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Il cinema di Ermanno Olmi: prima parte

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Anastasia Piperno

Lo scorso 7 maggio ci ha lasciati uno dei cineasti più importanti della cinematografia italiana del secondo Novecento: Ermanno Olmi. Attento e appassionato agli uomini, alle loro storie individuali, teso a coglierne le sfumature di sguardo, ha regalato un cinema non di rado sommesso, ma di potente sensibilità. L’eredità da lui lasciata è una registrazione sintomatica del suo tempo, ma è anche una poesia dell’altrove – che sia soggettivo o storico (come nel suo film più noto e celebrato, L’albero degli zoccoli) – di valore prezioso. Qui intendiamo ritornare al suo cinema con un percorso tematico, per poter ricordare ed evidenziare le sue peculiarità.

Alle soglie della modernità

«Qui il nostro scopo è la vita. Il cinema non è che uno strumento» diceva Olmi, come fondatore della scuola Ipotesi Cinema (nata nel 1982), all’interno di un progetto di «educazione allo sguardo e alla conoscenza – intima e del mondo – basato su osservazioni di realtà non clamorose, pubbliche o personali, lontane da “fatti inauditi”, attuate cercando di adottare una sorta di grado zero della scrittura cinematografica»[1]. Si tratta di una sottrazione e di un’allergia al compromesso che porta il regista a dire: «Io mi sento più uomo che regista, così come, fra il pubblico, io cerco sempre più l’uomo che lo spettatore» (Corriere della Sera, 7 maggio 1983), possibile causa di una fortuna critica e di pubblico diseguale. Esplorando allora la vita e gli uomini Olmi è partito dall’ambiente a lui vicino. Proletario dalla nascita, ovvero figlio di operai, viene assunto come impiegato dalla Edisonvolta all’età di diciotto anni, grazie all’aiuto del padre che vi ha lavorato precedentemente. Appassionato di teatro, cura all’interno dell’azienda l’organizzazione e la regia di alcuni spettacoli, diventando per la Edisonvolta il soggetto più ideale per tentare un cinema industriale, sulla scia del modello statunitense. E così gli viene affidata nel 1953, quando aveva soltanto ventidue anni, una cinepresa 16mm. Un incontro fortuito, un primo passo all’interno di una lunga e dedita carriera. Tra il 1953 e il 1961 si cimenta nella sua prima esperienza cinematografica, un documentario industriale, che gli permette di prendere familiarità con il mezzo e sperimentare con le sue risorse tecnico-espressive. Si tratta di un cinema su commissione, volto a restituire l’immagine che l’industria vuole dare di sé allo spettatore, mostrando il funzionamento delle macchine con un commento didascalico e dettagliato, e i lavoratori sul campo. Nonostante il vincolo professionale, Olmi fa emergere già alcune sue caratteristiche peculiari, che avrebbe sviluppato di più nelle successive opere indipendenti. Lo sguardo documentaristico, che limita la voice-over a interventi mirati e discreti, mira all’interno del cuore ferroso del progresso, per poi far emergere il proprio orientamento personale spostando la macchina da presa verso i lavoratori. L’interesse è verso il privato di questi operai specializzati, attraverso la ripresa dei gesti che articolano il loro ritmo vitale. Indugia sulle loro fisionomie da cui emerge un ritratto emotivo e individuale, sia che si tratti di uno scambio divertito tra colleghi durante la pausa, oppure dell’ombra della fatica, a contatto con la natura alpina, cogliendo in un accenno pervasivo la solitudine dell’uomo isolato nella montagna. L’adesione alla propaganda della Edisonvolta non è mai totale: la poetica e i valori personali spingono per uscire nella materia filmica, cercando di interrogare lo stesso progresso come tale, una possibile conciliazione tra il sistema industriale e chi vi sottosta, alimentandolo e servendolo. I primi passi di un importante elemento del cinema olmiano si fanno strada nel margine di libertà creativa dato: cogliere l’influenza sul singolo dell’avanzamento sociale, sempre più veloce della singola percezione del cittadino, con particolare attenzione alla dignità del lavoro, che si replicherà nel passaggio al lungometraggio narrativo. Il tempo si è fermato (1958), Il posto (1961) e I fidanzati (1963) costituiscono infatti un’ideale trilogia del lavoro. Si tratta di un passaggio di genere labile, dove il documentarismo non è mai abbandonato, pur facendosi strada una costruzione finzionale. Infatti condivide con il neorealismo appena tramontato non soltanto un approccio penetrante e asciutto sulla realtà quotidiana dei più umili, ma anche l’uso di attori non professionisti, i quali interpretano sé stessi, attaccati al vissuto quotidiano della propria condizione sociale. Si è del tutto fuori da una spettacolarizzazione narrativa, dai canoni e dagli interessi del cinema classico (hollywoodiano). Invece di un’economia del tempo che elimini gli spazi di noia – come direbbe Hitchcock – e mostri ogni scena come funzionale a una trama, lo stesso concetto di trama si sfalda, si indebolisce per favorire un documentario della realtà ambientale e umana, nelle sue singole e numerose variazioni. «Una delle sue qualità meno discutibili è la capacità di dare al superfluo il valore del necessario, all’aneddoto l’importanza del documento, alla minuta realtà gli scatti dell’universale» disse giustamente Morando Morandini nel suo Ermanno Olmi, edito da Il castoro. Al contrario dei corti industriali che condensano in pochi minuti il lavoro di anni, si opera dunque un rallentamento e una valorizzazione crescente del silenzio. In fondo tutto il cinema olmiano è di silenzi. Una prerogativa esplicitata dallo stesso autore, che dice «[…] forse nel cinema i silenzi sono l’opportunità per fare il miglior cinema. In letteratura, quando i due dialoganti smettono di dialogare, lo scrittore continua e descrive. Nel cinema questi silenzi possono esserci anche quando i due dialogano. Mentre i due parlando, vedi un fuoricampo, senti le voci del dialogo, vedi altre cose […]. Nel cinema non hai la parola per descrivere l’interiorità: la devi esprimere con le immagini», un silenzio che poi si sublimerà ne L’albero degli zoccoli (1978), dove la stessa comunicazione verbale appare superflua, frutto di un’intesa che scavalca le generazioni, grazie a una vita fusa con i ritmi perenni della natura, che provocano un quadro di idee e valori ereditati, vissuti con serena accettazione.

Natale Rossi e Roberto Seveso ne Il tempo si è fermato. Foto: filmexplorer.ch

L’albero degli zoccoli condivide un tipo di osservazione umanistica dall’esterno, già presente nel lungometraggio narrativo di esordio Il tempo si è fermato («un racconto di comportamenti più e prima ancora che di psicologie»[2]), con un’attenzione meticolosa a gesti quotidiani che compongono una tranquilla stasi. In quest’ultimo, fuori dai centrali processi produttivi dei corti industriali, si guarda invece a Roberto e Natale, guardiani invernali di una diga sul monte Adamello. I due organizzano i propri giorni attorno all’adattamento a una natura fredda, ostile, e si trovano a vivere sotto lo stesso tetto, da sconosciuti isolati dai propri affetti, un po’ diffidenti uno dell’altro, finendo per familiarizzare, accordare le proprie differenze e trovare sollievo dalla solitudine. Emerge qui un’ulteriore costante, ovvero il confronto tra il vecchio e il nuovo, nient’altro che una branca del confronto tra il passato rurale e il presente urbano, del boom economico e degli inediti stili di vita che apporta nel popolo italiano. Natale è un uomo adulto, attaccato a solidi principi morali, mentre Roberto è un giovane universitario, spensierato e di costumi più allentati rispetto alla pudicizia di una volta, che investe l’abitazione di Natale con il proprio mondo, la musica rock di Celentano, le varie particolarità del vivere una sessione d’esami universitari, sconosciuta a Roberto, quasi intimorito, che ha solo frequentato le elementari. Si tratta di un dialogo aperto e vissuto biograficamente dal regista, che vede in Natale, e nei personaggi analoghi di altri film (come il vecchio padre di Giovanni ne I fidanzati) suo padre, e in Roberto, o in Domenico de Il posto, sé stesso e gli altri coetanei, che si affacciano su un mondo lavorativo già diverso, con speranze non ancora intaccate dalla durezza della vita. Da una parte la sapienza dell’anziano, molto rispettata dal cineasta, dall’altra l’ignoto su cui si affaccia il giovane. Le particolarità più oggettive sono molte, ad esempio l’uso di espressioni dialettali che caratterizza la generazione matura e anziana, e poi l’italiano con influssi e cadenze regionali ma più uniformato dei giovani (di solito milanesi), dal laconico Domenico all’affabile, socievole Andrea de La cotta (1967).

Domenico (Sandro Panseri) ne Il posto. Foto: wikipedia.it

Colletti blu e colletti bianchi, dove quest’ultimi allora sono l’emblema dell’industrializzazione: ne Il posto, uno dei film più belli di Olmi, il focus si allontana dal sodalizio tra risorse naturali e uomo de Il tempo si è fermato e guarda invece agli sfasamenti e grigiori di Milano, dove Domenico ha la possibilità di ottenere un posto di lavoro presso una grande azienda se passerà una serie di prove: un posto importante secondo la sua famiglia, che potrebbe garantirgli di essere sistemato a vita. Lo sguardo del giovane, non soltanto dell’adolescente ma anche del bambino (L’albero degli zoccoli, Il mestiere delle armi), è essenziale per Olmi per poter donare freschezza allo sguardo sul tessuto sociale in cui si immerge, pure se fosse oggetto di allarme (Il posto, Il mestiere delle armi) e non di ammirazione carica di affettività (L’albero degli zoccoli). Il posto dopotutto è ancora attuale nel registrare una gamma di toni di sfumatura infinitesimale del giovane alle prese con il mondo del lavoro per la prima volta, ovvero con il mondo adulto di cui presto farà parte: l’iniziale impaccio nel districarsi tra le numerose procedure per conquistarsi un posto di lavoro, la cui urgenza oggi è più viva che mai, la fortissima differenza tra il mondo della scuola e dell’infanzia e poi la realtà così nuova dell’azienda. Un vago timore nel muoversi in esso, una goffa ignoranza data dall’inesperienza, un senso di perplessità (anch’esso nient’affatto estinto) davanti alla tortuosità burocratica. La spia d’allarme è però data dal presagio delle conseguenze del boom economico e delle modalità che causa: si insinua ancora tacitamente, come un’ombra inquietante sugli occhi così intensi dell’attore Sandro Panseri (Domenico) – che dà una performance sottile e straordinaria – il presentimento di un futuro impoverito, in contrasto con la ricchezza annunciata dal contesto storico-sociale, dove è piuttosto l’intimismo timido, la spiritualità ad accusare il colpo. Proprio perché è essenziale per Olmi la dignità nel lavoro, a metà tra il suggerimento dato dallo spettatore e la percezione infantile ma recettiva di Domenico, si denuncia una spersonalizzazione dell’individuo, incasellato in anonime celle impiegatizie e sottoposto a ritmi e riti sociali dove al lavoratore si toglie il sé più florido per una lastra di esamina, impersonale, chirurgica, che riempie una serie di valori pre-impostati dalle nuove logiche industriali. È emblematico e frequentemente citato il finale di Il posto. Dopo un periodo come fattorino presso il reparto tecnico, che gli impedisce un contatto prolungato con un suo recente interesse sentimentale, Antonia, assunta in un’altra sede come dattilografa, Domenico riesce finalmente ad ottenere un posto di impiegato, liberato da un collega deceduto. Il ragazzo ha un oscuro presentimento del proprio futuro. Mentre viene guardato con sospetto dai colleghi più anziani, asserviti alla logica dell’azienda, rancorosi e competitivi, Olmi inquadra i superiori che, notando alcuni effetti personali rimanenti del precedente impiegato, li distruggono con un ciclostile. Olmi fa un primo piano di Domenico, che guarda proprio questo gesto, con il rumore fuoricampo del ciclostile che cancella tutto, cancella degli oggetti che sono – in piena poetica olmiana – simbolo della vita individuale dell’impiegato, considerati semplice merce di rifiuto, senza alcuna utilità. Il rumore del ciclostile diventa un tarlo mentale, un piccolo incubo che riecheggia nei titoli di coda e nella coscienza dello spettatore, che insieme al protagonista intuisce a quale futuro si è stati consegnati. La conquista del posto è un premio ottenuto, luccicante di falsa sicurezza, e in cui si teme di essersi scavati una tomba prematuramente, consegnati alle fauci del capitalismo. I turbamenti della gioventù, che si colorano di ipotesi sentimentali, si legano ad una più generale simpatia per i «cuori semplici», di estrazione piccolo-borghese o popolare, come si vede ne La cotta, mediometraggio per la televisione incluso nel film a episodi Racconti di giovani amori (1967). A proposito di quest’ultimo Olmi disse: «Con le storie dei Giovani raccontavo storie d’amore che i ragazzi mi raccontavano in un momento in cui i giovani, invece, secondo schemi falsamente culturale, venivano dichiarati tutti protesi verso la politica, verso i problemi sociali.. Allora qual è il dovere di noi autori? Di segnalare continuamente alla società tutti quei fiumi sotterranei». Essenziale è questo ripiegamento verso il privato ancora intimistico, malinconico, crepuscolare, di oscuri presagi più che militante, di contro alle imposizioni ideologiche e culturali del tempo, dove il cinema era considerato urgente e significativo nel momento in cui era politicamente impegnato (e schierato), e dove la critica cinematografica leggeva e decifrava le nuove uscite nazionali attraverso un occhio fortemente politicizzato, rischiando di travisare delle specificità che esulavano da ciò. Il lavoro di Olmi, oltre che mostrare un’altra fetta di realtà sociale, altre versioni e altre esperienze, è anche frutto di un’artista che non si propone come interprete politico, ma cantore, rapsodo poetico. Si usa qui il termine rapsodo, cantore dell’epica greca, orale, non perché ci sia un’analogia stretta con la forma di diffusione culturale, non veicolata dalla parole ma dallo sguardo e dall’espressione visuale, ma condivide con essi o con un Esiodo (in parte un Erodoto) appunto l’epica popolare, della vita semplice, talvolta proprio rurale (ancora L’albero degli zoccoli) raccolta dalle storie del mondo, e l’importanza del depositare queste semplici gesta, straordinarie nella loro ordinarietà, nella propria memoria, per una condivisione poi collettiva. Fu proprio L’albero degli zoccoli ad essere investito da una critica di inedita asprezza per la carriera di Olmi fino ad allora, complice il grande successo internazionale e la vittoria della Palma d’Oro a Cannes: se da una parte si spendevano elogi per il lirismo elegiaco del film, dall’altra non erano affatto pochi, e molti di più che all’estero, i dissensi e riserve. L’albero degli zoccoli fa parte di un discostamento dalla contemporaneità, dopo La circostanza (1974), per ripiegare invece sul passato storico, iniziato già da I recuperanti (1970). Sintomo forse di un’artista esacerbato dai tumori covati dal coevo tessuto sociale, concepito in maniera sempre più desolata e pessimistica (Un certo giorno, La circostanza) e da cui si discosta per ritrovare luminosità, una concordanza poetica, alla maniera di un ricordo d’infanzia. Non si deve rischiare però di ridurre tutto ad una mera lettura nostalgica de L’albero degli zoccoli, com’è accaduto proprio alla critica di allora. Peppino Ortoleva parla acutamente di «ecologia della memoria»[3], in linea con un ruolo di trasmissione di una memoria personale, che possa essere utile per la collettività contemporanea. Infatti al centro del film c’è un gruppo di contadini della campagna bergamasca tra il 1897 e il 1898: Olmi, di nuovo in una poetica di dilatazione temporale e minuziosa attenzione al piccolo, restituisce i ritmi vitali e le prassi di allora, alla maniera di una cristallizzazione ammirata. Gli si rimproverò di non aver incluso nella sua rappresentazione, a metà di nuovo tra documentario e finzione, la lotta di classe, di aver mostrato uno spirito contadino idealizzato, non rivoltoso, ma stoico, possibile strumento di una facile retorica legata. Indubbiamente ha lasciato fuori il «versante in ombra, quello della grettezza, dell’avidità, della violenza, degli odii feroci, che ha pure indicato di scorcio, in cadenze bonarie e, con l’episodio della moneta nascosta nello zoccolo del cavallo e i litigi tra Finardi padre e figlio. Anche in questo occultamento, comunque, Olmi è stato fedele a sé stesso e alla sua pietas»[4]. Tuttavia l’attenzione alla timidezza e i delicati sentimenti legati ad uno o l’altro gruppo di vita e spirito semplice, non deve far pensare che Olmi si riduca a questo tipo di cinema modesto, pacato, mitigato al confronto con la cinematografia italiana più nota. Non è un cinema semplice dal punto di vista formale, come sarà sempre più evidente da I fidanzati in poi, fino all’esperimento notevole de Il mestiere delle armi – se ne parlerà più approfonditamente nella seconda parte di questo percorso – né è un cinema soltanto interessato agli umili di buon cuore, ma ha attraversato pure zone oscure dove il focus si è spostato da personaggi di estrazione medio-bassa ad altre regioni della realtà circostante, nel cuore del privilegio, di chi orchestra il progresso stesso e non lo subisce soltanto, come accade in Un certo giorno (1969) e La circostanza. Sono proprio al centro di quel motivo esacerbato di cui si è accennato prima, ben fuori dalle parziali speranze di altri film: esemplare in questo caso è Un certo giorno, il cui protagonista è un pubblicitario, la cui vita è sconquassata da un evento accidentale: durante un trasferimento di lavoro senza accorgersene investe un operaio, incorrendo in una colpa morale e legale che lo porterà a riconsiderare la propria esistenza. Olmi qui, con il consueto occhio documentaristico, dedica un’ampia parte ad un’osservazione attenta della fucina del consumismo contemporaneo, la pubblicità. In questo spazio infatti essa è studiata, progettata a tavolino, definito da Olmi un luogo del delitto (poi in modo letterale, con l’incidente automobilistico), dove si falsano le vere necessità dell’uomo per creare bisogni e assuefazioni del tutto indotte e artificiali. Ancora più che ne Il posto o I fidanzati, vi è l’acuta alienazione di chi accusa un vuoto ancora più stridente, e ancora di più emerge il passaggio tra la campagna – da cui viene lo stesso protagonista – alla città, il movimento galoppante di essa, in senso motorio e ovviamente figurato (come si vede ancora meglio in Milano ‘83), delle sue mode del tutto programmate e di rapida sparizione, che si lascia contagiare dall’indifferenza, mandando alla deriva i rapporti inter-personali, scolorendoli. È il movimento meccanico dell’ingranaggio in un grigio meccanismo, che attraverso l’imprevisto salta, potendo guardare così da una nuova prospettiva il piegamento compiuto verso nuovi e falsi idoli.

[1] La bottega degli sguardi. Vent’anni di Ipotesi Cinema, Marco Bertozzi, in Ermanno Olmi: il cinema, i film, la televisione, la scuola a cura di Adriano Aprà, 2003, Marsilio.
[2] Il Morandini: dizionario dei film 2001, Morandini, Zanichelli.
[3] L’albero degli zoccoli, Peppino Ortoleva in Ermanno Olmi: il cinema, i film, la televisione, la scuola a cura di Adriano Aprà, 2003, Marsilio.
[4] Ermanno Olmi, Morando Morandini, Il Castoro, 2009.

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