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Il vertice di Singapore: faccia a faccia tra Trump e Kim

Published by
Carlo Paganessi

Per tutto il 2017 i venti di guerra hanno spirato sul Pacifico tra Corea del Nord e Washington, alimentati dalla corsa alle armi atomiche da parte del regime di Pyongyang da un lato e dalla volontà di porre fine a tale progetto da parte degli Stati Uniti, spaventati sia dalle continue minacce che dalla possibile escalation e dall’instabilità in Asia Orientale. Al termine dell’anno la maggior parte degli indizi provenienti dai test dimostrava che la Corea del Nord aveva tagliato il traguardo e aveva ottenuto un ordigno nucleare, la capacità di miniaturizzarlo, e un vettore affidabile che lo possa portare a destinazione. Da quel momento in poi l’apertura verso la Corea del Sud del nuovo presidente Moon, la disponibilità a un incontro con l’omologo statunitense e il lavoro dei servizi d’intelligence (che hanno rubato la scena alla diplomazia, risultata inefficace) hanno reso possibile una distensione dei rapporti tra Pyongyang e Washington poi culminata con il Vertice di Singapore della scorsa settimana.

I due leader si sono incontrati a Singapore presso il Capella Hotel, sull’isola di Sentosa. Da parte statunitense l’incontro partiva con la speranza di convincere Kim a denuclearizzare completamente il paese (rimuovendo le testate costruite sino ad ora) mentre nel lungo periodo si sarebbe dovuto impostare un trattato di pace con il Sud: le relazioni al momento sono lontane dalla normalizzazione dato che si reggono su un semplice cessate il fuoco. Dalla parte nordcoreana, al contrario, gli obiettivi principali erano due: la cessazione delle esercitazioni militari congiunte tra Stati Uniti e Corea del Sud e l’eliminazione delle sanzioni poste a carico di Pyongyang dopo i test (sia missilistiche che nucleari) effettuati in questi ultimi anni.

Il Capella Hotel sull’Isola di Sentosa. Capella Hotel

Dopo due giorni di discussioni e di dichiarazioni reciproche, le due parti sono giunte al termine dei lavori dopo un pranzo di lavoro al termine del quale i due leader hanno firmato una dichiarazione congiunta basata su quattro punti:

  • Normalizzazione delle relazioni tra Stati Uniti e Corea del Nord;
  • Unione degli sforzi statunitensi e nordcoreani per costruire un futuro di pace;
  • Dare seguito alla dichiarazioni di Panmunjon del 28 Aprile scorso e denuclearizzare la penisola coreana;
  • Rimpatrio delle spoglie dei soldati americani.

Dopo i saluti di rito e la chiusura dei lavori, entrambi i leader sono tornati nei rispettivi paesi. Se Trump ha presentato la cosa alla propria opinione pubblica come un successo, Kim ha detto che le notizie riguardanti l’apertura verso Washington avrebbero suscitato scalpore in Corea del Nord, a tal punto che i suoi connazionali l’avrebbero creduto fantascienza. I timori di Kim sono fondati, dato che la propaganda nordcoreana ha sempre presentato al popolo gli Stati Uniti come il suo principale avversario e una svolta così repentina può essere decisamente sconvolgente.

Buona parte dell’opinione pubblica ha applaudito l’iniziativa del vertice, ma gli addetti ai lavori hanno mostrato spesso un entusiasmo decisamente più contenuto. Se una parte della narrativa pubblica pone Trump come un fiero negoziatore, in grado di ricondurre Kim a più miti consigli, i commentatori internazionali sottolineano una lunga serie di problematiche legate all’esito del vertice di Singapore. Il primo e più importante riguarda la consistenza di quanto uscito dal vertice: la dichiarazione di Panmunjon è una mera dichiarazione di intenti e la sua riaffermazione, avvenuta durante il meeting, deve essere posta sul medesimo piano. La dichiarazione di Panmunjon impegna a lavorare all’obbiettivo della denuclearizzazione, non a denuclearizzare. Questo significa che non vengono poste scadenze né itinerari da percorrere nel corso dei prossimi anni. Quello della denuclearizzazione della penisola coreana è un concetto piuttosto ampio che arriva a ricomprendere anche la possibilità che un domani gli Stati Uniti si disinteressino della penisola coreana annullando l’alleanza con il Sud e smettendo di proteggere Seul con le proprie armi nucleari. Tale eventualità farebbe gioco anche a Cina e Russia che hanno sempre visto le truppe americane in Asia nordorientale come una minaccia e una spina nel fianco.

Il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. AP

Ora, la Corea del Nord è quello che in scienza politica si definisce un “sultanato”, ovvero uno stato “di proprietà” di una sola persona. Altri esempi nel mondo sono l’Eritrea di Afewerki o la Guinea Equitoriale di Obiang. La diplomazia con stati che presentano un simile ordinamento è sempre difficoltosa, dato che l’attenzione nel processo negoziale si sposta dall’interesse nazionale a quello privato, spesso più difficile da prevedere e assecondare. Pertanto, Kim potrebbe decidere di annullare da un momento all’altro gli accordi di Panmunjon senza subire alcuna ripercussione personale sul piano interno.

La Corea del Nord si è impegnata altre volte a denuclearizzare la penisola coreana prima del Vertice di Singapore, ma gli accordi sono sempre saltati per un motivo o per un altro: dichiarazioni simili tra Pyongyang e Washington furono espresse nel 1994 e nel 2005, ma i primi sono sempre tornati sui propri passi, sebbene nella prima occasione l’intento rimase in piedi per cinque anni e la sua cancellazione vede una forte responsabilità statunitense che non accolse determinate richieste nordcoreane.

Il leader nordcoreano Kim Jong Un. Reuters

Altro punto critico riguarda il fatto che Trump, solo accettando di sedersi al tavolo con Kim, ha dato legittimità a un regime definito “canaglia” fino a pochissimo tempo fa solo, legittimando quindi anche le azioni sul piano interno. La produzione di accordi di questo tipo fornisce invece a Kim un ulteriore strumento di propaganda da potersi rivendere sia sul piano interno (il leader che riesce laddove padre e nonno avevano fallito, ovvero farsi sentire dagli Stati Uniti) che internazionale (uscendo da un incontro dove è stato messo alla pari della maggior potenza economica e militare sul pianeta).

Il sunto finale del vertice di Singapore è che sembra vi sia più fumo che arrosto, ma che soprattutto Trump abbia concesso davvero molto (la fine dei giochi di guerra con la Corea del Sud, la fine delle sanzioni e l’alleggerimento dell’impegno in Estremo Oriente) a fronte di un impegno senza scadenze e senza una road map già prefissata tendente alla denuclearizzazione della penisola coreana, obiettivo che se espresso appieno obbligherà anche gli Stati Uniti a lasciare un importante caposaldo della propria presenza in Estremo Oriente ma soprattutto nel Pacifico, sempre più destinato a diventare un punto cardine del XXI secolo. Trump, dal canto proprio, ha gestito il vertice di Singapore mostrandosi all’opinione come un grande negoziatore, ma il risultato del negoziato dice chiaramente l’opposto. Il vertice si dimostra come l’ennesima puntata della vicenda nucleare nordcoreana, la cui gestione da parte della Casa Bianca è stata, una volta di più, fallace e priva di sufficiente nervo.

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Carlo Paganessi

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