In un estate pur ricca di bombe di mercato in diversi sport, la notizia non è certo passata inosservata: Lebron James è un giocatore dei Los Angeles Lakers. Per i più profani al mondo della pallacanestro, ci riferiamo verosimilmente al giocatore più forte degli ultimi dieci anni, nonché uno dei migliori di tutti i tempi. Lo si potrebbe definire l’equivalente cestistico di Cristiano Ronaldo, sia per mentalità che per fisicità: a trentaquattro anni suonati sembra essere ancora nel suo prime e, come il portoghese, non mostra ancora segni di declino. I Lakers sono una delle franchigie più vincenti della storia dell’NBA, e senza dubbio una tra quelle che godono dal mercato più ampio, sia all’interno degli Stati Uniti – perché giocare ad Hollywood ha un discreto appeal – sia a livello globale.
Il giocatore più forte nella franchigia globalmente più nota: si tratta di un’operazione di mercato di portata immane, che minaccia di sconvolgere l’NBA dal punto di vista sportivo ed economico. Ma come si è arrivati a questo scenario, e cosa possiamo attenderci?
Il principale mercato NBA si svolge durante l’estate – la cosiddetta offseason – quando scadono i contratti di una frazione dei giocatori della lega. Ciò perché una volta firmato un contratto con una squadra non è possibile, per un altro team, comprarlo o prenderlo in prestito. L’unico modo per acquisire un giocatore, se non è svincolato, è una trade, un semplice scambio di giocatori tra due o più franchigie. I rumors che volevano un trasferimento di Lebron James ai Los Angeles Lakers hanno assunto concretezza proprio in seguito a una trade della scorsa estate: i Cleveland Cavaliers di Lebron avevano infatti ceduto la giovane stella Kyrie Irving ai Boston Celtics. Irving è uno dei migliori playmaker della lega, a soli 26 anni ha ancora potenziale per migliorare e nel corso delle ultime tre stagioni aveva dimostrato di essere un ottimo comandante in seconda per i Cavs, grazie alla sua leadership e alla sue doti da realizzatore. La presenza del talento nato a Melbourne, ma di passaporto statunitense, nel roster dei Cavs aveva costituito un motivo di interesse fondamentale quando Lebron aveva deciso di ritornare a Cleveland.
Il suo primo addio, consumatosi nel 2010, era stato causato principalmente dalla scarsa competitività della franchigia: la dirigenza non era mai riuscita ad accostargli dei giocatori di alto livello, e i risultati della squadra si reggevano esclusivamente sugli exploit individuali di Lebron. Questo era dovuto in parte allo scarso mercato di cui godeva la città di Cleveland: le squadre delle città più importanti, come Los Angeles e New York, sono destinazioni più ambite per i giocatori, perché prescindendo dai risultati sportivi godono di grande attenzione da parte dei tifosi e di una maggiore copertura dai mass media. Stanco, quindi, di dover trascinare da solo la squadra ai playoff senza ricevere un contributo importante dai compagni, James aveva infine deciso di unirsi ai Miami Heat alla scadenza del suo contratto. A South Beach avrebbe trovato due stelle ad attenderlo in Dwyane Wade e Chris Bosh, con cui avrebbe vinto due titoli e disputato quattro finali.
Quando, dopo una cocente sconfitta alle Finals del 2014, fu evidente che il ciclo degli Heat era al termine, James, che era in scadenza di contratto, aveva quindi deciso di tornare a Cleveland. Fece passare la sua decisione come una scelta di cuore: per lui, natio del sobborgo locale di Akron, l’obiettivo sarebbe stato portare un titolo nella squadra della sua città e riappacificarsi con i tifosi che aveva sedotto e abbandonato.
Per quanto questo aspetto sia sicuramente stato un fattore importante, va considerato che la presenza di Irving e della prima scelta all’imminente draft del 2014 – il meccanismo, simile a una lotteria, tramite il quale l’NBA consente alle squadre dai peggiori risultati stagionali di acquisire i migliori talenti in uscita dal college – rendevano i Cavaliers una squadra ben più appetibile di quando l’aveva lasciata. Con l’arrivo di Kevin Love, scambiato dai Minnesota Timberwolves per il giocatore selezionato con la prima scelta, ossia Andrew Wiggins, i Cavaliers erano di colpo diventati una contender per il titolo. Lebron ormai era diventato egli stesso un elemento importante della marketability della franchigia, in grado di attrarre giocatori di livello grazie alla sua sola presenza.
Per le successive tre stagioni i Cavaliers hanno duellato in finale con i Golden State Warriors, la squadra di Oakland. Si tratta di una franchigia la cui strategia è stata acquisire e sviluppare talenti tramite il draft, e che è guidata da un giocatore che ha rivoluzionato il modo di giocare a basket col suo mortifero tiro da tre, Stephen Curry. Curiosamente, anche lui è nato ad Akron come Lebron. Dopo aver perso le prime Finals contro i Warriors, nel 2015, i Cavs sono riusciti a vincere lo storico primo titolo della franchigia al termine della stagione successiva. Tuttavia, mentre i rivali hanno rinforzato l’organico acquisendo uno dei migliori scorer della lega, Kevin Durant, i Cavs hanno solo firmato veterani al minimo salariale, non riuscendo più a tenere il confronto con gli avversari e subendo un’altra cocente sconfitta nel 2017.
Quando Irving ha chiesto la cessione, durante la scorsa estate, è stato ufficialmente l’inizio della fine: il conseguente arrivo da Boston di Isaiah Thomas, che veniva dalla migliore stagione della sua carriera, e di Jay Crowder, un solido specialista difensivo, si è rivelato un flop, e i Cavs sono stati costretti a rivoluzionare la squadra a metà della scorsa stagione.
Generalmente una manovra del genere non è mai un buon segno, ma lo è ancora meno quando al termine della stagione la tua stella principale ha l’opzione per uscire dal contratto: la dirigenza, priva di assets per arrivare a dei grandi nomi, ha acquisito tramite scambi solamente diversi comprimari che ben si adattassero al gioco di James – l’allenatore dei Cavs, Tyronn Lue, è sempre apparso che lo fosse più di nome che di fatto – ricreando paradossalmente la stessa situazione del 2010.
Poco importa che i Cavs siano arrivati alle Finals, per essere poi eliminati senza troppi patemi dai soliti Warriors: anche se fossero riusciti – incredibilmente – a vincere il titolo, è assai probabile che James avrebbe lasciato comunque la squadra, non più in grado di fornirgli un contributo all’altezza. Dato il peso che Lebron aveva acquisito all’interno dello spogliatoio e la sua influenza sulla strategia dell’intera franchigia si può dire che questo addio sia stato molto più consensuale del primo. Di sicuro, appare molto più definitivo, almeno nel breve – medio termine.
Gli ultimi anni dei Lakers sono stati piuttosto contrari dalla tradizione della squadra di Los Angeles: ordinariamente abituati a grandi vittorie e a giocatori di grande qualità, nelle ultime stagioni sono scivolati nella mediocrità, a causa di alcune scelte scellerate del front office e di numerosi infortuni ai loro giocatori più prominenti. Dopo il ritiro di Kobe Bryant, il giocatore simbolo della franchigia per quasi vent’anni, i Lakers hanno iniziato un timido processo di ricostruzione basato sui giovani, anche qui spesso operando scelte confuse e contraddittorie. Dopo diversi cambi di strategia, trade e risultati sostanzialmente mediocri, la squadra sembra aver trovato un equilibrio dopo la scorsa stagione: l’acquisizione al draft di Brandon Ingram, e poi di Kyle Kuzma, Josh Hart e Lonzo Ball gli ha garantito un nugolo di giovani di sicuro potenziale. Questo scenario, oltre al gran lavoro di convincimento compiuto da Magic Johnson, leggenda dei Lakers che oggi ricopre il ruolo di President of Basketball Operations, hanno convinto Lebron a sposare il progetto, superando la concorrenza di piazze come Philadelphia e Houston.
Sicuramente anche l’idea di inserirsi nella linea ereditaria di grandi campioni che hanno giocato con i Lakers – dallo stesso Magic a Bryant, passando per Shaquille O’Neal – hanno stuzzicato la fantasia del giocatore di Akron, che fin da giovanissimo si fregia del soprannome di “The Chosen One”. L’ingaggio di James, che porterà nelle tasche del giocatore la ragguardevole cifra di oltre 150 milioni in quattro anni di contratto, non era l’unico obiettivo dei Lakers, che volevano assicurarsi i servizi di almeno un altro All-Star per poter contendere da subito per il titolo. L’altro obiettivo più plausibile era Paul George, un’ala molto abile in entrambi i lati del campo, nato a Los Angeles e che viene da una stagione deludente con gli Oklahoma City Thunder: il suo inaspettato rinnovo con la squadra di OKC aveva portato i Lakers a virare su Kawhi Leonard, giocatore dalle caratteristiche simili e che aveva chiesto di essere ceduto alla dirigenza della sua squadra, i San Antonio Spurs. Per arrivare a lui i Lakers erano disposti a scambiare alcuni dei loro giovani talenti, ma la franchigia texana non aveva nessuna intenzione di cederlo ad una rivale della West Conference: lo ha invece spedito a Toronto, franchigia che gioca nella East Conference, e ogni discussione su di lui è per ora rimandata alla prossima estate, quando il contratto di Leonard sarà in scadenza.
In assenza di altri grandi nomi disponibili, la strategia è stata quella di risparmiare sullo spazio salariale in attesa dell’anno prossimo. I giocatori ingaggiati dai Lakers, per il momento, sono Lance Stephenson, Javale McGee, Rajon Rondo e Micheal Beasley: tutte promesse “mancate” dalla testa calda, divenute ormai veterani che hanno dimostrato di saper dare un solido contributo anche in partite importanti. Stephenson ha spesso marcato Lebron durante i playoff, con la maglia degli Indiana Pacers, ed è noto per la sua capacità di avere un grande impatto in uscita dalla panchina; Javale McGee, spesso deriso per le sue “papere” durante i primi anni della sua carriera, si è rifatto un nome con i Golden State Warriors grazie al suo grande atletismo; Rajon Rondo è un playmaker veterano dall’incredibile visione di gioco, ma con la tendenza a litigare con compagni e allenatori; Micheal Beasley, infine, è stato compagno di Lebron ai Miami Heat ed è tanto abile offensivamente quanto superficiale in difesa.
Magic Johnson si è assicurato un gruppo di giocatori di esperienza che, pur non brillando per costanza di rendimento, hanno le capacità di “spezzare” una partita con prestazioni brillanti e inaspettate. Al coach Luke Walton, ex giocatore dei Lakers, formatosi come assistente presso i Warriors e vero sergente di ferro, l’arduo compito di fare in modo che l’irrequietezza non abbia la meglio sull’estro.
Ad oggi, i Lakers non sono ancora una contender per il titolo. C’è un adeguato mix di giovani e veterani, c’è il talento e c’è il potenziale, ma l’aspetto fondamentale sarà sviluppare una forte chimica di squadra. Una delle grandi incognite sarà il rapporto tra Lebron James e Lavar Ball, il roboante padre di Lonzo, che non perde occasione per sfruttare l’attenzione mediatica per mettere in mostra sé stesso e i suoi figli. “King” James sa stare allo scherzo, ma difficilmente gradirà essere accostato a questo controverso personaggio.
I Golden State Warriors hanno dimostrato l’importanza del teamwork e dell’adesione alla filosofia di gioco della squadra, ed è su questo aspetto che i Lakers dovranno sviluppare la loro strategia offensiva se vorranno essere competitivi. Probabilmente vedremo Lebron giocare molto di più senza la palla in mano, ora che ha compagni in grado di orchestrare l’attacco e crearsi il proprio tiro dal palleggio: pare sia nei piani di Lakers un quintetto con James nella posizione di centro, con Ball da playmaker, Josh Hart a fare il tiratore puro, Kuzma e Ingram sugli esterni a sfruttare gli spazi che verrebbero inevitabilmente a crearsi: una sorta di manifesto della grande fluidità dei ruoli nel basket moderno, seguendo il modello tracciato negli ultimi anni da Golden State.
James dovrebbe integrarsi molto bene con la strategia offensiva di Luke Walton, che si appoggia molto ai ritmi alti e all’attacco in transizione, e sarà sicuramente interessante da vedere come giocherà insieme a Lonzo Ball, che come lui è un gran creatore di gioco dotato di grande abilità nel passaggio.
Nonostante i Rockets e i Warriors – specie dopo l’ingaggio di DeMarcus Cousins – siano decisamente su un altro livello, i Lakers hanno la concreta possibilità di qualificarsi ai playoff, dopo sei anni di astinenza, in una Western Conference più competitiva che mai.
Si tratta già di un passo avanti non indifferente, e le ultime manovre della dirigenza dimostrano che la franchigia è ora decisamente in winning mode. Le recenti esperienze dimostrano che le nuove squadre di Lebron non vincono mai al primo anno, e che il rapporto tra James e la franchigia tende a logorarsi dopo quattro stagioni: riusciranno i Lakers a tornare a vincere un titolo entro il 2022?
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