I Mondiali di Russia 2018 si sono da poco conclusi, con l’inaspettata finale fra Francia e Croazia che ha visto i transalpini prevalere sui tenaci ex-jugoslavi. È quindi arrivato il momento di mettere da parte la foga e le tensioni che solo una competizione come quella appena conclusa può creare e iniziare ad andare a spulciare fra le migliaia di persone e le loro storie, più o meno interessanti, che hanno popolato questo torneo. Mettendo da parte i protagonisti della finale, di cui si leggerà e si scriverà allo sfinimento nei prossimi giorni, oggi parliamo di colui che, con il suo fare distinto, posato, lontano dagli schiamazzi del calcio moderno, può essere definito come un signore del calcio, in tutti i sensi: José Pékerman, attuale allenatore dei Cafeteros, la nazionale colombiana.
José Néstor Pékerman Krimen nacque il 3 settembre del 1949 a Villa Dominguez, un piccolo paese della provincia di Entre Rios, in Argentina. La sua famiglia, di cultura ebraica, si trasferì dall’Ucraina in Sudamerica verso la fine del XIX secolo, in quel fenomeno di colonizzazione ebrea che coinvolse centinaia di nuclei familiari che ancora oggi popolano quell’area. Il padre di Pékerman, operaio ferroviario, probabilmente non immaginava che quel ragazzo ossuto e dinoccolato sarebbe diventato un grandissimo commissario tecnico della nazionale argentina, prima, e colombiana poi. Era chiaro, tuttavia, che il pallone sarebbe stato nel suo futuro: infatti fu un calciatore professionista, di ruolo centrocampista.
Fece il suo esordio nel calcio che conta con la maglia dell’Argentinos Juniors, club professionistico di Buenos Aires, nel quale militò dal 1970 al 1974, mettendo a segno dodici gol in 134 presenze. Finita l’avventura con il club argentino, preparò le valigie per compiere un viaggio che avrebbe effettuato nuovamente oltre trent’anni dopo. La Colombia era pronto ad accoglierlo. Fu acquistato dall’Independiente de Medellin, con cui disputò tre stagioni, condite da quindici reti e 101 presenze. Sfortunatamente, quella colombiana fu la sua ultima esperienza da calciatore: nel 1977, a soli 28 anni fu costretto ad appendere gli scarpini al chiodo, a causa di un brutto infortunio al ginocchio. A quei tempi, in assenza di tecniche riabilitative e strumentazioni mediche come quelle odierne, non era un’eventualità così rara.
La carriera da calciatore di Pékerman, quindi, si concluse così, ma quella calcistica era, per il momento, solamente interrotta: il meglio doveva ancora venire. Ma non subito: per dare un sostegno alla sua famiglia, il giovane José fu costretto a svolgere alcuni lavori, per così dire extrasportivi. Per qualche anno fu, ad esempio, taxista in quel crogiolo di storie e uomini che è Buenos Aires. Non va sottovalutata questa parentesi: il periodo lontano dal campo fu fondamentale per ritemprare lo spirito di Pékerman, per porlo a contatto con la vita di tutti i giorni, per fargli maturare quell’attenzione al dettaglio e al particolare tipica di chi sa guardare lontano. Fu un ritorno al passato, all’etica operaia del padre, di chi, a fine mese, deve far quadrare i conti.
Guardare lontano è un’attività rivolta al futuro, ma ben radicata nel presente. Chi guarda lontano riesce a cogliere segnali e messaggi già nell’immediatezza della quotidianità. E questa sua capacità, innata ma anche consolidata negli anni della formazione del Pékerman uomo, prima che professionista, gli fu utilissima nel suo ritorno sul rettangolo di gioco, in veste di allenatore delle giovanili. Iniziò la sua prima stagione in questo nuovo ruolo in un piccolo club professionistico argentino, il Club Chacarita di Villa Maipù, nella provincia di Buenos Aires. La sua avventura in questa squadra durò una sola stagione, la 1981-82, perché l’anno successivo tornò in quella che era stata la sua prima casa, l’Argentinos Juniors.
Nelle giovanili del club di Buenos Aires rimase per ben dieci stagioni, attraversando uno dei momenti di massimo splendore per il movimento calcistico argentino in generale (furono gli anni della vittoria al Mondiale del 1986 e del secondo posto del 1990) e per l’Argentinos Juniors in particolare, che ottenne due titoli nazionali (’84 e ’85) e una Copa Libertadores (1985), fermata solo dalla Juventus di Michel Platini ai rigori della partita valevole per la Coppa Intercontinentale. Il proficuo decennio all’Argentinos Juniors si concluse nel 1992, quando passò ai cileni del Colo-Colo, sempre allenando i giovani, rimanendoci per due anni. Ma i dieci anni all’Argentinos Juniors non erano passati invano.
Ecco che, nel 1994, arrivò la prima grande chiamata: quella della Nazionale Argentina Under 20. Qui, Pékerman poteva finalmente mettere a frutto la sua ultradecennale esperienza con i giovani. Pronti, via: la prima stagione sulla panchina vedeva già i primi appuntamenti importanti. Si partiva con il Campionato sudamericano di categoria in Bolivia, e l’Albiceleste ottenne un incoraggiante secondo posto, sconfitta in finale solo dal Brasile (2-0, con il Puma Emerson fra i marcatori).
Ma l’appuntamento più importante della stagione, quello del Mondiale U-20 di Qatar, non sarebbe stato fallito dai ragazzi di Pékerman: vittoria al primo tentativo, proprio contro il Brasile e di nuovo per 2-0, questa volta a parti invertite. E non sarebbe finita qui: nei sette anni alla guida dell’U-20 Argentina, Pékerman avrebbe vinto complessivamente tre Mondiali di categoria (oltre a quelli di Qatar ’95, anche quelli di Malesia ’97 e quelli di casa del 2001) e due Campionati sudamericani (Cile ’97 e Argentina ’99, con un altro argento in Ecuador, nel 2001). Lanciò gente del calibro di Walter Samuel, Gabriel Milito, Pablo Aimar ed Esteban Cambiasso (suo vice ai Mondiali di Russia). A questo punto, la promozione sembrava doverosa.
In realtà, la promozione sarebbe già arrivata nel 1998, se non fosse che Pékerman declinò l’offerta del Presidente della Federazione Julio Grondona, alla ricerca del sostituto di Daniel Passarella. Non era tempo per lui, avrebbe detto. Fu sempre Pékerman a suggerire Marcelo Bielsa, el Loco, per il ruolo di commissario tecnico dei grandi. Tuttavia, nel 2004, quando Bielsa, in uno dei suoi frequenti colpi di testa, lasciò il ruolo di selezionatore dell’Albiceleste, Pékerman decise che era tempo e rispose presente alla chiamata, sei anni dopo la prima volta.
La sua esperienza da commissario tecnico della Nazionale maggiore argentina durò solo due anni: l’uomo paziente, che ama veder sbocciare i propri frutti dopo un lungo periodo di crescita costante, ha bisogno di tempo per il proprio lavoro, cosa che non può essergli garantita da un pubblico appassionato ma molto esigente come quello argentino. La sua prima esperienza al Mondiale, quello di Germania 2006, si concluse ai quarti di finale, contro i padroni di casa ai rigori. Al termine del torneo, Pékerman rassegnò le proprie dimissioni irrevocabili: a nulla valsero i tentativi del Presidente Grondona, che lo invitò a riconsiderare la propria decisione, e il sostegno dei propri ragazzi, che non gli fecero mai mancare i proprio appoggio.
Si apriva così un periodo che, ai nostri occhi, può essere considerato di transizione. Ebbe due esperienze in squadre di club messicane, le uniche da allenatore delle prime squadre di una squadra professionistica. Nel 2007-08 allenò il Deportivo Toluca, con il quale vinse il Torneo di Apertura del 2008, mentre nel 2009 venne chiamato per aiutare il Tigres a salvarsi: missione compiuta, ma Pékerman rifiutò la proposta di rimanere in Messico. Il suo tempo, lì, si era concluso.
Un detto dice: «Chi ha tempo, non aspetti tempo». Ma è proprio nella paziente gestione del tempo, nel non bruciare le tappe e nella saggia attesa che Pékerman ha costruito la sua identità. Ed è per questo che passarono tre anni prima che tornasse a sedere su una panchina: nel 2012, José Pékerman ripercorse il tragitto che lo riportò in Colombia. Era diventato il nuovo commissario tecnico dei Cafeteros. La nazionale colombiana veniva da un decennio di profondissima crisi, in cui aveva sempre mancato l’accesso al Mondiale a causa di un fallimentare ricambio generazionale. Il ciclo inaugurato da Pékerman, con i vari Falcao, James Rodriguez, Cuadrado partiva quindi sotto i migliori auspici. Centrò subito la qualificazione ai Mondiali brasiliani del 2014 e i risultati furono molto incoraggianti: la Colombia uscì ai quarti di finale, sconfitti dai padroni di casa, ma James Rodriguez portò a casa il titolo di miglior marcatore del torneo, con 6 reti. La nuova generazione di talenti colombiani aveva trovato il proprio maestro.
Il resto della storia, è nota: i ragazzi di Pékerman hanno riconfermato la propria presenza ai Mondiali da poco conclusi, con la sconfitta agli ottavi di finale contro l’Inghilterra, in cui solo l’errore dal dischetto di Carlos Bacca ha condannato i sudamericani. Nel corso del Mondiale ha anche raggiunto un record: con 47 panchine, è l’allenatore con più presenze nei tornei organizzati dalla FIFA. Le Copa America del 2015 e del 2016 raccontano di una Colombia fuori agli ottavi di finale contro l’Argentina e di un terzo posto l’anno successivo, nell’edizione del Centenario. Ma quello che più conta è il legame che si è creato fra la Colombia, intesa come squadra e come paese, e Pékerman: nel 2014, dopo il Mondiale brasiliano, l’allora presidente Uribe ha conferito al commissario tecnico la cittadinanza onoraria colombiana. L’affetto di un popolo è probabilmente il riconoscimento più alto che l’uomo Pékerman potesse desiderare.
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