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theWise incontra: Sara Manisera, Donne fuori dal buio

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Ilaria Bertocchini

Del Medio Oriente si conoscono spesso e male solamente le guerre. Ma al di là degli spari, tra le macerie delle case distrutte, ci sono mondi che vanno avanti, che lottano e resistono. Volti di persone che affrontano vite quotidiane non raccontate, speranze ignorate, modi diversi di resistere a quello che accade. Arianna Pagani e Sara Manisera hanno deciso di uscire dal modo tradizionale di narrare il mondo arabo e hanno provato a parlare dell’Iraq nel loro webdoc Donne fuori dal buio. Un lavoro originale che permette di conoscere, in modo interattivo, tra una pausa caffè e l’altra, una società che resiste e storie di donne che sono il volto della resilienza in un Paese dove, a quindici anni dall’inizio della Seconda Guerra del Golfo, non vi è ancora pace.

Sara, com’è nata l’idea di fare un webdoc? Perché avete scelto l’Iraq?

«Il webdoc è un lavoro multimediale interattivo, che unisce testi, video e immagini. È una forma di narrazione del giornalismo che in Italia esiste da poco, anche se negli Stati Uniti viene usata già da circa otto anni. Nonostante sia un modo di narrare molto costoso, noi abbiamo deciso di sviluppare questo webdoc per parlare della società civile irachena, dove lavoriamo ormai da diversi anni. Lo scorso 20 marzo era il quindicesimo anniversario dell’invasione americana nel Paese, alla quale sono susseguite un’insorgenza sunnita contro il governo centrale e le forze americane, una guerra civile, l’occupazione di un terzo del Paese da parte dell’organizzazione jihadista Daesh [chiamata ISIS in Italia, N.d.R.] e una liberazione che ha causato decine di migliaia di vittime. Abbiamo quindi pensato di raccontare, attraverso le esperienze di quattro donne di professione, generazione e fede religiose diverse, come si vive oggi in Iraq. L’Iraq ha una società patriarcale, con un clima di intolleranza tra le varie comunità che lo abitano, ma vi è una società civile che resiste e le cui storie meritano di avere una voce».

Tu sei una giornalista freelance, mentre Arianna è una fotogiornalista freelance. Avete due ruoli diversi ma complementari, quando l’uno ha avuto una predominanza sull’altro?

«Io e Arianna lavoriamo insieme da tre anni e mezzo e non è stata la prima volta che ci siamo trovate a parlare di tematiche così delicate. Solitamente, il mio ruolo è quello di fare le interviste e cercare di mettere a proprio agio la persona che ho davanti mentre Arianna aspetta il momento giusto per iniziare a fare le foto e i video. La cosa essenziale è quella di creare empatia con le persone e Arianna questo lo sa bene. Per questo aspetta il momento più adatto, si ferma se durante l’intervista vi è un momento di commozione, capisce cosa il suo obbiettivo può catturare. Il tatto umano nel nostro mestiere è essenziale».

Perché avete voluto raccontare le guerre in Iraq attraverso la storia di quattro donne?

«Abbiamo pensato di raccontare cosa fosse successo in Iraq uscendo dai canoni di narrazione tradizionali e dando una sfumatura diversa, e lo abbiamo voluto fare attraverso un’ottica femminile. La scelta di parlare della vita di quattro donne, tutte diverse tra loro, è stata dettata da diversi motivi. In primo luogo, per far vedere l’eterogeneità che esiste in Medio Oriente: in Siria, in Iraq, in Libano e in altri Paesi dell’area ci sono numerosi gruppi confessionali diversi, come gli arabi, i curdi, i turcomanni, ciascuno con le proprie tradizioni. Io e Arianna ci siamo imbattute in storie particolari che ci sembrava giusto raccontare, soprattutto per abbattere gli stereotipi sulle donne musulmane spesso dipinte come donne tutte uguali tra loro. L’Iraq viene poi spesso descritto come il Paese delle vedove, ma un aspetto che viene solitamente tralasciato è quello di far vedere come queste vedove abbiano portato avanti le loro famiglie e siano divenute il volto della resilienza. Una resilienza che le ha portate a ricoprire il ruolo di padre nella loro famiglia, un po’ come accadeva qua durante la Seconda Guerra Mondiale. Il nostro obiettivo è di far vedere come quattro donne, di diverse generazioni e zone del Paese, abbiano continuato la loro vita, dando ciascuna una risposta diversa al periodo storico che stanno vivendo»

Qual è, se c’è, la storia femminile che ti ha colpita di più?

Amina. Foto di Arianna Pagani, tratta da www.donnefuoridalbuio.com

«Sono tutte storie belle alle quali sono legata. Amina e Zaynab sono però due donne che per me rappresentano il filo dell’evoluzione della vita femminile in Iraq. La prima parla in aramaico antico e racconta del suo Paese, ricco di petrolio, che tutti si contendono e dove lei è decisa a rimanere fino all’ultimo giorno della sua vita. Poi c’è Zaynab, ingegnera informatica che lavora in un centro antiviolenza a Mosul e aiuta le donne vittime di abusi e violenza psicologica, parla inglese, ed è emblema del cambiamento, dell’evoluzione che piano piano attraversa l’Iraq».

La morte di Saddam Hussein viene spesso richiamata nel webdoc. Qual è la lettura che andrebbe data a questo evento?

«La caduta di Saddam e le politiche statunitensi arrivate successivamente hanno senza dubbio creato dei problemi. Ma non è possibile rileggere la storia tutta in bianco o tutta in nero per decidere se fosse meglio l’epoca di Saddam o quella successiva. È anche per questo che abbiamo deciso di raccontare questo periodo dell’Iraq attraverso vite diverse. Amina, per esempio, trova giustizia nella morte di Saddam per lei e per suo marito, il primo martire di Qaraqosh durante la guerra degli otto anni tra Iran e Iraq. Un’altra sfumatura è quella di Rajaa Abd Ali, avvocatessa quarantenne, divorziata, che nella clinica legale e digitale del centro “Shahrazad” aiuta le donne insegnando loro i propri diritti. Secondo Rajaa, il regime di Saddam garantiva sicurezza e la situazione era migliore di quella odierna. Non vi era settarismo e vivevano tutti in un’unica strada, sunniti, sciiti, curdi, cristiani, ezidi, turcomanni e mandei, celebrando le feste insieme e condividendo il cibo. L’invasione americana ha simboleggiato per lei, e per molti altri che erano persino contro Saddam, l’inizio dell’intolleranza.  Bastano questi due esempi per far capire come non c’è un dato assolutistico, non esiste bianco o nero, ma le donne e le loro storie danno una relatività degli eventi».

Come avete realizzato questo webdoc?

«Abbiamo realizzato il webdoc tramite crowdfunding e col sostegno dell’organizzazione italiana “Un Ponte Per…”, presente in Iraq dal 1991 con progetti a sostegno della popolazione civile, in particolare delle donne. Possiamo dire di essere quindi editrici, produttrici e registe del lavoro, ci siamo affidate a noi stesse e a qualche consiglio di amici. Non c’è stato un editore che ci ha detto cosa fare e questo ci ha permesso di scegliere totalmente tutto. Dall’altra parte, realizzare da sole un prodotto del genere è complicato perché manca il feedback di un esperto che ci dia dei consigli, per esempio su come tagliare le scene o selezionare meglio i contenuti».

Quali sono le difficoltà nel raccontare il mondo arabo in Occidente?

«Sino ad ora abbiamo promosso il webdoc in 35 posti in Italia, e il nostro pubblico è sempre stato composto da persone informate o comunque incuriosite dall’argomento. Sono infatti storie che non si sentono molto e questo genera stupore, voglia di saperne di più. Il problema è il mercato editoriale. Ogni volta è infatti una lotta per provare a vendere una storia, pur per quanto io possa pensare che sia degna di essere raccontata. La scusa in Italia è che non ci sono i soldi, ma io credo che, nonostante la crisi evidente della carta stampata, non ci sia la voglia di investire in racconti di determinate parti del mondo. Penso alla Francia, dove, vuoi per il loro passato colonialista, sono soliti investire nei reportage e i francesi stessi sono più informati, mentre in Italia rischiamo di chiuderci in un nazionalismo che non fa bene. Avevo proposto a una testata giornalistica nazionale di comprare il nostro webdoc e hanno risposto che lo avrebbero pubblicato solo a gratis. Ci siamo rifiutate e credo che tutti noi freelance dovremmo rifiutarci di svendere i nostri prodotti, accettando anche dei piccoli pagamenti. Credo infatti che la pecca di molti freelance sia quella di accettare prezzi e tariffe troppo bassi, portando a una guerra tra i poveri e, successivamente, allo sviluppo di prodotti di una qualità inferiore. Noi per campare produciamo contenuti in inglese da vendere all’estero. Il nostro webdoc lo abbiamo venduto anche a singoli episodi perché è difficile vendere un prodotto interamente: recentemente abbiamo venduto la storia dell’ingegnera di Mosul alla Radio Svizzera Italiana».

Avete progetti futuri?

«Al momento io e Arianna stiamo lavorando a un progetto che ha come tema i fiumi, in particolare i due fiumi della Mesopotamia, il Tigri e l’Eufrate. Pensiamo che l’acqua sia il tema del futuro e vogliamo investire molto su questo: vogliamo parlare dell’uso dell’acqua, delle dighe, e soprattutto di come la società civile cerchi di promuovere un uso responsabile di questa risorsa. Tra le varie storie di cui parleremo, racconteremo di giovani iracheni che hanno deciso di creare una rete di attivisti che attraverso la Siria, la Turchia, l’Iran e l’Iraq proteggono l’ambiente e l’acqua come beni primari e diritti di tutti».

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