e pronta a mostrarsi agli occhi di un ordine superiore della Chiesa come esemplare. Il credo religioso qui si pone davvero come cementificazione – per nulla spoglia di intenti politici – e unificazione di un paese, tramite le pratiche ricorrenti previste da esso, alcune legittime, altre no. Chi assiste a questa vita collettiva è una bambina che viene da fuori, e a cui sembra che siano proprio i suoi componenti a porre la fede e la figura di Gesù come distanti, poco comprensibili, avvicinabili.
È significativo che sin da subito sia posta una distanza tra le parole del parroco e l’effettiva realtà sociale. Don Mario, inquadrato sul suo palco, è desideroso di presentarsi bene al vescovo come responsabile della sua comunità, «rinnovata nella fede» e capace di «calore e letizia». Rohrwacher però compie uno stacco ironico sul suo pubblico, i suoi fedeli: gli sguardi sono inermi, annoiati, volti popolari, e uno di essi porta in mano uno Spiderman gonfiabile (nuovo modello supereroistico della cultura contemporanea, amichevole, un corpo umano, ma non del tutto come gli altri, a sua volta dotato di poteri straordinari). Dei pupazzi di tratti folkloristici aleggiano sopra le teste dei fedeli riuniti e pongono una differenza mimica notevole: sono grandi, sorridenti e fissi. Sono l’immagine di una cultura tradizionale regionale che non trova più un uguale riscontro nell’attualità. Così anche alcune donne anziane si spostano in gruppo nel paesaggio urbano, intonando un canto popolare che ha un sentore antico, dove le parole non sono distinguibili da Marta. La contemporaneità dei bambini e dei nuovi adulti si compone di nuovi ritmi familiari. Infatti nel nucleo familiare della protagonista manca il padre e la madre Rita si trova quindi ad essere l’unica responsabile del sostentamento della famiglia, i pasti in comune – un tempo considerati un rituale importante e simbolo di una buona fusione della famiglia – non sono più praticati, perché Rita ha turni serali e notturni, mentre di giorno dorme. Marta si ritrova a prepararsi da sola da mangiare con confezioni surgelate. La piccola cugina inoltre guarda affascinata gli spettacoli di varietà in televisione, imitando i balletti delle vallette, professione a cui aspirano molte cresimande come Marta.
La Chiesa non è più frequentata da gran parte della popolazione adulta e adolescenziale, e i preadolescenti si mostrano inermi durante le lezioni, concepite molto spesso come un surplus della settimana scolastica da subire, un’ultima formalità da eseguire prima di superare definitivamente questo ciclo educativo. Quest’ultimo è una parte fantasmatica, monca delle loro prassi culturali, ma ancora presente. Il parroco e le catechiste tentano un avvicinamento del tutto esteriore alle ultime generazioni. Santa, figura di fattezze a sua volta popolari, triste, grottesca e con un velo di xenofobia, impartisce il catechismo in maniera del tutto nozionistica. Mostra gli insegnamenti del Vangelo come una filastrocca da imparare a memoria, dove le domande di verifica di quanto appreso sono alla stregua di un quiz («Chi compone la Chiesa? Papa e sacerdoti, extracomunitari, popolo di Dio o esseri vegetali?»; «…La accendiamo?»). Contribuisce inoltre a preparare la cerimonia della cresima come un evento molto più mondano che istituzionale e austero, preparando un balletto in cui l’imitazione della televisione non è scoraggiata, ma anche un canto con i ragazzi dedicato a Dio dove le sonorità gravi della musica sacra sono del tutto sostituite da facili melodie pop («Mi sintonizzo con Dio! È la frequenza giusta!»). Don Mario si presenta sin da subito a Marta con un volto poco affettivo, non prende parte alla vita dei suoi parrocchiani più giovani nemmeno nel luogo in cui riesce ancora ad averli riuniti e vicini. Ciò a cui invece dà attenzione è il senso più gerarchico e politico della propria mansione: attende e spera di essere chiamato per una parrocchia più grande e importante, magari di essere fatto anche vescovo. Si dice pronto ad accogliere responsabilità più grandi, ma non presta attenzione nemmeno ai parrocchiani che fanno affidamento su di lui nel suo più piccolo presente (Rohrwacher non risparmia neanche gli ecclesiasti di ordine superiore, in quanto anche il vescovo, volto remoto, pieno di alterigia sarà indifferente alle attività dei ragazzi). Si mostra invece molto più sollecito e attivo sul fronte politico, dal momento che viene sfruttato da un candidato alle prossime elezioni comunali perché usi le sue conoscenze ramificate e il suo ruolo esterno per andare di casa in casa dai suoi fedeli e raccogliere voti promessi con una firma. L’apporto di rinnovamento di don Mario a questo nuovo ciclo di cresime è soltanto un «crocifisso figurativo», anche se ai ragazzi non è affatto chiaro quale sia il punto di svolta e cosa significhi, domandando piuttosto se si tratti di un nudo integrale. L’essenza più penetrante del messaggio evangelico e della religione cristiana quindi non abita la parrocchia del suo paese, di conseguenza la crescita spirituale di Marta trova una barriera, le sue inquietudini e il suo smarrimento nel mondo non vedono in una Chiesa un’accogliente e definitiva dimora. L’esplorazione dell’ambiente, sempre nella prospettiva del racconto di formazione, non viene espressa soltanto ad un’osservazione visuale, da vasti panoramiche cittadine a piccoli esseri animali e esseri umani, ma anche da una perlustrazione tattile. Santa infatti porta i bambini in chiesa, facendoli bendare perché ne tocchino l’arredamento. La fascia che chiude la vista a Marta si riveste di un chiaro simbolismo. È uno stato esistenziale, la fa brancolare nel luogo di un’autorità costituita un tempo forte, nella sua rappresentazione più istituzionale e ricca di contraddizioni, fatiche a stare al passo con la contemporaneità.
Il senso di mistero di Marta verso la figura di Gesù si raddensa su alcune sue parole in aramaico, «Elì, Elì, lemà sabactàni?» che Santa non si dà pena di spiegarle, occupata ad organizzare la cerimonia. Ma saranno proprio queste a dare una svolta al suo percorso, una rivelazione cruciale che arriva insieme alle prime mestruazioni. Intenerita da alcuni cuccioli di gatto trovati in una scatola, Marta si allarma quando vede Santa darli ad un uomo che si incarica di affogarli. Santa non fa che allontanarsi da un comportamento amorevole, obbedendo piuttosto a impulsi, timori e ignoranza della sua provenienza popolare. Seguire l’uomo per salvare quei gatti significa calarsi ancora di più nella periferia del degrado cittadino, da cui verrà ripescata per caso da don Mario, sulla strada. Essendo prevista la cerimonia entro poche ore, don Mario decide di non riportarla indietro a casa, ma con sé, per andare nel suo paese di origine a recuperare il crocifisso figurativo (al posto di quello al neon che si vede nella seconda immagine, unico presente). Il paese è disabitato, con edifici rovinati, pieni di resti scomposti, macerie, e non è casuale che proprio lì l’iconografia di Gesù sia rimasta, piena di polvere. Alla chiesa vuota è associato un altro parroco, don Lorenzo (Renato Carpientieri). Marta non ha chiesto ulteriori chiarimenti sul significato delle parole in aramaico a don Mario, diffidente e poco a suo agio con i suoi modi di fare, mentre la domanda giunge del tutto naturale con don Lorenzo, che porta anche il vantaggio di essere ancora sconosciuto. Il prete sfata l’immagine infantile di Gesù come sorridente, benevolo e indulgente, dicendo che le parole di quel preciso passo biblico significano «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», e raccontando con poche e lapidarie parole, dense di una frustrazione personale, che Gesù era invece arrabbiato, furioso, vagante di comunità in comunità per compiere miracoli, e stanco delle domande assillanti dei suoi discepoli, dotati di scarsa immaginazione, sempre bisognosi di precisi chiarimenti sui suoi atti soprannaturali e per di più inclini a scandalizzarsi. Un’immagine di Gesù come diverso da tutti gli altri, non immortalato però in una venerazione frivola, ma scavato, scoperto come disadattato, non conforme alla mentalità comune e seccato, inquieto. Essa colpisce l’interiorità della bambina, rivelando meglio anche la fede poco autentica di don Mario e di una parte consistente del clero, confidante nell’indulgenza. Marta familiarizza con il corpo celeste di nuovo tramite un senso tattile, guardando il crocifisso e toccandolo. Questo senso tattile però non è più bendato, ma si accompagna ad occhi nuovi, non quelli soltanto recitati in modo esasperato a catechismo. L’estraneità di Gesù, la sua frustrazione trova una risonanza nel piccolo della vita di Marta, nella sua integrazione frastagliata e nei suoi turbamenti morali che non sembrano toccare i suoi coetanei, come la mentalità limitata della sua comunità. Rohrwacher sembra azzardare addirittura una corrispondenza tra i due corpi, tra sacro e profano, mostrando Marta che cammina dentro l’acqua del canale periferico, che nel contesto può richiamare vagamente a Gesù. Echeggia un’associazione di stampo pasoliniano, un autore cinematografico che ha influenzato anche il compagno italiano di Lazzaro felice a Cannes 2018, Dogman, con cui Corpo celeste condivide anche un interprete, Marcello Fonte, che compare brevemente in un ruolo secondario.
Allora la presa di coscienza è un distanziamento più fermo allora dai luoghi istituzionali, dal mondo di Santa e di don Mario, per trovare l’autonomia intellettiva, la poesia, la bellezza e l’amore per la vita in una propria strada accidentata e avventurosa, personale. Non è un caso d’altronde che il crocifisso figurativo, non sarà presente alla cerimonia della cresima, a simbolo del fallimento di un certo clero, rimanendo invece fuori da essa proprio come Marta, nell’ambiente naturale.
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