1968. Quest’anno, quasi a cavallo di due decadi importanti nella storia del Novecento come gli anni Sessanta e gli anni Settanta, è senza dubbio uno degli anni più ricchi del secolo scorso. È l’anno che diede il nome al movimento socioculturale di protesta conosciuto come il Sessantotto: in Vietnam infuriava la guerra per la quale cui uno dei pugili americani più famosi della storia, Muhammad Ali, aveva detto no alla leva, subendone le conseguenze (fu squalificato per quattro anni e perse il titolo mondiale) e venendo additato come un personaggio scomodo, mentre il reverendo Martin Luther King ad aprile veniva ucciso a Memphis da James Earl Ray. Pochi mesi dopo, il 16 ottobre, alle Olimpiadi di Città del Messico, gli sprinter neri statunitensi Tommie Smith e John Carlos entrarono nella storia dell’atletica e della contestazione alzando i pugni guantati di nero (associati alle Pantere Nere) nel cielo della capitale del Messico. Un gesto fatale per le carriere sportive degli atleti sul podio, ma che fu in grado di lanciare un messaggio per i diritti civili in un mondo che stava gradualmente cambiando.
Gli anni fatati delle contestazioni
Gli anni Sessanta furono un vero e proprio fermento di cambiamenti sociali e culturali negli Stati Uniti, grazie al 1960s Civil Rights Movement. Questo clima portò all’approvazione di alcune disegni di legge che nel corso del decennio vietarono la discriminazione basata sulla razza, sul colore della pelle o sul sesso, vietando inoltre la segregazione nelle scuole e nei posti di lavoro e allargando il diritto di voto a tutti i cittadini americani. La concessione di diritti sacrosanti però non pose fine all’ignoranza e alla tensione razziale che portarono all’uccisione di Malcolm X (21 febbraio 1965) a opera della Nation of Islam, e di Martin Luther King il 4 aprile 1968 per mano di James Earl Ray. Uccisioni che permisero a partiti radicali come il Black Panther Party, conosciuti come le Pantere Nere, di matrice rivoluzionaria di sinistra, di crescere e ottenere consenso da parte della comunità nera. Le Pantere Nere ottennero una grande pubblicità con la protesta messa in atto da Smith e Carlos il 16 ottobre del 1968, giorno della finale dei 200 metri piani alle Olimpiadi di Città del Messico. Una gara alla quale Tommie Smith e John Carlos, rispettivamente figli di un raccoglitore di cotone texano e di un calzolaio di Harlem, non avrebbero neanche dovuto partecipare, se avessero aderito alla protesta degli atleti neri statunitensi che avrebbero voluto boicottare i giochi olimpici. Ma il comitato olimpico statunitense fece rientrare la protesta, attraverso metodi non proprio leciti, pur di far gareggiare i migliori atleti disponibili per ottenere più medaglie possibili.
Una gara fantastica, la finale dei 200 metri vinta da Tommie Smith in 19″83 (primo atleta al mondo a scendere sotto i 20″) davanti all’australiano Peter Norman (20″ 06) e al connazionale John Carlos (20″10), che dopo una partenza fulminante venne passato da Smith a 30 metri dalla linea, superato anche da Peter Norman che ai 100 metri era solo sesto. La vittoria di Tommie Smith poteva sembrare uno dei vari successi che il comitato olimpico americano avrebbe mostrato con orgoglio, finché non arrivò il momento della premiazione. Smith e Carlos, studenti di sociologia all’università di San José, avevano aderito all’Olympic Program for Human Rights, un movimento di protesta fondato da Harry Edwards. Chi aveva aderito portava una spilla del movimento per manifestare il proprio supporto alla causa dei diritti civili. Smith e Carlos non si lasciarono sfuggire l’opportunità, lanciando un messaggio dalle prime Olimpiadi trasmesse in diretta televisiva. Tutto venne preparato con attenzione prima di rientrare in campo per la premiazione. John Carlos indossò una collanina con delle piccole pietre, che simboleggiavano i neri che avevano lottato per i diritti finendo poi linciati. Il secondo classificato Peter Norman, incuriosito da questi preparativi, chiese spiegazioni ai suoi compagni di podio. Decise quindi di unirsi alla protesta indossando una delle spille dell’Olympic Program for Human Rights, datagli dal canottiere americano bianco Paul Hoffman, attivista anche lui dell’OPHR, ben lieto che un atleta australiano volesse supportare la causa. Causa ritenuta giusta da Norman al grido di «si nasce tutti uguali e con gli stessi diritti». Mancavano soltanto i guanti di pelle nera, simbolo della lotta delle Pantere Nere. Carlos aveva dimenticato il suo paio al villaggio olimpico, mentre Smith aveva soltanto il paio comprato da sua moglie Denise. Su consiglio di Peter Norman i due corridori americani si divisero i guanti, uno sul pugno destro (Tommie Smith) e l’altro sul pugno sinistro (John Carlos), togliendosi infine le scarpe sul podio a simboleggiare la povertà degli uomini di colore e dando vita a una delle immagini più forti della storia dello sport.
Sullo stadio, dopo l’inno americano, calò un silenzio assordante al cospetto della protesta messa in scena sul podio olimpico. Payton Jordan, capodelegazione della squadra olimpica statunitense, giurò vendetta, cacciando Smith e Carlos dal villaggio olimpico e accusando il canottiere Hoffman di cospirazione. I due velocisti tornarono negli Stati Uniti consapevoli di una cosa: la loro carriera era finita. Tommie Smith sbarcherà il lunario lavando auto, mentre John Carlos si alternerà tra fare il buttafuori ad Harlem e lo scaricatore di porto. Nel corso della loro vita subirono entrambi minacce telefoniche e molto altro, a ogni ora del giorno e della notte, che portarono al suicidio la moglie di John Carlos. Il tempo però ha dato ragione ai due velocisti americani, diventati paladini della lotta per i diritti umani: entrambi vennero infatti riabilitati, collaborarono con la squadra americana di atletica e iniziarono a insegnare educazione fisica all’università di San José. La stessa università che dal 2005 ospita un monumento a loro dedicato che commemora il 16 ottobre del 1968, da cui manca però il co-protagonista Peter Norman.
Membro ad honorem delle Pantere Nere: Peter Norman
Quella sera messicana di ottobre pose fine anche alla carriera agonistica di Peter Norman, che fu letteralmente dimenticato e cancellato in Australia, un paese anch’esso in cui l’apartheid e le tensioni verso gli aborigeni erano all’ordine del giorno. Nei quattro anni di carriera successivi superò per tredici volte il tempo di qualificazione per i 200 metri e cinque volte quello per i 100 metri, ma non fu aggregato alla squadra olimpica australiana che gareggiò a Monaco 1972. Per la delusione abbandonò la carriera agonistica, venne trattato come un reietto e ostracizzato in ogni modo possibile solo perché si unì alla protesta di Carlos e Smith. Trovò un lavoro saltuario in una macelleria e insegnò educazione fisica, rischiando al contempo l’amputazione di una gamba che era andata in cancrena dopo un infortunio subìto giocando a football. Il più grande sprinter australiano, una sorta di Usain Bolt del Down Under, detentore del record nazionale sui 200, non ricevette neppure un invito alle Olimpiadi di Sydney del 2000: la sua “colpa” fu quella di non aver mai condannato il gesto dei suoi compagni di podio, e morì per un attacco cardiaco il 3 ottobre 2006 senza essere mai stato riabilitato dal suo paese. Sei giorni più tardi Smith e Carlos andarono a sorreggere la bara del loro amico che partecipò alla protesta, e che fu riabilitato ufficialmente solo sei anni più tardi dal parlamento australiano. Il nipote di Peter Norman, Matt, girò un documentario sul nonno, Salute, raccontando al meglio il velocista australiano che decise di partecipare alla lotta di quella serata messicana senza mai pentirsi di quella scelta, vedendosi non come un bianco che insieme a due neri chiede rispetto e giustizia sul podio, ma più come tre esseri umani che chiedevano rispetto e giustizia per tutti, senza distinzione di razza, sesso o religione. Una lotta e un pensiero che, dopo cinquant’anni, restano decisamente d’attualità.