Marx sviluppò il suo interesse matematico in modo congiunto al suo lavoro sul Capitale. Nella sua lettera a Engels, datata 11 gennaio 1858, Marx scrive:
Sono così dannatamente ostacolato da errori di calcolo nella messa a punto dei princìpi economici, che per la disperazione intendo dedicarmi pienamente a padroneggiare l’algebra. L’aritmetica mi rimane sconosciuta. Ma compio passi rapidi nel percorso matematico.
Negli anni precedenti (1846-1858), Marx sembra dedicarsi ai suoi studi in modo abbastanza poco sistematico, con fogli di calcoli e appunti sparsi; i primi accenni a uno studio più organico, sulla geometria elementare e con i primi approfondimenti su logaritmi e serie, si hanno nel materiale preparatorio alla pubblicazione di Critica di Economia politica, tra l’aprile e il giugno 1858. Successivamente, nella sua corrispondenza con Engels, invita quest’ultimo ad accompagnarlo in questi studi e ad approfondire le sue conoscenze leggendo i libri che allegava alle sue lettere, perché «essenziali per i suoi studi militari».
Il suo interesse per le basi matematiche dell’economia politica lo porta ad analizzare il volume The Whole of Commercial Arithmetic di Feller e Odermann, al fine di capire lo schema alla base delle transazioni finanziarie e delle truffe commerciali. Una caratteristica peculiare di Marx in questi studi è la costanza con cui, ogni volta che Feller e Odermann citano un risultato matematico, richiama alla memoria tutti i passaggi e i principi da cui quel risultato deriva.
Tra il 1870 e il 1878 Marx dà rigorosità ai suoi studi, come riporta lo stesso Engels nell’introduzione alla seconda edizione del Capitale:
Dopo il 1870, fu necessario un altro periodo di pausa, per questioni di salute. In questo periodo, Marx riempiva il suo tempo studiando agronomia, il territorio russo e americano, i mercati monetari e le banche. E infine, le scienze naturali: geologia e fisiologia, e in particolare il suo stesso lavoro matematico, tutto confluì nei numerosi quaderni di questo periodo.
Nel calcolo differenziale c’erano però difficoltà derivanti dalla stessa base metodologica su cui fondava i suoi calcoli, come ebbe a dire nuovamente Engels:
Lo stadio virginale dell’assoluta validità e inconfutabilità dell’aspetto matematico era svanito per sempre; si era entrati nel regno della controversia, e abbiamo raggiunto il punto in cui la maggior parte delle persone integra e differenzia non perché capisca cosa stia facendo, ma per pura fiducia, solo perché fino ad ora si è sempre giunti a risultati coerenti. (Anti-Dühring, p. 107)
Engels si riferiva qui, nello specifico, a una corrispondenza che Marx intrattenne con Moore, documentata in una lettera allo stesso Engels del 1873, in cui i due discussero della possibilità di interpolare con delle curve differenziabili i punti dei grafici relativi alle variazioni dei prezzi negli anni. Moore era, a prescindere dalla quantità di dati a disposizione, molto scettico riguardo la fattibilità di questo passaggio dal discreto al continuo. Marx, al contrario, era non solo fiducioso nella riuscita dello stesso progetto, ma anche convinto della possibilità di inferire delle leggi deterministiche in materia di crisi economiche.
Chiaramente, questa situazione non era sostenibile per lui. Per usare le sue stesse parole, potremmo dire che «qui, come ovunque» era importante per lui «squarciare il velo del mistero nella scienza» (ibidem, p. 109). Intravedeva in questo passaggio dal discreto al continuo una struttura di tipo dialettico. Sia Marx sia Engels ritenevano che fosse fondamentale conciliare il materialismo dialettico non solo con le scienze sociali, ma anche con quelle naturali. L’esame tramite la dialettica delle variabili continue in analisi matematica poteva essere portata a termine, secondo loro, solo con una piena comprensione degli infinitesimi e del differenziale. Su questo i due studiosi basarono quindi la quasi totalità dei loro lavori. Gli scritti matematici di Marx sono essenzialmente i seguenti: Sul concetto di funzione derivata, Sul differenziale e Sulla storia del Calcolo differenziale (con l’appendice Sull’ambiguità del termine ‘limite’ e ‘valore del limite’), Il teorema di Taylor, di MacLaurin e la teoria di Lagrange del calcolo differenziale. La sua stessa formazione fu di carattere essenzialmente analitico, orientata al calcolo differenziale, e decisamente tradizionalista: studiò sui volumi della Cambridge University, nei cui corsi ancora erano adottati i volumi di Newton, che aveva insegnato lì circa duecento anni prima. Tra il 1820 e il 1830 c’era stata infatti una protesta dei giovani accademici nei confronti di questo establishment, culminata nella formazione della “Analytical Society”. La tradizione, dall’altro lato, prevedeva l’uso dogmatico del calcolo differenziale e dei metodi di sintesi previsti dai Principia di Newton. Marx abbracciò, come forse non ci si aspetta, proprio quest’ultima via dogmatica e tradizionale. Studiò, in effetti, direttamente dal volume Cours complet de Mathématique del francese Sauri, di quasi un secolo prima, basato sul metodo e sulla notazione di Leibniz. Poi si dedicò alla lettura del libro di Newton De analyse per aequationes numero terminorum infinitas di Newton.
L’uso abbastanza vago dei concetti di “infinitesimo” e di “calcolo differenziale” nei libri di Newton convinse Marx a dedicarsi a testi più vicini a lui. In particolare, era molto diffuso in tutta Europa all’epoca il volume di Boucharlat, Eleménts de calcul différentiel et de calcul intégral. La peculiarità di questo testo era l’approccio eclettico con cui si combinava il pensiero di Lagrange con quello di d’Alembert. Fu il pensiero di Lagrange a interessarlo maggiormente, in particolare per il tentativo di affrontare le difficoltà concettuali del calcolo differenziale. Le risposte che Lagrange forniva, tuttavia, non risultarono sufficienti, secondo Marx, che aveva a quel punto approfondito la sua conoscenza del pensiero dell’autore. Cominciò dunque a sviluppare una propria via di spiegazione del significato del calcolo differenziale. Adottò quindi sempre più spesso una sua notazione, scrivendo per esempio 0/0 al posto di dy/dx per le derivate.
Questo incessante tentativo di richiamare le origini, di rifarsi ad autori e pensieri di molto tempo prima di Marx, possono sembrare un po’ anomali in una personalità come la sua. Insomma, può sembrare strano che abbia passato così tanti anni a studiare pedissequamente Newton e Lagrange, quando all’epoca in Europa si stavano diffondendo idee ben più avanzate, come quelle di Weierstrass, Dedekind e Cantor. Se si analizza tuttavia la situazione inglese dell’epoca, ci si rende conto che non c’era in realtà tanta “colpa” in Marx. Era Cambridge stessa ad essere estremamente legata al dogma e alla tradizione. Nella prefazione alla seconda edizione del suo Course of Pure Mathematics, il matematico inglese Hardy ebbe in effetti a dire, riguardo la prima edizione (1908):
Questo libro è stato scritto quando l’analisi matematica era trascurata a Cambridge, e con un’enfasi ed entusiasmo che mi sembrano quasi ridicoli ora. Se lo riscrivessi ora, non parlerei (per usare le parole del prof. Littlewood) come un ‘missionario che si rivolge ai cannibali’.
Nessuna sorpresa quindi che Marx sia stato tagliato fuori dalle problematiche più moderne introdotte nel resto del Continente. Diamo di seguito una rapida introduzione ai suoi principali lavori, e si rimanda ai lavori di Augusto Ponzio e di S.A. Yanovskaya per una sinossi più dettagliata dei manoscritti matematici.
L’autore inizia illustrando la sua idea di funzione derivata, partendo dal caso più semplice: la mappa reale, a valori reali, che alla variabile x associa il valore ax, dove a è un numero reale fissato. Innanzitutto, introduce esplicitamente l’approccio dialettico all’operazione di derivata: fissa due coppie di variabili, (x,y) e (x1,y1), e osserva che calcolare le differenze y1-y e x1-x, per poi farle tendere a zero, porta solo all’identità 0=0, e a nient’altro di interessante. Come dice lui stesso,
L’intera difficoltà nella comprensione di come agisce la derivazione (come quando si guarda alla negazione della negazione) sta nel vedere in quale modo differisce da una procedura così semplice come quella appena descritta, permettendo così di giungere a risultati reali.
Riprende allora l’espressione y1-y = a(x1-x) e divide entrambi i membri per x1-x, quando ancora questa differenza è un numero finito diverso da zero. Quando ora x1 tende a x, si arriva a 0/0=a. «Siccome nell’espressione 0/0 ogni traccia della sua origine e del suo significato è sparita, possiamo rimpiazzare tale espressione con dy/dx». Per Marx, in effetti, questa quantità rientra all’interno del processo dialettico e non ha alcun significato in sé: è semplicemente, come ebbe a dire poi in scritti successivi, un’equivalenza che il matematico pone, un modo di chiamare la variabile a. Proseguendo nella lettura del testo si trova infatti «Questo profondo credo di qualche matematico, per cui dy e dx sono quantità infinitamente piccole ma non nulle, è una chimera». Le derivate di ordine superiore divengono quindi solo “un registro” di funzioni, una tabella in cui si annota qual è la funzione madre e quali le derivate. In altre parole, Marx in questo modo ritiene di evitare l’imbarazzo di chiedersi quale sia il significato di far passare un rapporto di due infinitesimi attraverso un ulteriore grado di “infinitesimalità”. Nel leggere allora le equazioni differenziali, contenenti in generale delle derivate di ordine pari o superiore al primo, Marx raccomanda allora di vedere le espressioni dy/dx solo come simboli, come nomi da dare alle funzioni derivate. Per capirci, se la funzione di partenza è y=x^3, allora la quantità realmente esistente è 3x^2, mentre 0/0 o dy/dx sono solo immagini ombra (“Doppelgänger“, come le definisce nella pubblicazione successiva, Sul Differenziale) di tale quantità.
Ora, quanto mostrato fin’ora dei suoi lavori può sembrare incredibilmente arretrato, anche se per motivi di “confinamento” già esposti. Eppure, il lavoro di Marx anche in questo campo non è rimasto poi isolato. Circa novant’anni dopo, infatti, intorno al 1960, il matematico polacco Abraham Robinson pubblicò il fondamentale lavoro Non-standard Analysis. Il punto di partenza dell’analisi non standard è proprio la contraddittorietà del dx in matematica, di questa quantità che è infinitesima, più piccola di ogni numero positivo, ma non nulla.
Robinson introduce gli infinitesimi come numeri dx tali che, per ogni naturale n>0 è:
La somma di un numero reale x e di un numero dx è allora detta numero iperreale. Viene introdotta così la funzione parte standard di un numero iperreale come la mappa che ad esso associa la sua parte reale.
Da Wikipedia:
Nel 1973 Kurt Gödel, forse il più famoso logico matematico del XX secolo, disse: ‘Ci sono buoni motivi per credere che l’analisi non standard in una versione o in un’altra sarà l’analisi del futuro’, previsione ancora lontana dall’essere realizzata.
Marx ha quindi messo in luce una reale necessità di revisione dei concetti fondamentali. Tale bisogno, come detto, era nato in seguito al tentativo di padroneggiare l’analisi matematica, per dare rigore e fondamento alle sue teorie economiche. Ciò va ribadito, in conclusione, per almeno due motivi: guardare alla sua figura in modo completo, dal punto di vista temporale e concettuale insieme; inserirlo in una realtà che aveva bisogno di adeguati strumenti per essere analizzata, a fronte dell’arretratezza e del conservatorismo dell’Università di Cambridge. Del resto, negli stessi anni stavano venendo mossi in Francia i primi passi verso lo sviluppo moderno della finanza matematica, grazie alla teoria delle equazioni differenziali. La matematica, come le scienze naturali, evolve anche in relazione ai bisogni della società, nonostante i ripetuti tentativi dei giovani teorici di mostrare a sé stessi e agli altri di essere avulsi e indipendenti da essa.
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