La furiosa rivoluzione digitale e il gigantesco sviluppo di internet ci permettono, oggi, di generare e usufruire di una massa pressoché inquantificabile di risorse e contenuti. Di contro, la necessità di una comunicazione istantanea e un consumo immediato impongono a questi contenuti una natura granulare, frammentata, per nulla complessa: si tratta, infatti, per lo più di immagini, brevi clip, post non più lunghi di qualche riga.
Si tratta, questa, di una della frammentazione che ha investito anche e soprattutto l’atto della scrittura, primo tra tutti quello riguardante il giornalismo. Il mestiere del fornire e commentare notizie si è dovuto adattare per sopravvivere all’avvento del digitale, accogliendo (non in modo indolore) il cambiamento e spostando molto le proprie attenzioni e risorse dal cartaceo all’online. Dal giornalismo tradizionale, fatto di lunghe colonne di notizie, approfondimenti di grandi firme ed editoriali, si è generato così il digital journalism. Quest’ultimo presenta forti differenze rispetto al “padre”: tra le tante, le notizie battute al secondo e gli articoli molto brevi. La brevità, in special modo, è la colonna portante del giornalismo online: dato che l’internauta pretende la massima comprensione della notizia nel minor tempo possibile, i pezzi pubblicati sono molto asciutti, compatti e facilmente condivisibili su social e altre piattaforme – approfondimenti e commenti più specifici sono segnalati attraverso i link, sta al lettore cogliere la possibilità di rimbalzare da un post all’altro per farsi un’idea più completa riguardo la notizia.
Il giornalismo del presente, insomma, viaggia a velocità quasi istantanee, di produzione come di consumo. Di conseguenza, la fisiologica brevità e frammentarietà dei contenuti diventa una caratteristica necessaria per cercare di integrarsi e rimanere dentro un nuovo sistema di comunicazione: è il diktat dell’”adattati o muori” che, fin dall’avvento del Web 2.0, ha messo il giornalismo davanti a questo cambiamento radicale.
Un’analisi della realtà giornalistica, questa, che, però, oltre a essere diventata un luogo comune, non è totalmente veritiera. Il giornalismo digitale ha, quasi fin da subito, sviluppato una branca che resiste alla forma breve di contenuti e fruizione: il longform journalism, un giornalismo che ha la sua ragione d’essere negli articoli lunghi, complessi, che sviscerano un argomento senza preoccupandosi del limite di battute o del minutaggio ideale della lettura.
Si può dire che il longform journalism segua una scelta etica. Visto che le notizie, oggi, vivono in modo sempre più veloce, essenziale e semplicistico, assecondando il ritmo frenetico e poco incline alla lettura approfondita del consumatore, il “giornalismo dei pezzi lunghi” decide di impiegare un’ingente quantità di spazio e di tempo (nella lettura come nella scrittura) per restituire nel modo più critico e completo possibile il fatto o l’argomento che si vogliono analizzare; una scelta in un certo senso anacronistica che, se da un lato garantisce un’informazione massimamente competente e di qualità, dall’altro rischia di essere fruibile solamente per un pubblico veramente ridotto, ovvero quei pochi che sono abituati a una lettura lunga e complessa e sono disposti a dedicarci molto tempo.
La lunghezza di un articolo lungo è dell’ordine delle decine di migliaia di parole (comunque, più di 5000), tramite cui l’autore si prende tutto il tempo necessario non solo per raccontare il fatto, ma anche e soprattutto per delineare il contesto (sociale, culturale, politico eccetera) di sfondo, le implicazioni, le riflessioni che esso può generare. Lo stile è immersivo, lo stesso della narrazione, e l’autore cerca di catturare il lettore con un linguaggio di alto livello e una scansione avvolgente del racconto. In questo modo, inevitabilmente, il pezzo scritto assume un carattere decisamente più letterario rispetto a quello prodotto dalla testata giornalistica di turno; anzi, a ben vedere, il longform journalism non ha la stringente necessità di attenersi alla cronaca come invece deve fare il giornalismo digitale in generale, in quanto il suo scopo non è dare la notizia in sé, ma un approfondimento attraverso un approccio profondo e critico riguardo a un ritaglio della realtà – certo, se poi cavalca l’onda del dibattito mediatico è sempre meglio per un fatto di risonanza. Dando un’occhiata ai due massimi esempi in merito, i portali americani Longreads e Longform, si può vedere come i contenuti spazino molto, dal commento sulla politica di Trump a un riflessione sociologica sul genere, dal mondo del cinema alla letteratura, alla musica, e via dicendo, attraverso una modalità di giornalismo che produce anche contenuti immanenti e spesso non ancorati alla cronaca quotidiana. Questo formato ha conosciuto un grande sviluppo negli ultimi anni, non solo in America, ma anche in Italia, dove viene adottato quasi esclusivamente da parte delle riviste. La sua applicazione abbraccia le più disparate sfere dello scibile: L’Ultimo Uomo e le sue analisi sportive, Prismo sulla cosiddetta cultura nerd, l’attualità trattata da The Vision, la letteratura di Le parole e le cose, e molti altri.
Il longform jorunalism, per quanto possa sembrare nobile e sacrosanto, non è comunque esente da critiche. L’approfondimento e la volontà di dare un più ampio respiro all’analisi dell’argomento si riduce a eccessiva pedanteria se la lunghezza non è funzionale, se non è un mezzo attraverso il quale si restituisce un contributo informativo unico e di qualità ma diventa solamente fine a se stessa, autoreferenziale e che si compiace da sé: un articolo non è per forza bello e interessante perché lungo. A questo proposito, la testata The Atlantic ha polemizzato contro l’etichetta del longform journalism, accusando come spesso alcuni autori si servano di questa classificazione per giustificare i loro virtuosismi narrativi attraverso l’uso della forma lunga, non solo mancando così di dare un vero contributo al lettore ma soprattutto finendo per ridurre questo tipo di giornalismo a niente di più che mero esibizionismo letterario. Da qui, il dibattito si fa etico: qual è il modo migliore di impiegare la lunghezza? Ci sono argomenti degni e meno degni di venire approfonditi nel nome dell’informazione utile?
Comunque lo si veda, il longform journalism è qualcosa di più di un recupero dell’uso degli articoli lunghi dettato dalla nostalgia, come spesso viene visto e inteso. Si tratta, come si è visto, di un giornalismo consapevole, con le sue regole e le sue implicazioni, che è nato nel momento in cui il mestiere di fornire notizie e annessi si è confrontato con il digitale e ha provato a mettere in discussione la legge dettata dall’ipervelocità dei nuovi mezzi di comunicazione e dalla massima fruibilità dei contenuti che veicolano, optando – non senza rischi né zone d’ombra – per un’informazione che risultasse più completa, ricca, “lunga e lenta”.