La diversità culturale conta. Anche se oggi tendiamo sempre più a dimenticarcelo. Siamo un Paese come tanti altri: intorpiditi dalla tecnologia, omologati dalla moda, frastornati dal miscuglio politico di interessi che si spaccia in realtà per nitido conflitto di idee, di Destra e di Sinistra, di élite e di popolo. Una cosa ci rende però unici: una straordinaria ricchezza artistica e culturale, un patrimonio classico che, più che un retaggio, costituisce le nostre stesse fondamenta. Non sempre siamo capaci di valorizzarlo. Eppure, forse dovremmo ripartire proprio dalle nostre origini, per capire chi siamo.
Dai classici possiamo attingere anche oggi, in un mondo ormai dominato dal freddo rigore del calcolo, per trarne massime di vita e di comportamento adottabili anche a secoli di distanza. L’imperativo di insistere sul rispetto e l’accettazione dell’altro, che Greci e Romani, con le dovute (e numerose) eccezioni, sapevano in gran parte mettere in pratica, emerge da un’Italia sempre più vessata dal problema dell’immigrazione e dalle intrinseche e opposte polemiche a riguardo: un Paese frammentato tra l’indiscriminato perbenismo dei fautori di un’accoglienza anarchica e fuori controllo e i “mandiamoli a casa” dei campanilisti e degli intransigenti, diatriba che sfocia non di rado in ingiustificato razzismo.
È anche ora di smetterla con la solita retorica buonista e ipocrita quando si parla dell’altro: l’immigrazione è un fenomeno che in Italia sta raggiungendo proporzioni esorbitanti e che va controllato, perché è proprio il suo mancato (o fallimentare) arginamento a dare adito a sentimenti xenofobi e pregiudizi. Il clima di paura che il terrorismo ormai da anni alimenta non aiuta di certo: l’ansia che tra gli sventurati sbarcati sulle coste della nostra penisola possano annidarsi pazzi suicidi ed omicidi spinge innegabilmente a sprangare le porte dell’accoglienza.
Il seguente non intende essere un discorso sull’immigrazione e sugli annessi e indiscutibili problemi di fondo; piuttosto, un appello a chi cova sentimenti di rancore contro lo straniero semplicemente sulla base ingiustificata della sua diversità. Diverso per chi? Per l’europeo? L’occidentale? L’italiano? Forse non ci rendiamo conto di quanto relativiste e superficiali siano a volte le nostre affermazioni a riguardo.
Il nostro giudizio sull’altro non potrà mai prescindere dalla nostra ideologia culturale: quando ci rapportiamo ad una persona, lo facciamo seguendo unicamente i nostri parametri, e spesso chi non rientra in questi ultimi viene automaticamente bollato come diverso e guardato con sospetto. Non lo facciamo solo noi, lo facevano anche i Greci, forti della insuperabile posizione di Atene quale indiscussa capitale politica, artistica, culturale e filosofica del V secolo: grazie a un prestigio pressoché esteso a ogni campo, gli abitanti dell’Ellade si sentivano di diritto superiori a chiunque altro, poiché guardavano il mondo allora conosciuto attraverso la lente, esclusiva, del “grecocentrismo”.
A rendere opaca la superficie di quella lente, a confondere i piani e le convinzioni assolute, fu però uno storico di Alicarnasso, Erodoto, che conosceva bene il mondo greco avendo viaggiato molto (così perlomeno lui affermava). Le sue Storie contengono straordinari reportage su incursioni etnografiche in terre lontane, che lo portarono a contatto con i Lidi che prostituivano le figlie, gli Indiani che praticavano il cannibalismo, gli Etiopi dalla pelle scura. Popoli che apparentemente non avevano nulla in comune con i Greci, ma non per questo da considerare inferiori: mosso dal desiderio di far conoscere la verità nel modo più oggettivo possibile, lo storico fece di questi excursus etnografici un puzzle culturale in cui storie su popoli affascinanti e lontani potessero smuovere coscienze da tempo fissate sulla superiorità greca, e mettere in discussione pregiudizi e convinzioni cristallizzate.
I Greci concepiscono il mondo con la loro regione al centro e terre quali Arabia ed Etiopia ai confini: Erodoto mostra che è soltanto per questo che si sono costruiti un’immagine di esotismo e stranezza di coloro che abitano alle estremità. I popoli ai confini a loro volta potrebbero avere una prospettiva diversa: l’Etiopia, ad esempio, nell’ottica greca era una terra straordinariamente ricca d’oro; eppure, Erodoto spiega, gli Etiopi valutano l’oro come i Greci valutano il bronzo, e viceversa. Similmente, come i Greci definivano barbaros (“straniero”) tutto ciò che era diverso dai loro costumi, così lo storico nota che la stessa parola è presente nel linguaggio degli Egiziani, che chiamano “barbari” tutti coloro che non parlano la loro lingua.
Erodoto sembra essere stato il primo a inserire nella sua visione del mondo quel principio che Montaigne chiamerà relativismo culturale: esistono una miriade di culture e sistemi di pensiero che per la loro diversità non ha senso giudicare ricorrendo a un solo parametro, quello della propria cultura di appartenenza, poiché chiunque – Greci e non, e diciamo pure italiani e non – considera “diverso” ciò che non rientra nel suo orizzonte culturale. Erodoto ci mostra la semplicità di questo meccanismo: ciascun popolo inizialmente percepisce i propri costumi come i migliori; in seguito osserva che questa convinzione è condivisa anche da tutti gli altri popoli; e infine realizza come questa percezione di superiorità è relativa e plasmata dalla propria, ma non unica, ideologia culturale.
Incoraggiando i Greci a riflettere su come popoli differenti vedono culture diverse dalle loro, Erodoto rivela che gli Elleni appaiono agli altri tanto diversi quanto lo sono gli altri agli occhi degli Elleni stessi e che il melting pot, la mescolanza di etnie, è spesso la chiave per lo sviluppo di un popolo. Così, quando parla della stirpe ellenica, da cui gli Spartani hanno avuto origine, lo storico afferma che, partita da umili origini, essa si sia ingrandita ed arricchita grazie ai molti che le si aggregarono, tra cui “parecchi altri popoli barbari” (Hdt. 1.58).
La diversità culturale è una ricchezza che, precauzioni incluse, va mantenuta per non incorrere nell’errore che secondo Claude Lévi-Strauss – antropologo del XX secolo d.C. che pur conserva sorprendentemente più di un’affinità con il vecchio Erodoto del V secolo a.C. – la civiltà occidentale ha commesso con le minoranze non ancora alfabetizzate del Nuovo Mondo. Distruggendo, con il processo di industrializzazione, la verginità, la peculiarità di ciascuno di quei gruppi etnici, la civiltà ha cessato per sempre di essere «quel fragile fiore che, per svilupparsi a fatica, occorreva preservare in angoli riparati di terreni ricchi di specie selvatiche» (le culture diverse), e si è cristallizzata nella “monocultura”, nella standardizzazione e riduzione della diversità ad un solo, noioso, minimo comune denominatore, quello occidentale. Senza più odore, colore né sapore.
La convivenza pacifica di molteplici culture è ciò che più ci unisce, non ciò che più ci divide: è la scossa sensoriale che ci allontana dall’insipidezza.
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