La filosofia si è costituita, fin dalle sue origini più antiche, da una lunga serie di contrapposizioni. Servirebbero intere enciclopedie per enumerarle tutte: platonismo o aristotelismo? Idealismo o realismo? Ogni tesi filosofica è stata oggetto di critica e di contro-critica nel corso del tempo. Nell’ultimo secolo, però, il mondo filosofico ha visto una spaccatura ben più radicale. Questa divisione è quella che vede contrapposti filosofi analitici e filosofi continentali. Considerato il grande impatto che ha avuto questa scissione, è strano che di questa dicotomia si discuta quasi esclusivamente all’interno del mondo accademico, mentre al di fuori, perlomeno in Italia, non se ne parli molto. Questa scarsa considerazione del problema è dovuta, in primis, al modo in cui si impara la filosofia. Fin dal primo contatto al liceo, raramente veniamo abituati a “fare” filosofia. Più facilmente, ci viene insegnata la storia del pensiero filosofico. Un’attività di indubbia importanza, ma lontana dal modo in cui oggigiorno si fa effettivamente filosofia.
Il metodo analitico e la geografia continentale
Tornando alla contrapposizione tra analitici e continentali, la prima cosa che salta all’occhio è la chiara asimmetria che c’è tra le due etichette: da una parte abbiamo una connotazione puramente geografica, dall’altra la definizione di un metodo. Tradizionalmente, la nascita della filosofia analitica viene fatta coincidere con la cosiddetta “svolta linguistica”, operata da Frege alla fine dell’Ottocento. Il presupposto di Frege era che i problemi filosofici fossero da considerare come problemi linguistici e, dunque, solo costruendo un linguaggio esente dalle imprecisioni della lingua naturale sarebbe stato possibile risolverli. Autori successivi (come Russell, Carnap, il primo Wittgenstein) presero alla lettera questa intuizione e gettarono le basi per questo nuovo modo di fare filosofia, ponendo tutta la loro attenzione sulla questione linguistica. Successivamente il metodo analitico si è esteso prevalentemente nei territori anglosassoni e scandinavi. Dall’altra parte, la filosofia continentale è quella che, come dice il nome, si sviluppa prevalentemente nel continente europeo (Francia, Germania, ma anche Italia) all’inizio del Novecento, con autori di spicco come Nietzsche, Adorno, Foucault e, a oggi, Žižek. Già questo breve elenco dovrebbe far capire che non esiste un vero metodo continentale di fare filosofia, dato che si tratta di autori molto diversi tra di loro. Piuttosto, i filosofi continentali tendono a occuparsi di problematiche più vicine alla sensibilità umana. Per esempio, il ruolo dell’uomo all’interno della società o, in un’ottica più estesa, la sua posizione nell’universo. La strategia tipica dei filosofi continentali è quello di considerare un problema sulla base del contesto storico-culturale in cui esso è calato. Il loro lavoro, dunque, si muove sempre all’interno di specifiche coordinate spazio-temporali.
Già da questa descrizione approssimativa dovrebbe intuirsi che si tratta di posizioni molto diverse da quelle che si apprendono sui banchi dei licei. Non si tratta di una mera contrapposizione su un determinato problema filosofico, bensì una concezione totalmente diversa di fare filosofia. Per questa ragione una descrizione che tenga conto solo di aspetti storico-culturali come l’appartenenza territoriale è insufficiente (lo stesso Frege, tra l’altro, fu principalmente attivo in Germania). Quali sono dunque le caratteristiche del senso moderno di fare filosofia? E in che modo questo si collega con la professionalizzazione della figura del filosofo?
Consideriamo anzitutto il paradigma del lavoro svolto dai filosofici analitici. Essi tendono a lavorare a stretto contatto con la comunità costituita dai propri colleghi, si occupano principalmente di redigere articoli o brevi saggi. Questi vengono poi sottoposti a un rigido sistema di peer review. In questi articoli i problemi filosofici vengono sviscerati accuratamente, spesso facendo ricorso al linguaggio formalizzato della logica e, generalmente, utilizzando uno stile di scrittura chiaro, conciso e privo di abbellimenti stilistici. Si tratta, però, di articoli prevalentemente destinati ai propri colleghi accademici, altri filosofi analitici che dovranno studiare accuratamente il materiale scritto per confutarlo o corroborarlo. Questo comporta un uso smodato di tecnicismi comprensibili soltanto a chi possiede un retroterra di conoscenze adeguato. Non c’è da sorprendersi se il pubblico, anche quello più colto, mostra scarso interesse nelle pubblicazioni di filosofia analitica. Un appeal che, invece, non è venuto meno per quanto riguarda la filosofia continentale. Filosofi come Heidegger o Foucault sono letti e apprezzati da un vasto pubblico principalmente per due ragioni: da una parte si interrogano su questioni relative alla sfera umana, come dimostra chiaramente l’esistenzialismo heideggeriano. Dall’altra parte scrivono con uno stile simile alla prosa letteraria, ricco di figure retoriche e artifici stilistici. Le loro opere sono più simili ai classici della letteratura. Per questa ragione è molto più facile conoscere qualcuno che ha letto Sorvegliare e punire piuttosto che un qualsiasi articolo pubblicato su Philpapers.
Gli analitici, generalmente, considerano la filosofia continentale più vicina alla sociologia, e ritengono che le opere continentali siano troppo vicine alla letteratura per essere riconosciute come filosofia. Il loro stile, spesso oscuro e difficile da interpretare in maniera univoca, cozza con l’ideale chiarezza che la filosofia o, perlomeno, la buona filosofia dovrebbe possedere. In poche parole, la filosofia continentale, limitandosi a storicizzare i problemi filosofici, manca di acribia. Al contrario, i continentali criticano la filosofia analitica in quanto fine a sé stessa, lontana dalle contingenze politiche e sociali e, soprattutto, talmente infarcita di linguaggio logico da essere praticamente incomprensibile a chiunque non sia un addetto ai lavori. Sicuramente c’è del vero in entrambe le critiche, o almeno c’è stato del vero, dato che al giorno d’oggi queste due parti si stanno avvicinando. I filosofi del linguaggio hanno ormai rinunciato a formalizzare la lingua naturale. Spesso considerano elementi come il contesto di un enunciato. Anche i filosofi continentali, d’altra parte, si sono impegnati a scrivere in maniera più chiara e diretta, evitando l’oscurità del linguaggio che aveva caratterizzato molti autori di inizio Novecento.
Pur considerando alcune nuove posizioni ibride, è interessante notare la grande differenza che c’è all’interno del modo in cui si svolge la ricerca nei due rispettivi ambienti. A ben vedere, difatti, il metodo di ricerca professato dagli analitici si è ormai imposto come il paradigma della figura professionale di filosofo. Similmente a quanto accaduto a molte branche della scienza, anche la filosofia ha subito gli effetti di una progressiva specializzazione. Ormai non esistono più solo fisici, ma prevalentemente fisici delle particelle, fisici nucleari, e così via. Allo stesso modo non si vedono più filosofi che si occupano di tutto, bensì filosofi del linguaggio, filosofi della conoscenza, filosofi della scienza, ecc. La classica figura del filosofo tuttologo è, ormai, totalmente anacronistica. Chi intende lavorare professionalmente in filosofia deve specializzarsi e analizzare una determinata categoria dei problemi filosofici (per esempio, l’ambito della conoscenza). Spesso deve anche circoscrivere il proprio ambito a micro-problemi della suddetta materia (per esempio, la nozione di giustificazione). La filosofia analitica si è adattata facilmente a questo nuovo standard di ricerca e non è un caso che, negli ultimi anni, si sia assistito a un vero e proprio boom di studi analitici. Perfino in Italia, una delle roccaforti continentali, abbondano gli studi di filosofia analitica, sia a livello di ricerca accademica, sia a livello di corsi universitari. Non a caso si stanno anche ampliando piattaforme nostrane come il portale online APhEx.
Questa specializzazione ha un’importante conseguenza per il modo in cui oggi “si fa” filosofia. Come spiega Diego Marconi nel suo Il mestiere di pensare (Einaudi, 2014), il filosofo moderno deve essere inteso come un artigiano capace. Il compito di questi artigiani non è la sola narrazione o spiegazione di problematiche umane, bensì la costante ricerca di soluzioni pratiche a problemi filosofici. Spesso, anche tra le aule universitarie, si ritiene che per riconoscere se un filosofo o un aspirante tale sia un analitico o un continentale, basti chiedergli di che cosa si sta occupando al momento. Se risponde con un problema filosofico è un analitico; se, invece, risponde citando un autore, allora è un continentale.
Il nuovo filosofo
Al di là delle considerazioni aneddotiche, c’è del vero in questa distinzione. Da sempre i filosofi analitici si sono concentrati sulla risoluzione di problemi, impiegando tutte le loro risorse nel trovare una soluzione quanto più possibile definitiva. Per i continentali non è possibile una vera e propria risoluzione dei problemi filosofici. Piuttosto, cercano di identificare dei problemi all’interno di una serie di coordinate cronologiche e culturali. Da una parte i problemi vengono risolti, dall’altra vengono spiegati. Questa differenza dovrebbe chiarire perché, oggigiorno, chi vuole fare della filosofia la propria professione deve mettere in conto che il suo lavoro non sarà più vicino al mondo letterario-artistico come poteva esserlo per Nietzsche. Piuttosto, dovrà immaginarsi come uno scienziato che lavora alacremente coi suoi colleghi in un laboratorio. Solo che, al posto degli strumenti scientifici, dovrà saper utilizzare il ragionamento logico e imparare a destreggiarsi all’interno delle numerose pubblicazioni accademiche del settore.