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Un’analisi storica: la scelta di De Gasperi e Togliatti

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Pietro Lepidi

Sebbene i deputati presenti nella Costituente, eletta il 2 giugno del 1946, fossero accomunati da una certa idea di Italia, ispirata ai principi di moralità, tolleranza, democrazia, giustizia e libertà, di certo la ricerca di zona franca condivisa da tutti è un’opera nella teoria politica impossibile. Perfino sulla forma di governo democratico e sulla rappresentanza parlamentare c’erano enormi differenze concettuali tra la democrazia popolare rappresentativa di tutte le classi e la democrazia socialista collettivista e di classe. Come potevano Sturzo e Gramsci concordare su una linea come i loro eredi politici fecero in Costituente? Sicuramente il leader comunista aveva grande stima per il movimento “di cattolici” che creò Sturzo, tanto da scrivere: «Il costituirsi dei cattolici in partito politico è il fatto più grande della storia italiana dopo il Risorgimento». Tuttavia, allo stesso tempo, ciò non significava che Gramsci fosse sensibile ai valori ideali del cattolicesimo come concezione generale della vita e ancor meno come “verità relativa”.

Per quanto riguarda la convinzione dei leader dei partiti di massa a seguire le rispettive ideologie di partito in Costituente, essi non la rinnegarono mai. Da un lato De Gasperi, in un discorso del 1945 a Milano, disse: «Non ditemi conservatore, perché́ io vi rispondo: sì sono conservatore, quando si tratta di conservare le principali libertà della vita pubblica e soprattutto le libertà religiose; sono conservatore, perché́ perderle vorrebbe dire perdere le ragioni stesse dell’esistenza». Dall’altra, Aldo Agostini riportò quanto per Togliatti non venisse mai meno «La convinzione che la democrazia socialista, così come è stata realizzata nell’URSS, è la più compiuta forma di democrazia possibile, superiore quindi a quella che le condizioni obiettive consentono di realizzare in Italia».

De Gasperi raffigurato dal Time nel 1953.

Il 2 giugno 1946 si tennero le prime elezioni in Italia dopo venticinque anni di dittatura. Il partito di De Gasperi ottenne la maggioranza relativa (il 35%), meno seggi di quelli assegnati a quello che diventerà nel 1947 il Fronte Democratico Popolare, ma abbastanza in linea teorica per tentare un governo con le destre rappresentate da liberali, qualunquisti e monarchici; quindi, abbastanza per scrivere una costituzione “di partito” e di ideologia conservatrice. Nel valutare questa ipotesi occorre considerare che nelle successive elezioni del 1948 molti moderati e conservatori di questi partiti di destra convergerono nella DC, facendo sì che il partito “di cattolici” potesse raggiungere la maggioranza assoluta e governare saldamente il paese.

Anche Palmiro Togliatti fu presente in una copertina del Time del 1947.

Probabilmente una costituzione ispirata a una linea ideologica moralmente e politicamente coerente avrebbe evitato quel «pateracchio» (come l’apostrofò Salvemini) che fu la nostra Costituzione e, inoltre, avrebbe istituito degli organi statali più efficienti e forti rispetto a quei principi della prima parte della Costituzione considerati platonicamente inoperanti; tuttavia, i leader dei partiti di massa scongiurarono le lotte intestine che avrebbe causato questa ipotetica Costituzione “di partito” grazie alla loro lungimiranza nel comprendere la situazione culturale e politica dell’Italia di allora.

Prima di considerare le motivazioni che hanno spinto alla scelta di un compromesso, è bene precisare che nel parlare delle decisioni dei più grandi leader dei partiti di massa saranno considerate solo le figure al vertice del Partito Comunista Italiano e della Democrazia Cristiana, omettendo così il ruolo di Nenni, allora alla guida del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria. Se si considera la storia della Costituente infatti, sebbene il partito di Nenni abbia ottenuto un successo clamoroso risultando la prima forza politica di sinistra e la seconda dopo la DC (con circa il 21% dei consensi), la sua linea politica andò sempre più coincidendo con la linea di Togliatti. Nel suo già citato discorso, De Gasperi racconta: «Quando una volta obiettai a Togliatti: Ma siete due o uno? Togliatti che sa di letteratura mi rispose ricordandomi la frase dantesca ‘ed eran due in uno e uno in due’» come a dire di trattare con i due partiti come un fronte unico. D’altra parte, se il risultato dei socialisti alle elezioni fu storico, lo fu forse di più quello dei comunisti che alle elezioni del 1921 (le ultime elezioni considerate libere prima del ventennio fascista) avevano ottenuto il 5% dei consensi per poi radicarsi nel territorio durante la guerra e la resistenza. In Costituente Nenni fu allineato alle decisioni di voto del partito comunista, tranne che per l’articolo 7, in relazione alla cui votazione si oppose coerente ai suoi valori laici.

Pietro Nenni, Anima Socialista.

Le ragioni che hanno spinto a superare le barriere culturali per creare un compromesso sono due: il bisogno di ricostruire politicamente e materialmente l’Italia allora dilaniata dalla Seconda Guerra Mondiale e dalla Guerra Civile e la vittoria dei partiti di massa sui tradizionali partiti d’élite e sull’ideologia fascista.

De Gasperi, nel 1944, si rivolge agli alleati pregandoli, da una parte, di assecondare la «ricostruzione morale e civile del paese», dall’altra, di aiutare con la ricostruzione «materiale” poiché «non dobbiamo dimenticare le zone distrutte, le immense zone distrutte». Poi, rivolgendosi al Paese: «per questo sforzo abbiamo bisogno di unità, abbiamo bisogno di collaborazione concorde[…] è chiaro che se gli uomini responsabili di tutti i partiti bloccassero una situazione[…] creerebbero una situazione diversa da quella che è oggi, che si fonda sull’equilibrio del compromesso» e ancora «è logico e responsabile che io questo oggi non lo faccia e chiedo che tutti nel Partito sentano la responsabilità e la dignità di non domandarmelo».

Sono dunque cause estranee alla lotta parlamentare, ma pertinenti alla grave situazione sociale, quelle che spingono il leader a chiedere un compromesso che non crei altre divisioni nella popolazione, ma unisca i maggiori partiti radicati nel territorio. Questa richiesta sembra ancora più ragionevole dopo aver considerato la distribuzione dei voti registrati nel 1946: i risultati fotografano un’Italia divisa tra un Nord progressista e repubblicano e un Sud conservatore e monarchico (in questo quadro è interessante l’eccezione del Nord-Est, specialmente il Veneto). I comunisti erano concentrati soprattutto in Emilia Romagna e Toscana, dove l’orientamento della base era quello di aspettare l’ora X in cui la democrazia progressiva avrebbe dovuto compiere il suo prossimo gradino e trasformare il “semi-fascismo» di allora in dittatura del proletariato. Ma fu Togliatti a opporsi alla violenza e allo spettro di una nuova guerra civile; il 12 marzo 1946 a Pisa disse: «La battaglia che noi iniziamo oggi deve essere una battaglia democratica, libera, ordinata, civile: non abbiamo bisogno oggi di nessuna violenza[…] oggi la violenza non serve. Oggi ci siamo riconquistati la libertà e nella libertà e con la libertà vogliamo vincere perché siamo sicuri di vincere». La sicurezza che queste parole del capo partito genovese possono infondere è direttamente proporzionale alla lunghezza temporale dell’oggi.

I comunisti avevano – come, del resto, i popolari – assoluta fiducia nel successo elettorale del 1946 e ancor di più del 1948, elezioni che, invece, rivelarono entrambe risultati deludenti. Anziché cercare una rottura definitiva con il passato fascista nella forma di un’azione incisiva che si proponesse di rivoluzionare tutto l’assetto costituzionale (linea che avrebbe trovato d’accordo gli esponenti del Partito D’Azione), il partito di Togliatti scelse di incidere nella Costituzione in modo più prudente attraverso una rottura concepita in maniera graduale. Egli infatti concepì il programma di una “democrazia progressiva”, in cui la Costituzione, attraverso un sistema parlamentare con ampi poteri legislativi, potesse gettare le basi per una futura espressione popolare presumibilmente di stampo socialista. Dopo un’analisi storica della coscienza politica degli italiani fatta da Togliatti, l’obbiettivo da perseguire in quest’ottica era, quindi, una Costituzione che, oltre a sancire il ripristino delle «elementari libertà del cittadino», fosse dotata di un impianto programmatico. In questo senso, la strategia del PCI si rivelò lungimirante perché riuscì a portare il suo contributo programmatico alla Costituente pur essendo partito di minoranza; i principi sociali progressisti, che sono inseriti nella Costituzione come conseguenza del compromesso, fungeranno spesso come legittimatori di lotte per la rivendicazione dei diritti sociali negli anni a seguire.

Ovviamente, su molte questioni il partito comunista dovette cedere alle richieste della Democrazia Cristiana che difese e portò avanti da partito di maggioranza i suoi valori religiosi e di decentramento statale, oltre che quelli di difesa della famiglia, della patria e della proprietà. Emblematica in questo senso è la linea tenuta dal PCI riguardo alla discussione dell’articolo 7: Togliatti, pur restando profondamente anti-clericale, vide la verità politica della necessità del consenso della Chiesa, mediando essa con la verità ideale della necessità di riformare il Concordato. Tanto fu clamorosa per la contraddizione ideale l’approvazione dell’articolo 7 che, non solo fu l’unica volta in cui si ruppe il Fronte Popolare, ma Croce, politico fermamente laico, a pagina 87 del suo diario scrive su questo articolo una pagina a tinte fosche in cui dipinge un’Italia non solo «umiliata dagli stranieri» e «persa», ma anche “sotto il giogo dei preti». Fu così che Togliatti dovette subire critiche da due fronti, quello interno, che lo accusava di eccessivo tatticismo con la DC, e quello esterno, che attaccava i suoi profondi legami con l’URSS: questo l’atteggiamento che sarà denominato Doppiezza Comunista. Come riporta Scoppola, la Doppiezza Comunista non va vista alla luce delle dinamiche interne di partito o di quelle internazionali che cominciavano a risentire del clima da Guerra Fredda, bensì alla luce della comprensione profonda della realtà sociale di cui faceva parte il paese.

Benedetto Croce in un discorso all’Assemblea Costituente del 24 luglio 1947, simbolo di un liberalismo sconfitto.

I partiti di massa nel compromesso non abnegarono i loro valori politici e allo stesso tempo diedero un forte segnale politico al paese affinché, in un momento di caos istituzionale, potesse reggersi su uno Stato solido non tanto nell’efficienza amministrativa quanto nel messaggio culturale democratico unitario. La Costituente era la prova vivente che la politica liberale d’élite da quel momento in avanti non avrebbe più avuto una rappresentanza politica e che, quindi, le decisioni esecutive sarebbero state prese da quei partiti che avessero dato priorità al radicamento nel territorio. Traniello ricorda come i partiti di massa non ebbero mai nel periodo prefascista responsabilità preminenti e questo fu per loro un grande vantaggio elettorale rispetto ai liberali, sui quali gravò l’accusa di aver permesso l’ascesa del fascismo. Nonostante ciò, non bastò allora essere antifascisti per avere la legittimazione popolare, allo stesso tempo i partiti avevano il compito di riaccendere la discussione politica nel popolo. Esempio visibile di questa necessità fu la rovinosa sconfitta del Partito D’Azione, partito che ebbe un ruolo importante nel CLN ma che riuscì a ottenere solo 7 seggi nel 1946. Gli azionisti rappresentarono l’ultimo tentativo dell’élite di creare un partito che assecondasse il bisogno di rinnovamento radicale nel dopoguerra ergendosi a guida, e cioè al di sopra, delle masse, tanto da considerare il popolarismo di De Gasperi come uno strumento per il ritorno alla restaurazione. Per tale ragione De Gasperi preferì scendere a compromessi con i propri ideali piuttosto che scrivere una costituzione con i liberali: quest’azione avrebbe voluto dire il tradimento del processo del paese verso la democrazia, la cui guida non andava garantita a chi avesse calibro per avere incarichi di governo, ma al popolo, che l’avrebbe esercitata secondo i soli limiti della Costituzione eleggendo un rappresentante, un ombudsman, legato alle sue tradizioni.

Il tanto citato compromesso in Costituente fu possibile grazie alla tempra e all’acume politico di coloro che seppero leggere la situazione sociale e culturale italiana del primissimo dopoguerra, superando il travaglio costituzionale con un risultato tutt’altro che scontato. In i partiti di governo e di massa di allora, la DC, il PCI e il PSdUP, non rinnegarono le loro ideologie ma le difesero, apportando tutti allo stesso tempo un contributo fondamentale nella stesura della Carta Costituzionale che oggi, al 70° anno dalla sua entrata in vigore, rimane un faro della democrazia rappresentativa (sulla necessità del compromesso in politica, invitiamo a consultare questo articolo).

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