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Spagna: la disfatta dell’Invencible Armada

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Andrea Braschayko

La sconfitta ai rigori contro i padroni di casa della Russia ha sancito per la Spagna la terza eliminazione prematura di fila in un grande torneo, dopo il collasso ai gironi a Brasile 2014 e l’esclusione a Euro 2016 per mano dell’Italia. Tre, come i trofei consecutivi che la Spagna aveva conquistato solo sei anni fa: dopo il bis Europeo 2008-2012 e la prima vittoria Mondiale nel 2010 gli spagnoli sembravano aver aperto un ciclo che sarebbe stato difficile da spezzare. Sei anni dopo, la Spagna sembra essere tornata al ruolo di eterna incompiuta che l’ha caratterizzata nei primi anni del nuovo millennio, la generazione di Raùl, Morientes, Guti, Mendieta e dell’ormai ex ct – arrivato due giorni prima del match inaugurale con il Portogallo come traghettatore – Hierro.

Difficile parlare di squadra più deludente in un Mondiale in cui la Germania campione in carica ha fallito uno dei gironi potenzialmente più semplici, in cui l’Argentina e il Portogallo di Messi e Ronaldo ci hanno salutato alla prima occasione, e con un Brasile che spezza i cuori di un paese intero da sedici anni. Per come ci è arrivata, però, la Spagna non poteva permettersi di uscire agli ottavi contro una squadra al 70° posto del ranking FIFA. Diceva Andrès Iniesta – all’ultimo grande appuntamento di una carriera marziana – poco prima dell’inizio della competizione: «Questo Mondiale è una sfida enorme perché veniamo da due delusioni: l’Europeo del 2016 e il Mondiale 2014. Il Mondiale 2014 è stato orribile, veramente. Siamo usciti quando nessuno se lo aspettava. Adesso la squadra sta molto bene, ha un ottimo mix di gioventù e esperienza. Io sono ottimista».

Il redattore di France Football aveva promesso a Iniesta il Pallone d’Oro in caso di vittoria al Mondiale: rimarrà un’ingiustizia storica.

Lopetegui, prima di cadere nell’ingenuità più grossa della sua carriera, aveva costruito una squadra rinnovata rispetto alle delusioni del passato recente e con molte idee di gioco, costruite soprattutto attorno a Isco, con intorno tanti giocatori cresciuti insieme a Lopetegui nell’under 21 e calciatori con un’esperienza tale che non sarebbe follia affidargli la propria vita: Iniesta, Busquets, Sergio Ramos, Piquè e Diego Costa. E con De Gea – da molti indicato come il miglior portiere al mondo – a chiudere la saracinesca, gli spagnoli erano candidati insieme a Francia e Brasile come squadra più completa di Russia 2018. È andato tutto storto.

13 giugno: il Rubiales furioso

Da pochi giorni Zidane ha scioccato la Spagna e il mondo dando le dimissioni da tecnico del Real Madrid, dopo tre Champions League di fila. I blancos, che cercano un sostituto, dopo aver ricevuto un secco no dal Tottenham e da Pochettino, si fiondano con la solita leggerezza e laissez-faire di Florentino Perez. Volo Madrid-Krasnodar, dove la Spagna è in ritiro in attesa della prima partita contro il Portogallo di Cristiano Ronaldo – un altro madridista con le valigie pronte – e accordo con Lopetegui raggiunto in poche ore.

Lopetegui, impaziente di accettare l’offerta della vita dal Real Madrid, ha finito per buttare al vento due anni di duro lavoro con le Furie Rosse.

Avviene tutto in fretta, così velocemente che la Federazione spagnola non fa in tempo nemmeno ad accorgersene. «La Federazione non può venire a sapere che Lopetegui è il nuovo allenatore del Real Madrid cinque minuti prima del comunicato ufficiale» – spiega il numero uno della Federcalcio Rubiales in conferenza stampa – «Ci sono dei valori interni che vanno rispettati e non siamo stati noi che abbiamo creato questa situazione. Siamo tutti dispiaciuti, ma devo pensare alla squadra». Due giorni prima dell’inizio, Lopetegui viene esonerato dopo aver ottenuto in venti partite quattordici vittorie e sei pareggi, dominato il girone di qualificazione e aver ridato speranza a una squadra in crisi d’identità negli ultimi anni.

A posteriori è facile dire che il fallimento della Spagna comincia da qui, nella presa di posizione un po’ maldestra e assolutista della Federcalcio nei confronti della mancanza di rispetto di Lopetegui. Tutti i giocatori della rosa, con Sergio Ramos in testa, hanno chiesto al presidente Rubiales di cambiare la decisione, senza successo. «Siamo tutti feriti da questa situazione. Ho parlato con i giocatori, faremo tutto il possibile insieme al nuovo staff per vincere la Coppa del Mondo. Io ho dato loro le mie spiegazioni e loro hanno capito. Quello che vi posso assicurare è che i giocatori mi hanno garantito il loro impegno massimo e non ho alcun dubbio che ce la metteranno tutta». Rubiales, con la hybris tipica del calcio spagnolo, ha creduto che il sistema avesse potuto reggere senza un condottiero. Che la macchina spagnola si sarebbe innescata anche a corto di benzina. Che il tiki-taka fosse così inciso sottopelle nei giocatori da non aver nemmeno bisogno di una guida.
Risuonano le parole di Koke dopo i rigori persi a Mosca «Ci hanno tolto il leader, che era Lopetegui, e Fernando Hierro ha fatto quello che ha potuto».

Già, Fernando Hierro. Ex capitano e difensore goleador del Real Madrid, con più di cento gol segnati con la maglia merengue e ventinove reti con la maglia della Roja. Una leggenda del calcio spagnolo degli ultimi anni A.T.T. (avanti tiki taka). Da allenatore, però, una carriera tutt’altro che brillante; una stagione da vice di Ancelotti al Real, un esonero in Segùnda con l’Oviedo. Poi il ruolo da dirigente nella Federcalcio, dalla quale poche settimane fa viene catapultato in panchina. Spaesato, conservatore e conformista con le sue scelte, non fa nulla per non trascinare la Spagna in un nuovo baratro. Difficile individuare le colpe di un allenatore che non si aspettava di essere lì, con una rosa non scelta da lui e con due giorni a disposizione per preparare un Mondiale. Di certo, Hierro non fa nulla per togliersi dai guai, e neanche un mese dopo abbandona (come ci si aspettava) la nave lasciando spazio a Luis Enrique.

Fernando Hierro è sembrato un pesce fuor d’acqua. Catapultato in un ambiente in cui non voleva essere, scelto come vittima sacrificale dalla Federazione.

Pensiero unico: la degenerazione del tiki taka

Per gli amanti della statistiche l’eliminazione della Spagna può sembrare illogica. Innanzitutto per aver subito sei gol su sette tiri in porta, con un De Gea che non è riuscito a confermarsi il campione che ha salvato la panchina di Mourinho allo United più di una volta. Il disastro della Spagna è anche imputabile a una “mancanza” di alcune individualità, ma la radice di fondo va ricercata nell’idea di gioco.

Nella fase a gironi contro Portogallo, Iran e Marocco gli spagnoli hanno tenuto mediamente il 66% di possesso palla e tirato quindici volte in porta a partita. In realtà, le prestazione delle Furie Rosse sono state tutt’altro che costanti: dai 45′ mostruosi contro il Portogallo – nei quali è sembrata la squadra più matura e in forma della prima giornata – a lunghi periodi di nulla cosmico contro Iran e Marocco la Spagna, ha dato le prime avvisaglie di difficoltà, conquistando la qualificazione e il primo posto solo agli ultimi secondi della terza giornata.

Nel complesso, in un Mondiale in cui hanno regnato atletismo e tempo di gioco, la squadra di Hierro è rimasta inchiodata sul tiki taka che l’ha resa grande, tuttavia in una versione molto più compassata e statica rispetto al passato. La convinzione di poter risolvere la partita in qualunque momento, appena passato il filtrante giusto, ha giocato un brutto scherzo alle ambizioni spagnole. La versione 2018 del tiki taka è stato un possesso palla fine a sé stesso, non votato a far salire la squadra ma a scambiarsi per lo più palla orizzontalmente, rischiando per di più di perderla e subire ripartenze pericolose (come contro il Marocco) con la difesa già altissima. Un centrocampo bloccato, una squadra che non attacca il movimento tra le linee, conscia che se non c’è l’invenzione di Isco la palla conviene passarla indietro o di lato.

Contro la Russia il 75% di possesso palla e i venticinque tiri nominali in porta si sono tradotti di fatto in pochissime occasioni da gol. Gli errori di Piquè hanno fatto il resto per tenere Dzyuba e compagni in partita. Hierro ha reagito con cambi banali, che non hanno cambiato la struttura di gioco e favorito il caos, nel quale la Russia ha prosperato riuscendo a portare la partita ai rigori ed essere il secondo paese ospitante degli anni duemila ad eliminare la Furie Rosse dal dischetto, dopo la Corea del Sud nel 2002.

Iago Aspas si fa parare il rigore decisivo da Akinfeev, e condanna la Spagna a una prematura eliminazione dai Mondiali.

La nuova generazione d’oro non è (ancora) pronta

Sono solamente sei i superstiti degli Europei di Polonia e Ucraina del 2012. Sergio Ramos, Piquè, Jordi Alba, Busquets, Iniesta e David Silva, con gli ultimi due che con ogni probabilità diranno addio alla Nazionale. Non capita tutte le generazioni di dover rinunciare in poco tempo a Casillas, Puyol, Xavi, Fernando Torres, David Villa; sicuramente la Spagna ha dovuto fronteggiare addii importanti ma il sistema nel suo complesso sembrava essere pronto al ricambio generazionale (e probabilmente lo è).

Senza citare il dominio spagnolo delle coppe europee, già nel calcio giovanile la Spagna aveva imposto il comando a partire dal 2011 vincendo due Europei under 21 (perdendo anche una finale lo scorso anno) e tre Europei under 19. La generazione di Isco, Thiago Alcantara, Koke, Morata, Carvajal, De Gea e poi di Saùl, Asensio, Ceballos. Russia 2018 poteva essere la consacrazione per un movimento che si era formato negli automatismi e schemi perfetti della lunga trafila di giovanili, che li ha plasmati sotto un unico ideale di gioco espresso quasi sempre alla perfezione.

Asensio è uno dei giocatori da cui il nuovo corso della Spagna può ripartire. Ma è in buona compagnia.

La superbia dimostrata nella preparazione a questa rassegna iridata può però dare una speranza alla Spagna: il materiale da cui ripartire c’è, e non è poco. Bisogna ricordarsi che anche la generazione di Xavi, Iniesta e Villa – da giovane – ha preso sonore batoste prima di diventare la corazzata di Del Bosque. Se saprà imparare dagli errori, la Spagna potrà tornare impero.

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Andrea Braschayko

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