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Tully: quando la maternità diventa uno scoglio

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Anastasia Piperno

Con il film Tully, che rimpolpa la pigra programmazione estiva italiana, il cinema di Reitman si rivitalizza, grazie alla replica di un trio fruttuoso. Infatti il regista torna a collaborare con la sceneggiatrice Diablo Cody (Juno, Jennifer’s Body) e l’attrice Charlize Theron. I tre avevano già lavorato insieme per Young Adult (2012), un passo significativo verso i temi di Tully. Torna infatti la dura resa dei conti tra la gioventù ormai passata e le responsabilità e gli aggiustamenti della vita adulta, che nel corpo della Theron trova il suo vettore, lo strumento di un’attrice che non teme di incarnare un disfacimento fisico ed emotivo. Si tratta d’altronde di un trasformismo di cui aveva già dato prova in Monster (2003) di Patty Jenkins.

Uno sguardo all’essere madri fuori da idealismi

Theron qui interpreta Marlo, una madre alla fine della terza gravidanza. Ancora prima del suo volto, è inquadrato il suo pancione di grosse proporzioni. Si tratta di una condizione, quella della maternità, che infatti fagocita la sua vita, risucchiando il suo io e le sue energie vitali. Diablo Cody, che si basa sulla sua esperienza autobiografica, e così anche la poetica realista e disincantata di Reitman, non cerca un ritratto candido, spiritualizzato della maternità, ma guarda piuttosto ai suoi lati più concreti, alla tensione psicologica che ne consegue e alle risposte fisiologiche dell’organismo di Marlo, alle trasformazioni in cui incorre una donna che già ha avuto due figli. Il viso è segnato dalle occhiaie, dalle notti di un sonno minimo e a intermittenza, a causa delle poppate notturne. L’attenta cura di sé è solo un ricordo di un tempo remoto, i vestiti sono casual, adatti alla propria vita casalinga, con tracce peraltro di vomito e di cibo. I propri seni, non di rado dolenti, diventano fabbriche di latte, usati per farne impacchi da conservare per il bambino. Reitman esprime il ritmo serrato e il focus assoluto sulle necessità del bambino attraverso una sequenza di montaggio sempre più rapido, di attività uguali a sé stesse, una sfiancante routine, in cui le giornate sono costellate dai cambi di pannolino, dalle urla della neonata a ogni ora, e poi dalla preparazione degli altri due bambini a scuola, con l’aggravante di un figlio problematico, Jonah, con difficoltà comportamentali e sociali non ben inquadrate, che richiede alla madre ulteriori forze mentali per comprendere come agire anche nell’ambiente scolastico. Marlo guarda al proprio corpo senza luce con passiva mestizia. Il confronto con il benessere altrui è costante. Da una parte quello di tipo fisico, ovvero la bellezza del corpo giovane. Non soltanto il corpo del proprio passato a cui si è attaccati con nostalgia, ma anche visto negli altri, in quelle persone che hanno partecipato alla propria biografia e non sembrano aver preso un’uguale parabola discendente. In un incontro fortuito, Marlo guarda con rimpianto un’amica che non rivedeva da molto tempo e che non ha cambiato stile di vita, che ha una realizzazione professionale e abita ancora nello stesso loft dei tempi del college. Contribuisce anche l’immagine completamente plasticata promossa dalla televisione, uno scatolone in cui Marlo rivede anche film per l’infanzia, come La sirenetta. L’immagine della sirena non è affatto casuale: è dotata di un corpo di natura fantastica, è una creatura dell’acqua. L’acqua è un elemento originario e primordiale, che in Tully non solo può suggerire un ritorno a un tempo passato e più leggiadro, investito di un’aura mitica, ma è associato anche alla maternità. Infatti l’elemento onirico del film è legato proprio al sogno di una sirena che nuota nel mare, fatto appena prima di entrare in travaglio, un’immagine appunto rivista poi in televisione: non solo nell’infanzia della Disney, ma anche in un programma televisivo di modelle che vestono come delle sirene. La sirena poi nel tessuto narrativo della prima parte suggerisce anche l’avvento imminente e benefico di un nuovo personaggio, Tully.

Foto: illibraio.it

L’arrivo di Tully è legato a un altro confronto, ovvero con il benessere di tipo socio-economico. Il fratello di Marlo, Craig (Mark Duplass), è un altro personaggio realizzatosi nell’età adulta, persino arrichitosi, ed è un ulteriore misura di paragone, non del tutto confessata, per lei e il marito Drew (Ron Livingston). La famiglia di Craig costituisce una parte della critica di Reitman e Diablo Cody alle nuove mode delle classi agiate: la forma smagliante del fratello e della cognata, anch’essa mamma di tre figli, sono legate a lussuosi provvedimenti della contemporaneità, che nel tono comico delle scene dedicate sollevano perplessità. Pranzi separati tra piccoli e grandi, perché ognuno abbia i propri spazi (attivando grazie all’assistente Google un sottofondo alla conversazione adulta di musica hip-hop), giochi articolati pensati da tate diurne e giovanissime, fresche di laurea specializzata e con qualche mania di nutrizione bio, che però non sembrano avere un’adeguata empatia verso i più piccoli. Le inquietudini del più piccolo Jonah, inoltre, ricevono costose terapie di dubbia utilità, tanto che il film si apre proprio su un nuovo rituale acquisito da Marlo per lui, che consiste nello spazzolargli il corpo per ridurre la sua tensione psicologica, pur non vedendo significativi miglioramenti nel comportamento. Tully si apre e si chiude in modo circolare: il pretesto della terapia della spazzola viene continuato e poi abbandonato, come rilevatore di un nuovo approccio alle proprie problematiche personali e familiari, che trova un equilibrio e risorse in sé, più che in altri supporti (di cui alcuni completamente accessori e fuorvianti, come la spazzola). Tuttavia per giungere a ciò è necessaria proprio Tully, una tata notturna. Fa parte, ergo, dei vari servizi di cui si serve il fratello Craig, che consiglia a Marlo di prenderla per tornare a stare meglio, offrendosi anche di pagarla al posto suo. Marlo è scettica, non vuole spezzare il legame naturale tra lei e la sua neonata per affidarla a una sconosciuta, tuttavia il suo esaurimento psico-fisico e un’ormai visibile depressione post-parto presto le fanno cambiare idea. Arriva allora lei, Tully, una brillante tata, paragonata non a torto dalla critica a una riproposizione di Mary Poppins. Entrambe infatti giungono a risanare un nucleo familiare, aiutando non tanto i figli piccoli, quanto i genitori. Tully riveste molteplici funzioni, ma in primo luogo è la rappresentante più importante del confronto di Marlo con la bellezza della gioventù perduta. Anche il suo modo di parlare viene paragonato ai colori e all’inventiva di un libro d’infanzia saggio, spia di un ulteriore proiezione all’indietro per Marlo, ma soprattutto è dinamica, energica, curiosa, vitale. Restituendole il sonno, badando alla figlia e persino alla sua casa, ridà colore anche alla stessa Marlo. Tuttavia il suo compito si rivela appunto una generosa terapia psicologica. La necessità presentata dalla sceneggiatrice e dal regista è di ridare spazio alla maternità come un più salutare equilibrio tra le necessità del bambino e quelle di Marlo, contro all’idea di una madre totalmente votata agli altri, e il cui sacrificio così pervasivo sia anche dato per scontato da un marito distratto, avvinto dal proprio mondo lavorativo e poi, nelle poche ore serali rimanenti, dai videogiochi. L’aiuto di Tully in verità è un auto-aiuto, come ben presto sarà rafforzato dai percorsi intrapresi dalla sceneggiatura, una forma di soccorso nel momento in cui la madre, spoglia di scambi dialogici significativi, in una voragine di compiti che la escludono da attività diverse, di svago, che la facciano riacquisire uno spazio indipendente, cerca in extremis una ricucitura interna, uno spazio di fronteggiamento delle proprie insoddisfazioni sempre più pressanti, quindi di confidenza e di risanamento personale. La dinamica psicologica in atto avviene proprio con un personaggio, Tully, che è una versione di sé nel passato, appunto, probabilmente non fedele al sé vissuto ai tempi, ma idealizzato, emblema di una cristallizzazione e di un anelito non del tutto lucido. La cura di sé passa anche dalla volontà di ridare al proprio corpo un aspetto e un peso desiderati, nel riavviare la propria attività sessuale, e quindi un rapporto più completo con il marito. Tutto ciò fa parte del bisogno di tornare ad amare a sé stessi, che consentirà di poter amare anche gli altri, gruppo da cui non sono esenti i propri figli, specialmente nel delicato fenomeno della depressione post-parto. Torna utile Lady Bird di Greta Gerwig – personalità peraltro vicina all’ambiente mumblecore dell’attore e regista Mark Duplass -, in cui si diceva in maniera centrale: «Love is attention», ribadendo anche per Tully che amare sé stessi significa prestare attenzione alle proprie necessità, considerarle e muoversi per il soddisfazione di esse, e – guardando agli errori del marito Drew – amare gli altri è una dinamica di attenzione altrettanto simile, che di certo non ha bisogno di chissà quali supporti lussuosi, ma principalmente di un’azione attiva e calorosa.

Tully è interpretata da Mackenzie Davis. Foto: universalpictures.it

Più importante ancora, però, è la resa dei conti proprio con i propri desideri, il bisogno di ritornare indietro che – ed è ben chiaro a Reitman e Cody – non è possibile, non combacia con il naturale progresso della vita di fase in fase, ognuna delle quali si lascia indietro qualcosa inevitabilmente e acquisisce nuove forme, nuove abitudini e nuove routine. Si tratta, quindi, della necessità, dopo una giusta cura di sé stessi, di non varcare però l’esigenza basilare di benessere con altro, ovvero mire irrazionali e invidie malriposte, fantasticherie che segnalano un rapporto non risolto con l’età matura. I sogni di gioventù d’altronde sono piuttosto vaghi. Marlo dice di aver avuto due figli, e che niente è cambiato – anche se è visibilmente così – e poi dice a Tully di non aver una realizzazione professionale messa da parte, e che proprio per questo non è arrabbiata con il mondo, ma con sé stessa. Lo status quo di cui lamenta la protagonista allora non è tanto fattuale, quanto legato ad una mancata realizzazione personale, motivo per cui il confronto con gli altri è acuito.

Una pacificazione non facile

Tuttavia gli stessi perni attorno a cui sviluppare una serena soddisfazione di sé possono mutare, senza che sia un indegno tradimento verso la propria autenticità, ma piuttosto, di nuovo, un aggiustamento. La stessa idea di successo è da mettere in discussione nei suoi termini, il bisogno di dimostrare agli occhi della vita altrui di essere ad un uguale livello, attraverso i segni esteriori della professione svolta, della scuola frequentata dai propri figli, di un generale benessere volto a segni accessori come la forma smagliante della cognata o delle amiche che hanno intrapreso altri percorsi. Si riconsidera la maternità come tale, come un periodo di vita le cui condizioni possono essere viste anche diversamente, così anche la fase di vita genitoriale che, pure non godendo più di alcuni piaceri come un tempo, può incorrere in un’accettazione nella sua specifica bellezza. Non si tratta, però, di una pacificazione definitiva, quanto piuttosto di una nuova direzione psicologica da intraprendere con coraggio e onestà, passo per passo. Se Juno di Reitman non giungeva al momento della maternità e della cura del bambino per l’adolescente interpretata da Ellen Page, anche il benessere consolidato di Marlo è lasciato sospeso, preferendo piuttosto la sincerità di un tentativo, che sia supportato, appunto, da un più giusto e partecipe calore affettivo, dall’abbandonare l’accessorio della spazzola per contare sulla propria capacità di amare e aiutarsi con le proprie forze.

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Anastasia Piperno

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